Kitabı oku: «Tuareg», sayfa 3
Di notte cercò una piccola duna, scavò una buca scansando anche la sabbia umida, per raggomitolarsi e dormire quasi coperto dalla sabbia asciutta, poiché sapeva che, dopo la pioggia, l’alba avrebbe portato il freddo nella pianura e il vento avrebbe trasformato in brina gelata le gocce d’acqua che c’erano ancora sulle pietre e sui cespugli.
Ci potevano essere più di cinquanta gradi di differenza nel deserto tra la massima temperatura di mezzogiorno e la minima nell’ora che precedeva l’alba e Gacel sapeva per esperienza che quel freddo traditore riusciva a penetrare nelle ossa del viaggiatore incosciente, lo indeboliva e rendeva per giorni le articolazioni del suo corpo, doloranti e come anchilosate.
Tre cacciatori erano stati trovati congelati nelle pietraie dei contrafforti dell’Huaila e Gacel ricordava ancora i loro cadaveri, stretti l’uno all’altro, uniti dalla morte, in quel freddo inverno in cui la tubercolosi si portò via anche il suo piccolo Bisrha; sembravano sorridere. Poi il sole seccò i loro corpi, disidratandoli e
dando un macabro aspetto alla loro pelle pergamenacea e ai loro denti brillanti.
Era una terra dura quella, in cui un uomo poteva morire di caldo o di freddo in poche ore e in cui una cammella cercava acqua inutilmente per giorni, per morire affogata improvvisamente una mattina.
Una terra dura, e tuttavia Gacel non concepiva la vita in nessun altro luogo, né avrebbe cambiato la sua sete, il suo caldo e il suo freddo nella pianura senza frontiere per la comodità di qualunque altro mondo limitato e senza orizzonti, e ogni giorno, in ciascuna delle sue preghiere, col viso rivolto all’Est, verso La Mecca, ringraziava Allah di permettergli di vivere dove viveva e di appartenere alla benedetta razza del Popolo del Velo, della Lancia o della Spada.
Si addormentò con il desiderio di Laila e al risveglio il duro corpo di donna che stringeva nel sogno si era trasformato in morbida sabbia che scorreva tra le dita.
Piangeva il vento nell’ora del cacciatore.
Contemplò le stelle che gli dissero quanto mancava ancora perché la luce le cancellasse dal firmamento, chiamò nella notte e gli rispose il soave barrire del suo mehari che brucava gli umidi cespugli. Lo sellò e riprese la marcia; verso sera intravide lontano cinque macchie scure che si distaccavano nella pianura pietrosa: l’accampamento di Mubarrak-ben-Sad, Yimohag del Popolo della Lancia che aveva condotto i soldati fino alla sua jaima.
Disse le sue preghiere e si sedette poi su di una roccia liscia a contemplare il tramonto, immerso nei suoi foschi pensieri, poiché capiva che quella doveva essere l’ultima notte in cui poteva dormire in pace in questa vita. All’alba avrebbe dovuto aprire la elgebira delle guerre, delle vendette e degli odi e mai e poi mai
nessuno avrebbe potuto sapere quanto fosse profonda, piena di morte e violenza.
Cercò anche di capire i motivi che avevano spinto Mubarrak a infrangere le più sacre tradizioni targui, ma non ne trovò nessuno. Era una guida del deserto, una buona guida senza alcun dubbio, ma una guida targui aveva l’obbligo di impegnarsi unicamente a condurre carovane, a braccare la selvaggina o ad accompagnare i francesi nelle loro strane spedizioni in cerca di ricordi degli antenati. Mai, per nessuna ragione, un targui aveva il diritto di entrare senza permesso nel territorio di un altro imohag, e ancor meno conducendo stranieri incapaci di rispettare le antiche tradizioni.
Quando quella mattina Mubarrak-ben-Sad aprì gli occhi, un brivido gli percorse la schiena, la paura che da giorni lo assaliva nei sogni lo aggredì adesso da sveglio e, istintivamente, si voltò verso l’entrata della sua sheriba, temendo di trovare ciò che veramente temeva. Lì, in piedi, a trenta metri di distanza, appoggiato all’impugnatura della sua lunga takuba conficcata a terra, Gacel Sayah, nobile inmouchar di Kel-Talgimus, lo aspettava deciso a chiedergli ragione dei suoi atti.
Prese a sua volta la sua spada e avanzò molto lentamente, con fare deciso e dignitoso, per fermarsi a cinque passi di distanza.
«Metulem, metulem», salutò usando l’espressione preferita dai tuareg.
Non ottenne risposta e in realtà neanche la aspettava. Aspettava però la domanda.
«Perché lo hai fatto?»
«Mi ha obbligato il capitano del posto militare di Adoras.»
«Nessuno può obbligare un targui a fare ciò che non desidera.»
«Sono tre anni che lavoro con loro. Non potevo rifiutarmi. Sono guida ufficiale del governo.»
«Hai giurato, come me, di non lavorare mai per i francesi.»
«I francesi sono andati via. Adesso siamo un paese libero.»
Per la seconda volta in pochi giorni due persone diverse gli avevano detto la stessa cosa e, improvvisamente, si rese conto che né l’ufficiale né i soldati indossavano l’odiata divisa coloniale. Nessuno era europeo, né parlavano con il forte accento con cui erano soliti parlare e sui loro veicoli non sventolava l’onnipresente bandiera tricolore.
«I francesi hanno sempre rispettato le nostre tradizioni», mormorò infine quasi per se stesso. «Perché non si rispettano adesso che siamo liberi?»
Mubarrak alzò le spalle.
«I tempi cambiano», disse.
«Non per me», fu la risposta. «Quando il deserto diventerà un’oasi, l’acqua scorrerà liberamente per le sekias e la pioggia cadrà sulle nostre teste tutte le volte in cui ne avremo bisogno, allora cambieranno le usanze dei tuareg. Mai prima.»
Mubarrak mantenne la calma nel domandare: «Questo vuol dire che sei venuto a uccidermi?»
«Per questo sono venuto.»
Mubarrak assentì in silenzio, comprensivo, poi guardò a lungo intorno a sé, la terra ancora umida e i piccoli germogli di acheb che lottavano per affacciarsi tra le rocce e i sassi.
«È stata bella la pioggia», disse.
«Molto bella.»
«Presto la pianura si riempirà di fiori e uno dei due non potrà vederla.»
«Avresti dovuto pensarci prima di portare gli stranieri nel mio accampamento.»
Mubarrak abbassò il suo velo e le sue labbra si mossero in un lieve sorriso. «Allora non era ancora piovuto», rispose. Poi, molto lentamente, sfoderò la sua takuba liberando il brunito acciaio dal fodero di cuoio sbalzato. «Prego che la tua morte non scateni una guerra tra tribù», aggiunse. «Nessuno dei nostri dovrà pagare per le nostre colpe.»
«Così sia», replicò Gacel inchinandosi pronto a ricevere il primo attacco.
Ma questo tardò a venire, perché Mubarrak e Gacel non erano più guerrieri di lancia e spada, ma uomini da arma da fuoco, e le lunghe takubas si erano ridotte, con il passare degli anni, a un puro oggetto di ornamento e da cerimonia, utilizzate, nei giorni di festa, per esibizioni incruente in cui si cercava più l’effetto del colpo contro lo scudo di cuoio o la fìnta abilmente schivata che l’intenzione di ferire.
Ma in quel momento non c’erano né scudi né spettatori disposti ad ammirare salti e capriole mentre l’acciaio lanciava scintille evitando, più che cercando, di far danno all’avversario, e l’avversario ghermiva la sua arma deciso a uccidere per non essere ucciso.
Come parare il colpo senza scudo? Come riprendersi da un salto o da una difficoltà se il rivale non era disposto a concedere l’attimo di recupero?
Si guardarono cercando di scoprire le mutue intenzioni, girando lentamente l’uno intorno all’altro, mentre dalle jaìmas cominciavano a uscire delle ombre, donne e bambini che li osservavano in silenzio, senza voler accettare che si affrontavano in una vera lotta e non in una simbolica finzione.
Alla fine Mubarrak sferrò il primo colpo che era quasi una timida domanda, un desiderio di constatare se si trattava veramente di una lotta all’ultimo sangue.
La risposta, che gli fece fare un salto indietro evitando di pochi centimetri la furiosa lama del suo nemico, gli fece gelare il sangue nelle vene, Gacel Sayah, immouchar del terribile popolo del Kel-Talgimus, voleva ucciderlo, non c’era dubbio. C’era tanto odio e tanto desiderio di vendetta nel fendente che aveva appena tirato, come se gli sconosciuti ai quali aveva offerto un giorno ospitalità fossero in realtà i suoi figli prediletti e lui, Mubarrak-ben-Sad, li avesse assassinati di persona.
Ma Gacel non sentiva un vero odio. Gacel stava cercando solo di fare giustizia e non gli sembrava nobile odiare il targui che si era limitato a compiere il suo lavoro, per quanto fosse un lavoro equivoco e non degno di rispetto. Gacel sapeva, inoltre, che l’odio, come l’ansietà, la paura, l’amore, o qualunque altro sentimento profondo non erano buoni compagni per l’uomo del deserto. Per sopravvivere nella terra dove era nato era necessario avere grande calma, sangue freddo e dominio di se stessi sempre al di sopra di qualunque altro sentimento che l’avrebbe portato a commettere degli errori che sarebbe stato difficile correggere.
Ora Gacel sapeva che stava agendo da giudice e forse anche da boia e né l’uno né l’altro odiavano la propria vittima. La forza del suo fendente, l’ira che portava dentro, non erano state altro che un avviso; una chiara risposta alla chiara domanda che il suo sfidante gli aveva posto.
Attaccò di nuovo e comprese all’improvviso l’inadeguatezza dei suoi lunghi vestiti, il suo ampio turbante e il suo largo velo. I jaiques gli si arrotolavano ai piedi e alle braccia, le nails di grosso cuoio e le sottili strisce di pelle di antilope scivolavano sulle pietre aguzze e il litham gli impediva di vedere con chiarezza e
di immagazzinare nei polmoni tutto l’ossigeno di cui aveva bisogno in un momento come quello.
Ma Mubarrak vestiva in modo simile per cui anche i suoi movimenti erano insicuri.
Le lame sventagliarono nell’aria, fischiando furiose nella calma della mattina, e una vecchia sdentata lanciò un grido di terrore e supplicò che qualcuno uccidesse con un colpo quello sporco sciacallo che cercava di uccidere suo figlio.
Mubarrak alzò il braccio con un gesto autoritario e nessuno si mosse. Il codice d’onore dei Figli del Vento, tanto diverso dal mondo fatto di tradimenti e bassezze dei beduini Figli delle Nuvole, esigeva che il combattimento fra due guerrieri fosse limpido e nobile anche se doveva costare la vita.
Lo aveva affrontato frontalmente e così lo avrebbe ucciso. Cercò un punto fermo sotto i suoi piedi, respirò profondamente, lanciò un grido e si gettò in avanti, contro il petto del suo nemico che scansò la punta della sua spada con un colpo duro e secco.
Nuovamente calmi si guardarono ancora una volta. Gacel brandì la sua takuba come se fosse una mazza e diede un fendente come un mulinello, dall’alto in basso. Qualunque apprendista di scherma avrebbe approfittato del suo errore per infilzarlo con una stoccata, ma Mubarrak si accontentò di scansarsi e di aspettare, confidando più nella sua forza che nella sua abilità. Impugnò l’arma con due mani e vibrò un colpo capace di tagliare in due un uomo molto più grosso di Gacel, ma Gacel non era lì per farsi tagliare in due. Il sole cominciava a riscaldare con forza e il sudore scorreva lungo i loro corpi, bagnando le palme delle mani e rendendo insicure le metalliche impugnature delle spade che si alzarono nuovamente. Si studiarono, si lanciarono contemporaneamente l’uno sull’altro, ma, all’ultimo istante, Gacel si gettò indietro, permettendo che la punta dell’arma di Mubarrak Squarciasse la tela del suo ìaique graffiandogli il petto e infilzò il suo nemico nel ventre, passandolo da parte a parte.
Mubarrak rimase in piedi per alcuni istanti, sorretto più dalla spada di Gacel che dalle proprie gambe e, quando l’altro estrasse l’arma lacerando la sua parete intestinale, rimase disteso sulla sabbia, piegato in due su se stesso, deciso a sopportare in silenzio, senza un lamento, la lunga agonia che il destino gli preparava.
Poco dopo, mentre il suo carnefice si incamminava, lentamente, né felice né orgoglioso, verso la cavalcatura che lo aspettava, la vecchia sdentata entrò nella più grande delle jaimas, prese un fucile, lo caricò, arrivò fino a dove suo figlio si torceva dal dolore senza un lamento e glielo puntò alla testa.
Mubarrak aprì gli occhi e lei lesse in quello sguardo Pinfinito ringraziamento di un essere che stava per essere liberato da lunghe ore di sofferenza senza speranza.
Gacel sentì lo sparo nel momento in cui il suo cammello riprendeva la marcia, ma non si voltò indietro.
Avvertì in lontananza, più che vederlo, un branco di antilopi e questo gli ricordò quanto grande fosse la sua fame.
Aveva passato i due giorni precedenti mangiando solo alcune manciate di farina di miglio e datteri, preoccupato per il suo scontro con Mubarrak, ma in quel momento la sola idea di un buon pezzo di carne che si cuoceva lentamente su un fuoco di brace gli rivoltò le budella.
Si avvicinò lentamente al bordo della grara guidando per la cavezza il suo cammello, attento che il vento non ne portasse l’odore fino alle bestie che pascolavano la vegetazione corta e dispersa della depressione che in tempi molto remoti doveva essere stata una laguna o l’allargamento di un fiumiciattolo e che conservava ancora nelle sue viscere resti di umidità.
Timidi tamarischi e una mezza dozzina di acacie nane erano sparsi qua e là, e fu contento di verificare che il suo istinto di cacciatore gli era stato fedele ancora una volta, perché lì in fondo una famiglia di magnifici animali dalle lunghe corna e dal pelo rossiccio
che brucava o dormiva al sole dell’imbrunire sembrava invitarlo a sparare.
Caricò il fucile con una sola pallottola, poiché così evitava la tentazione, se sbagliava il primo colpo, di provarne un secondo alla disperata quando le agili bestie avessero ormai intrapreso la fuga a grandi salti. Gacel sapeva per esperienza che il secondo tiro, quasi a caso, raramente faceva centro e significava uno spreco, mentre invece le munizioni, nel deserto, erano tanto rare e necessarie quanto la stessa acqua.
Lasciò libero il mehari che cominciò subito a pascolare disinteressandosi di ciò che non fosse il suo alimento, rivitalizzato e reso appetitoso dalla pioggia caduta, e avanzò in silenzio, quasi trascinandosi, da una roccia al ritorto tronco di un arbusto; da una piccola duna a un cespuglio, fino a raggiungere infine il luogo adatto, un monacello di pietra dal quale dominava, a meno di trecento metri di distanza, la snella figura del grande maschio del branco.
«Quando abbatti un maschio un altro più giovane prende immediatamente il suo posto e copre le sue femmine», gli aveva detto suo padre. «Quando uccidi una femmina, stai uccidendo anche i suoi figli e i figli dei suoi figli, che dovranno alimentare i tuoi figli e i figli dei tuoi figli.»
Preparò la sua arma e mirò con attenzione al petto, all’altezza del cuore. A quella distanza un colpo in testa era senza dubbio più efficace, ma Gacel, da buon musulmano, non poteva mangiare carne che non fosse stata uccisa con il muso rivolto verso La Mecca, pronunciando le preghiere che’aveva ordinato il Profeta. Uccidere l’antilope in quel modo sarebbe stato come sprecarla, e preferiva correre il rischio che scappasse ferita, perché sapeva bene che con una pallottola nei polmoni non sarebbe arrivata molto lontano.
L’animale alzò improvvisamente il muso, annusò il vento e si innervosì leggermente. Poi, dopo quella che gli sembrò un’eternità, ma che non furono più di due minuti, gettò lo sguardo sul branco assicurandosi che non corresse pericolo e riprese a mordicchiare un tamarisco.
Quando fu completamente sicuro che non poteva sbagliare e che l’animale non avrebbe fatto un salto al l’improvviso o iniziato un movimento strano, Gacel tirò dolcemente il grilletto, la pallottola partì con un urlo rigando il vento e l’antilope cadde in ginocchio come se le avessero segato le quattro zampe o il suolo fosse improvvisamente salito verso di lei come per magia.
Le sue femmine lo guardarono senza interesse né paura, perché anche se lo sparo aveva rintronato l’ambiente non era legato all’idea di pericolo e morte, e solo quando videro giungere l’uomo che correva con le vesti al vento brandendo un coltello cominciarono a correre per perdersi di vista nella pianura.
Gacel arrivò fino alla preda ferita che fece un ultimo sforzo per sollevarsi e seguire il suo branco, ma qualcosa dentro di lei si era rotto e niente obbediva al comando della sua mente. Soltanto i suoi occhi, enormi e innocenti, rispecchiarono la grandezza della sua angoscia quando il targui la prese per le corna, gli rivoltò il muso verso La Mecca e la sgozzò con un taglio deciso della sua affilata sciabola.
Il sangue sgorgò a zampilli schizzandogli i sandali e il bordo del jaique, ma Gacel non ci badò, soddisfatto nel verificare che la sua mira ancora una volta era stata eccellente e che aveva colpito la preda nel punto desiderato.
Il tramonto lo sorprese mentre stava ancora mangiando e le prime stelle non erano ancora apparse che già
dormiva, protetto dal vento da un cespuglio e riscaldato dalla brace del focolare.
Lo svegliò il ridere delle iene che accorrevano al richiamo dell’antilope morta e vide che giravano intorno anche gli sciacalli, per cui alimentò il fuoco che li allontanò fino al limite delle ombre e rimase così sdraiato con la faccia al cielo, ascoltando il vento e meditando sul fatto che quel giorno aveva ucciso un uomo, il primo che uccideva nella sua vita, e questo significava che la vita non poteva essere più la stessa da allora in poi.
Non si sentiva colpevole, perché considerava giusta la sua causa, ma lo preoccupava la possibilità che si trasformasse in una di quelle scatenanti guerre fra tribù di cui aveva tanto sentito parlare dagli anziani, nelle quali arrivava un momento in cui nessuno sapeva più la causa delle morti, né il nome del promotore. E i tuareg, i pochi imohag che ancora vagavano per i confini del deserto, fedeli alle loro tradizioni e leggi, non potevano eliminarsi gli uni con gli altri, perché dovevano già impegnarsi a difendersi come potevano dall’avanzata della civiltà.
Rievocò la strana sensazione che aveva percorso il suo corpo, quando la sua sciabola era penetrata blandamente, quasi senza sforzo, nel ventre di Mubarrak e gli sembrò di udire ancora il rauco rantolo che era uscito dalla sua gola in quell’istante. Ritirando il braccio fu come se si fosse portato via appesa alla punta della sua takuba la vita del suo nemico ed ebbe paura della possibilità di usare nuovamente la sua sciabola contro qualcuno. Ma poi ricordò il secco rintronare dello sparo che aveva ucciso il suo ospite addormentato e lo consolò l’idea che non poteva esistere perdono per i colpevoli di un simile crimine.
Stava scoprendo che, se amara era l’ingiustizia, ugualmente amaro era cercare di correggerla, perché uccidere Mubarrak non gli aveva dato nessun piacere, bensì una profonda e scoraggiante sensazione di vuoto. Come il vecchio Suflem aveva detto, la vendetta non fa tornare in vita i morti.
Si domandò poi perché fosse sempre stata importante per i tuareg quella legge non scritta dell’ospitalità che si anteponeva a tutte le altre leggi, perfino a quelle coraniche, e cercò di immaginare come sarebbe stato il deserto se il viaggiatore non avesse avuto l’assoluta sicurezza che ovunque fosse andato sarebbe stato ben accolto, aiutato e rispettato.
Raccontano le leggende che in una certa occasione due uomini si odiavano in tale modo che uno di loro, il più debole, si presentò improvvisamente nella jaima del suo nemico sollecitandone l’ospitalità. Rispettoso della tradizione, il targuf accettò il suo ospite, gli offrì la sua protezione e dopo qualche mese, stanco di sopportarlo e di dargli da mangiare, gli promise che poteva andare via in pace perché mai avrebbe attentato contro la sua vita. Da allora, e ciò sembrava accadere da moltissimi anni, quella era diventata una pratica abituale tra i tuareg che risolvevano in quel modo i loro dissensi e ponevano fine ai loro dissidi.
Come avrebbe reagito lui stesso, se Mubarrak si fosse recato al suo accampamento a chiedere ospitalità cercando di farsi perdonare la colpa commessa? Non poteva saperlo, ma probabilmente avrebbe agito come il targuf della leggenda, perché non sarebbe stato logico commettere un delitto per punire chi aveva commesso esattamente quello stesso delitto.
In quel tempo, in cui gli aerei solcavano gli altissimi cieli del deserto e i camion transitavano per le piste più conosciute spingendo la sua razza verso i più nascosti angoli della pianura, non era facile immaginare
per quanto tempo sarebbe vissuta ancora la sua razza in quella pianura, ma per Gacel era chiaro che, finché uno solo di loro fosse sopravvissuto sulle sabbie, sulle infinite pianure senza vita o sulle pietraie senza orizzonti della hamada, la legge dell’ospitalità doveva continuare a essere sacra, in caso contrario nessun viaggiatore si sarebbe più arrischiato ad attraversare il deserto.
Il delitto di Mubarrak non ammetteva discolpe e lui, Gacel Sayah, si sarebbe incaricato di far comprendere a quelli che non erano tuareg che nel Sahara le leggi della sua razza dovevano continuare a essere rispettate, perché erano leggi adatte all’ambiente, senza le quali non sarebbe esistita alcuna possibilità di sopravvivenza.
Arrivò il vento e con lui il giorno. Iene e sciacalli compresero che ormai avevano perso le loro scarse possibilità di mangiarsi un pezzo di antilope e si allontanarono, grugnendo e lamentandosi, verso le loro oscure tane, come tutti gli altri abitanti della notte: il fenec dalle lunghe orecchie, il topo del deserto, il serpente, la lepre e la volpe.
Quando il sole cominciò a riscaldare stavano già dormendo, conservando le loro forze fino a che le ombre della notte avessero nuovamente reso sopportabile la vita nella più desolata regione del paese perché lì, al contrario che nel resto del mondo, le attività si svolgevano di notte e il riposo di giorno.
Solamente l’uomo, nonostante i secoli, non era riuscito ad adattarsi completamente alla notte, e con il primo albeggiare, Gacel cercò il suo cammello che pascolava a poco più di un chilometro di distanza, lo prese per la cavezza e riprese, senza fretta, la sua marcia verso ovest.
IL posto militare di Adoras occupava un’oasi a forma di triangolo, poco più di un centinaio di palme e quattro pozzi, proprio nel cuore dell’estesissimo fiume di dune, per cui poteva considerarsi un autentico miracolo di sopravvivenza minacciato costantemente dalla sabbia che lo accerchiava proteggendolo dal vento e trasformandolo, proprio per questo, in una specie di forno che a mezzogiorno raggiungeva a volte i sessanta gradi centigradi.
Le tre dozzine di soldati che componevano la guarnigione passavano la metà della loro vita maledicendo la loro sorte all’ombra delle palme e l’altra metà spalando sabbia nel disperato sforzo di farla retrocedere per mantenere libera la stretta pista di terra che permetteva di comunicare col mondo esterno e di ricevere provviste e corrispondenza una volta ogni due mesi.
Da quando trent’anni prima un colonnello impazzito aveva avuto l’assurda idea che l’esercito dovesse controllare quei quattro pozzi che erano, d’altra parte, gli unici esistenti in quasi cento chilometri intorno, Adoras era divenuto il «destino maledetto», dapprima solo per le truppe coloniali, in seguito anche per gli indigeni come dimostravano le tombe che si elevavano all’estremità del palmeto, nove dovute a «morte naturale» e sei al suicidio di chi non era riuscito a sopportare l’idea di sopravvivere in un simile inferno.
Quando un tribunale era incerto se mandare un colpevole al muro, condannarlo all’ergastolo o commutargli la pena in quindici anni di servizio obbligatorio ad Adoras, aveva piena coscienza di quello che faceva, per quanto all’inizio il colpevole considerasse che tale commutazione gli fosse favorevole.
Per il capitano Kaleb-el-Fasi, comandante in capo della guarnigione e autorità suprema in una regione estesa quanto metà Italia, ma nella quale vivevano poco più di ottocento persone, i sette anni che trascorreva ad Adoras costituivano la punizione per aver ucciso un giovane tenente che aveva minacciato di svelare le irregolarità dei conti del reggimento nella sua precedente destinazione. Era stato condannato a morte, ma suo zio, il famoso generale Obeid-el-Fasi, eroe dell’indipendenza, grazie al fatto che era stato uno dei suoi aiutanti e uomini di fiducia durante la guerra di liberazione, aveva ottenuto che gli si permettesse di riabilitarsi al comando di un distaccamento militare dove non si poteva inviare nessun altro militare di carriera che non si trovasse nelle stesse condizioni.
Tre anni prima, basandosi unicamente sulle informazioni che erano in suo possesso, il capitano Kaleb era giunto alla conclusione che i componenti del suo reggimento erano colpevoli di più di una ventina di omicidi, di quindici violenze carnali, di sessanta rapine a mano armata e di uno svariato numero di furti, di truffe, di diserzioni e di reati di minore importanza per cui, per dominare una simile truppa, aveva dovuto dare fondo a tutta la sua esperienza, astuzia e violenza. Il
rispetto che infondeva era superato soltanto da quello che imponeva il suo uomo di fiducia, il sergente maggiore Malik-el-Haideri, un uomo magro, piccolo e apparentemente debole e infermo ma così crudele, astuto e valido che era riuscito a controllare una tale combriccola di bestie sopravvivendo a cinque tentativi di omicidio e a due duelli al coltello.
Malik era la «morte naturale» più normale ad Adoras e due dei suicidi erano dovuti a un’estrema insofferenza nei suoi confronti.
Ora, seduto in cima alla più alta duna che dominava l’oasi da est, una vecchia ghourds di più di cento metri di altezza, dorata dal tempo e indurita nel suo interno tanto da trasformare la sabbia quasi in pietra, il sergente Malik osservava senza interesse come i suoi uomini spalavano sabbia dalle giovani dune che minacciavano di sommergere il pozzo più lontano, fino a quando mise a fuoco il binocolo verso il solitario cavaliere che aveva fatto la sua apparizione montando un bianco mehari e che avanzava senza fretta in direzione del posto militare. Si domandò che cosa cercasse un targuf in quei luoghi fuori mano, quando ormai da sei anni avevano smesso di frequentare i pozzi di Adoras evitando ogni contatto con i loro occupanti. Le carovane beduine arrivavano sempre più raramente, facevano rifornimento d’acqua, riposavano un paio di giorni nel punto più appartato dell’oasi cercando di nascondere le loro donne e di non frequentare assolutamente i soldati e riprendevano la marcia sospirando di sollievo che non ci fosse stato alcun incidente. Ma i tuareg no. I tuareg quando sostavano nell’oasi, assumevano un atteggiamento altero e sfrontato e permettevano che le loro donne girassero liberamente con il viso scoperto e le braccia e gambe nude, indifferenti al fatto che quegli uomini non toccavano una donna da anni, e imbracciavano i fucili e le loro affilate sciabole quando qualcuno cercava di eccedere.
Da quando due guerrieri e tre soldati morirono in una rissa, i Figli del Vento avevano preferito cancellare il posto militare dal loro cammino, ma in quel momento quel cavaliere solitario avanzava deciso, abbordava l’ultima cresta, si stagliava contro il cielo dell’imbrunire con le vesti al vento per addentrarsi infine tra le palme e fermarsi vicino al pozzo nord, a un centinaio di metri dalle prime baracche.
L’ufficiale si lasciò scivolare per la duna senza fretta, attraversò l’accampamento e arrivò vicino al targuf che abbeverava il suo cammello capace di bere cento litri d’acqua in un solo sorso.
«Aselam, aleikum.»
«Metulem, metulem», rispose Gacel.
«Hai una buona bestia. E molto assetata.»
«Veniamo da lontano.»
«Da dove?»
«Dal Nord.»
Il sergente Malik-el-Haideri odiava il velo targuf perché si vantava di conoscere gli uomini e di capire, dall’espressione dei loro volti, quando dicevano la verità e quando mentivano. Ma con i tuareg quella possibilità non esisteva, perché lasciavano scoperta appena una fessura per gli occhi, che socchiudevano e rimpicciolivano di proposito nel parlare. Anche la voce suonava distorta e perciò si vide costretto ad accettare per buona la risposta, poiché in effetti lo aveva visto arrivare dal Nord e non aveva motivo per sospettare che Gacel si fosse preoccupato di fare un grande giro e fare sì che lo vedessero avanzare da quella direzione, l’opposta di quella da cui realmente proveniva.
«Dove sei diretto?»
«Al Sud.»
Aveva lasciato che il suo mehari si sdraiasse, soddisfatto e gonfio, con la pancia piena d’acqua, e si dedicava al compito di ammucchiare rami per preparare un piccolo focolare.
«Puoi mangiare con i soldati», gli fece notare.
Gacel sollevò un lembo di coperta e mostrò mezza antilope ancora tumida e coperta di sangue secco.
«Tu puoi mangiare con me, se lo desideri. In cambio della tua acqua.»
Il sergente maggiore Malik sentì che il suo stomaco faceva un salto. Erano più di quindici giorni che i cacciatori non catturavano una preda, perché con gli anni le avevano sempre più allontanate dai dintorni, e tra i suoi soldati non c’era nessun beduino autentico conoscitore del deserto e dei suoi abitanti.
«L’acqua è di tutti», rispose, «ma accetto con piacere il tuo invito. Dove lo hai cacciato?»
Gacel sorrise dentro di sé per il rozzo trabocchetto.
«Al Nord», rispose.
Aveva ormai riunito tutta la legna di cui necessitava e sedutosi sulla coperta della sua cavalcatura, estrasse la pietra focaia e lo stoppino, ma Malik gli offrì la sua scatola di fiammiferi.
«Usa questa», disse. «È più comodo. Tienila. Ne abbiamo molte in fureria.»
Si era seduto di fronte a lui e lo osservava mentre infilzava le zampe dell’antilope nella baionetta del suo vecchio fucile preparandosi ad arrostirle lentamente a fuoco basso.