Kitabı oku: «Tuareg», sayfa 4
«Cerchi lavoro al Sud?»
«Cerco una carovana.»
«Non è periodo di carovane, le ultime sono passate da un mese.»
«La mia mi aspetta», fu l’enigmatica risposta e, poiché avvertì che il sergente lo guardava fisso senza comprendere, aggiunse con lo stesso tono: «Sono più di cinquant’anni che mi aspetta».
L’altro sembrò capire e lo guardò a lungo:
«La Grande Carovana!» esclamò alla fine. «Vai in cerca della Grande Carovana della leggenda? Sei pazzo!»
«Non è una leggenda. Mio zio c’era. E io non sono pazzo. Mio cugino Suleimàn, che vive caricando mattoni per una paga miserabile, sì, che è pazzo.»
«Nessuno di coloro che sono andati in cerca della carovana è tornato vivo.»
Gacel indicò con un gesto della testa le tombe che si intravedevano tra le rade palme, in fondo all’oasi.
«Non saranno più morti di quelli. E se l’avessero trovata sarebbero ricchi per sempre.»
«Ma la terra vuota non perdona. Non c’è acqua, né vegetazione che serva da cibo per il tuo cammello, ombra che ti copra, o alcun punto di riferimento per orientarsi. È un inferno!»
«Lo so», ammise il targuf. «Sono stato lì due volte.»
«Sei stato nelle terre vuote?» ripetè incredulo.
«Due volte.»
Il sergente Malik non ebbe bisogno di vederlo in faccia per sapere che diceva la verità e un nuovo interesse nacque in lui. Aveva trascorso abbastanza anni nel Sahara per dare il giusto valore a un uomo che era stato nelle terre vuote e ne era tornato. Potevano contarsi sulle dita di una mano da Marruecos all’Egitto, e neanche Mubarrak-ben-Sad, guida ufficiale dell’avamposto militare che passava per uno dei migliori conoscitori delle sabbie e delle pietraie, ammetteva di averci tentato. «Ma conosco uno», gli aveva confessato una
volta durante una lunga spedizione alla scoperta del massiccio di Huaila, «conosco un inmouchar del Kel Talgimus che è andato e tornato.»
«Che cosa si avverte lì dentro?»
Gacel lo guardò a lungo e alzò le spalle.
«Nulla. Devi lasciare fuori ogni sentimento. Devi lasciare fuori perfino le idee e vivere come una pietra, attento a non fare nessun movimento che consumi acqua. Anche la notte devi muoverti piano come un camaleonte, solo così riesci a diventare insensibile al caldo e alla sete e, soprattutto, se riesci a vincere il panico e a conservare la calma, solo così hai una remota possibilità di sopravvivenza.»
«Perché lo hai fatto? Cercavi la Grande Carovana?»
«No. Cercavo, in me, i resti dei miei antenati. Loro vinsero le terre vuote.»
L’altro negò convinto.
«Nessuno vince le terre vuote», rispose sicuro di quello che diceva. «La prova è che tutti i tuoi antenati sono morti e che le terre continuano a essere inspiegabili come quando Allah le creò.» Fece una pausa, agitò la testa e chiese come domandando a se stesso: «Perché lo avrà fatto? Perché Allah, capace di creare cose portentose, creò anche questo deserto?»
La risposta di Gacel non era presuntuosa, anche se all’apparenza poteva sembrarlo: «Per poter creare gli imohag».
Malik sorrise divertito.
«Veramente», ammise. «Veramente.» Indicò la gamba dell’antilope. «Non mi piace la carne molto cotta», aggiunse. «Così va bene.»
Gacel sollevò la baionetta, estrasse i due pezzi di carne, gliene offrì uno e con l’aiuto della sua affìlatis q sciabola cominciò a tagliare grosse fette dall’al
«Se qualche volta sarai in difficoltà», disse, «non
cucinare la carne. Mangiala cruda. Mangia qualunque animale che incontri e bevi il suo sangue. Ma non ti muovere. Soprattutto non ti muovere.»
«Ne terrò conto», assentì il sergente. «Ne terrò conto, ma prego Allah di non farmi mai trovare in simili condizioni.»
Conclusero la cena in silenzio, bevvero acqua fresca del pozzo e Malik si mise in piedi e si stirò soddisfatto.
«Devo andare», disse. «Devo fare rapporto al capitano e vedere che tutto sia in ordine. Quanto tempo ti fermerai?»
Gacel alzò le spalle facendo segno che non lo sapeva.
«Capisco. Rimani quanto vuoi, ma non ti avvicinare alle baracche. Le sentinelle hanno l’ordine di sparare a vista.»
«Perché?»
Il sergente Malik-el-Haideri sorrise in modo enig-matico e con un gesto della testa indicò la più appartata delle casette di legno.
«Il capitano non ha molti amici», puntualizzò. «Né lui né io li abbiamo, ma io so badare a me stesso»
Si allontanò quando ormai le ombre cominciavano a scivolare nell’oasi fermandosi ai bordi delle palme, e le voci risuonavano con maggior nitidezza, mentre i soldati ritornavano con le pale in spalla, stanchi e sudati, sospirando il rancio e il pagliericcio che li avrebbe condotti per alcune ore nel mondo dei sogni, lontano dall’inferno di Adoras.
Ci fu un crepuscolo brevissimo, il cielo passò, quasi
senza transizione, dal rosso al nero e subito brillarono le luci nelle capanne.
Solamente l’abitazione del capitano aveva gli scuri che impedivano di vedere ciò che accadeva dentro e, prima che calasse completamente la notte, una sentinella montò di guardia, rigida e con l’arma pronta, a meno di venti metri dalla porta.
Mezz’ora dopo quella porta si aprì e vi si stagliò una figura alta e robusta. Gacel non ebbe bisogno di distinguere le stellette della sua uniforme per riconoscere l’uomo che aveva ucciso il suo ospite. Lo vide rimanere fermo per alcuni momenti, respirando a pieni polmoni l’aria della notte, e accendersi una sigaretta. La luce del fiammifero gli portò alla memoria ogni suo movimento e l’espressione dura e sprezzante dei suoi occhi mentre assicurava che lui era la legge. Si sentì tentato di caricare la sua arma e di ucciderlo con un solo colpo. A una distanza così breve, chiaramente visibile in controluce, si sentiva capace di mettergli una pallottola in testa spegnendo contemporaneamente la sigaretta nella bocca, ma non lo fece. Si limitò a osservarlo a meno di cento metri di distanza, compiacendosi nell’immaginare che cosa avrebbe pensato quell’uomo nel vedere che il targuf che aveva offeso e disprezzato era seduto lì, davanti a lui, appoggiato a una palma e vicino alla brace di un focolare, a meditare se ucciderlo in quel momento o se lasciarlo per dopo.
Per tutti quegli uomini della città trapiantati nel deserto, che non avevano imparato ad amare e che in realtà odiavano, desiderando scappare a qualunque prezzo, loro, i tuareg, non costituivano altro che una parte del paesaggio; tanto erano incapaci di distinguerli l’uno dall’altro.
Non avevano nozione né del tempo, né dello spazio, né degli odori e dei colori del deserto, e nello stesso
do non capivano ciò che distingueva un guerriero del p1 polo del Velo da un imohag del Popolo della Spada, n inrnouchar da un servo, o un’autentica donna tarf libera e forte, da una povera beduina schiava di un harem.
Si sarebbe potuto avvicinare a lui, parlargli per mezz’ora della notte e delle stelle, dei venti e delle gazzelle e lui non avrebbe riconosciuto in «quello straccione puzzolente» colui che aveva cercato di affrontarlo cinque giorni prima. Per anni i francesi avevano cercato invano di fare scoprire il volto ai tuareg.
Infine, convinti che non avrebbero mai abbandonato il velo, dovettero arrivare alla conclusione che non sarebbero mai stati in grado di distinguerli dalla voce o dai gesti e abbandonarono completamente la speranza di differenziarli.
Né Malik, né l’ufficiale, né tutti quei soldati che spalavano sabbia erano francesi, ma erano simili per la loro ignoranza e il loro disprezzo per il deserto e i suoi abitanti.
Quando il capitano finì la sigaretta gettò il mozzicone sulla sabbia, salutò svogliatamente la sentinella e chiuse la porta, da dove si sentì il rumoroso scorrere del pesante catenaccio. Le luci si andavano spegnendo una dopo l’altra e l’accampamento e l’oasi rimasero in silenzio; un silenzio rotto soltanto dal sussurro dei pennacchi delle palme agitati da una leggera brezza e dal lontano grido di uno sciacallo affamato.
Gacel si avvolse nel suo mantello, appoggiò la testa sulla sella, lanciò un’ultima occhiata alle baracche e alla fila dei veicoli e si addormentò.
L’alba lo sorprese mentre, in cima alla palma più carica, gettava a terra pesanti rami di datteri maturi. Ne riempì un sacco; riempì anche di acqua le sue ger bas sellò il mehari che protestò rumorosamente, desiderando rimanere ancora all’ombra vicino al pozzo.
I soldati avevano cominciato a fare la loro apparizione orinando contro le dune e lavandosi il viso nell’abbeveratoio del pozzo più grande; anche il sergente Malik-el-Haideri abbandonò il suo alloggio e si avvicinò con passo rapido e sicuro.
«Te ne vai?» domandò, anche se la domanda era chiaramente inutile. «Credevo che saresti rimasto a riposarti per un paio di giorni.»
«Non sono stanco.»
«Lo vedo. E mi dispiace. Fa piacere a volte parlare con uno straniero. Questa feccia non pensa altro che a rubare o alle donne.»
Gacel non rispose, occupato ad assicurare bene i sacchi in modo che i sobbalzi del cammello non li facessero cadere dopo appena cinquecento metri, e Malik lo aiutò dall’altra parte del cammello, continuando a fargli domande.
«Se il capitano mi desse il permesso, mi porteresti con te alla ricerca della Grande Carovana?»
II targuf negò con un gesto. «La terra vuota non è luogo per te. Solamente noi imohag possiamo penetrarvi.»
«Io porterei tre cammelli. Potremo avere più acqua e più provviste. In quella carovana c’è denaro che avanza per tutti. Ne darei una parte al capitano, con l’altra comprerei il mio trasferimento e me ne rimarrebbe ancora per il resto della vita. Portami con te!»
«No.»
Il sergente maggiore Malik non insistè, ma scorse lentamente con la vista le palme, le baracche e le dune di sabbia che chiudevano tutto dai quattro lati, trasformando il posto militare in una prigione in cui le sbarre erano state sostituite da alte dune che minacciavano di sotterrarli una volta per sempre.
<Ancora undici anni qui!» mormorò quasi tra sé. (<riesco a sopravvivere sarò vecchio, mi hanno nernfmo il diritto al congedo e alla pensione. Dove gat0 p9 >> Si rivolse di nuovo al targui: «Ma non è 311 Ho morire degnamente nel deserto, con la speranza un colpo di fortuna possa cambiar tutto?»
C6«Forse.»
«È quello che provi a fare tu, non è vero? Preferisci rischiare che vivere male trasportando mattoni.»
«Io sono targui. Tu no.»
«Oh, va’ all’inferno, con il tuo maledetto orgoglio Hi razza!» protestò di malumore. «Ti credi migliore perché ti hanno abituato da bambino a sopportare il caldo e la sete? Io ho dovuto sopportare questi figli di puttana e non so che cosa è peggio. Vattene! Quando vorrò andare in cerca della Grande Carovana lo farò da solo. Non ho bisogno di te.»
Gacel sorrise leggermente sotto il velo senza che l’altro potesse vederlo, obbligò il suo cammello a mettersi in piedi e si allontanò piano, conducendolo per la cavezza.
Il sergente Malik-el-Haideri lo seguì con lo sguardo fino a che scomparve tra il dedalo di corridoi che lasciavano tra di loro le dune, a sud della pista dei veicoli, e fece ritorno poi, pensoso, verso la baracca più grande.
IL capitano Kaleb-el-Fasi dormiva sempre fino a quando il sole cominciava a riscaldare il tetto della sua capanna, il che accadeva verso le nove del mattino nonostante l’avesse fatta costruire nel punto più fitto del palmeto, tanto che il cadere dei datteri sulle lastre metalliche lo svegliava continuamente di soprassalto.
A quell’ora recitava le preghiere a due metri dalla porta e si tuffava nell’abbeveratoio del pozzo grande, dove il sergente Malik lo informava degli avvenimenti, per quanto in realtà fossero ben pochi.
Quella mattina, tuttavia, il suo subordinato sembrava desideroso di parlargli, animato da un entusiasmo poco abituale in lui.
«Quel targui va in cerca della Grande Carovana», disse.
Lo osservò per alcuni istanti, aspettando che aggiungesse altro, ma, non accadendo niente, domandò interrogativamente:
«Allora?»
«Gli ho chiesto se mi portava con lui, ma non ha voluto.»
«Allora non è così pazzo come sembra. Da quando interessa la Grande Carovana?»
«Da quando ne ho sentito parlare. Dicono che portava mercanzie per un valore maggiore di dieci milioni di franchi di allora. Oggi quell’avorio e quelle gioie avranno un valore triplo.»
«Sono morti in molti per inseguire quel sogno.»
«Tutti avventurieri, che non organizzarono la spedizione in modo scientifico con mezzi appropriati e appoggio logistico.»
Il capitano Kabel-el-Fasi gli diede una lunga occhiata che pretendeva essere severa e di rimprovero.
«Che cosa stai insinuando? Che impieghi materiale e uomini dell’esercito alla ricerca di quella carovana?» domandò con fìnta sorpresa.
«Perché no?» fu la sincera risposta. «Continua mente ci mandano a fare inutili spedizioni alla ricerca di nuovi pozzi, pietre senza valore, o riscontro di tribù. Una volta, gli ingegneri ci portarono a spasso per sei mesi in cerca di petrolio.»
«E lo trovarono.»
«Sì, ma... che cosa ne è venuto a noi? Stanchezza, molestie, malessere della truppa e tre uomini che volarono a pezzi su un jeep carica di dinamite.»
«Erano ordini superiori.»
«Lo so. Ma lei ha l’autorità sufficiente per inviarmi a una qualsiasi missione, per esempio, esercitazioni di sopravvivenza nelle terre vuote. Immagini se tornassimo con una fortuna! La metà per l’esercito; la metà per noi e la truppa. Non crede che, ben distribuita, addolcirebbe qualche generale?»
Il suo superiore non rispose subito. Affondò la testa nell’acqua e rimase così alcuni istanti, forse riflettendo. Quando emerse di nuovo, disse senza guardarlo:
«Potrei metterti in guardina per quello che stai proponendo».
«E cosa otterrebbe? In fondo che differenza c’è tra lo stare in carcere e qui fuori? Forse più caldo, questo è tutto. Comunque meno che nella terra vuota.»
«Sei così disperato?»
«Come lei. Se non facciamo qualcosa, non usciremo mai da qui, e lei lo sa. Un giorno o l’altro qualcuno di questi figli di puttana ci ucciderà.»
«Finora abbiamo saputo dominarli.»
«Con molta fortuna», ammise il piccolo uomo. «Ma fino a quando durerà la fortuna? Presto diventeremo vecchi, perderemo energia e ci divoreranno.»
Il capitano Kaleb-el-Fasi, comandante in capo dello sperduto posto militare di Adoras, Culo del Diavolo, com’era chiamato quel luogo nell’esercito, gettò indietro la testa, contemplò a lungo le palme che neanche un soffio di vento riusciva a smuovere e il cielo di un azzurro così netto che feriva gli occhi solo a guardarlo.
Pensò alla sua famiglia; a sua moglie che aveva chiesto e ottenuto il divorzio per la sua condanna; ai suoi figli che non gli avevano mai scritto; ai suoi amici
e compagni che avevano cancellato il suo nome dalla loro ‘memoria nonostante per anni lo avessero adulato per la sua magnificenza; a quella banda di ladroni, assassini e drogati che lo odiavano a morte e che al minimo incidente gli avrebbero infilzato una baionetta nella
schiena o gliavrebbero collocato una bomba a mano
sotto la branda.
«Di che cosa hai bisogno?» domandò senza voltarsi, facendo il possibile perché la sua voce non dimostrasse alcun compromesso.
«Di un camion, di un jeep e di cinque uomini. Mi orterò anche Mubarrak-ben-Sad, la guida targuf. Eavrò bisogno di cammelli.»
«Quanto tempo?»
«Quattro mesi. Ma staremo in contatto per radio una volta la settimana.»
In quel momento lo guardò in faccia.
«Non posso obbligare nessuno ad accompagnarti. Se non tornassi e questo si venisse a sapere, mi staccherebbero la testa.»
«So chi verrà volentieri senza commenti. Coloro che rimangono non devono sapere nulla.»
Il capitano uscì lentamente dall’acqua, si infilò dei pantaloni corti e larghi, si calzò le nails lasciando che l’aria calda gli asciugasse l’acqua sul corpo, e agitò la testa, incredulo.
«Credo che tu sia tanto pazzo quanto quel targuf», puntualizzò. «Ma forse hai ragione ed è meglio che stare qui ad aspettare la morte.» Fece una pausa. «Dovremmo trovare una scusa logica per un viaggio così lungo», fece un risolino ironico. «Nel caso che tu non torni.»
Malik sorrise soddisfatto del suo trionfo, anche se aveva saputo sin dal primo momento che avrebbe vinto. Da quando aveva perso di vista tra le dune quel targuì, la mattina presto, si era dedicato a organizzare il modo in cui avrebbe esposto il suo piano e, quanto più gli girava attorno, tanto più si sentiva sicuro che avrebbe ottenuto il permesso.
Si incamminarono insieme verso la baracca del l’ufficio e con un lieve sorriso rispose:
«Ci avevo già pensato». L’altro si fermò a guardarlo. «Schiavi.»
«Schiavi?»
«Quel targuf che se ne è andato questa mattina, può avermi detto che ha notizie di carovane di schiavi
che si stanno addentrando nel nostro territorio. Il loro traffico sta aumentando nuovamente in proporzioni allarmanti.»
«Lo so. Ma si dirigono al Mar Rosso e verso i paesi che accettano ancora la schiavitù.»
«È vero», ammise Malik. «Ma chi ci impedisce di verificare una denuncia e di confessare più tardi che si trattava di un falso allarme?» Sorrise con ironia. «Anzi, dovranno felicitarsi con noi per il nostro zelo e il nostro spirito di sacrificio.»
Entrarono nella baracca deirufficio, che non era altro che un’ampia stanza con due tavoli, già calda a quell’ora del mattino, e il capitano si fermò davanti alla grande mappa della zona che occupava tutta la parete di fondo.
«A volte mi domando come diavolo hanno fatto a prenderti e a ficcarti in questo buco, visto che sei tanto svelto. Dove pensi di cercare?»
Malik indicò deciso un’immensa macchia gialla, nel cui centro appariva uno spazio completamente bianco, senza la più piccola traccia di pista, di sentiero di cammelli, di pozzo o di luogo abitato.
«Qui, proprio nel centro di Tikdabra. Logicamente la rotta della carovana doveva aver lasciato Tikdabra a nord, evitandolo. Ma se persero la rotta, addentrandosi nelle dune, dovettero incontrarsi poi con questa zona di terra vuota, non più in tempo per tornare indietro. Non rimase allora altra soluzione che cercare di raggiungere i pozzi di Muley-el-Akbar, ma non vi riuscirono.»
«Non è altro che una teoria. Si possono trovare sia qui sia da un’altra parte.»
«Forse. Ma non sono da nessun’altra parte», gli fece notare. «Per anni hanno rastrellato la regione a sud di Tikdabra. E a est. E a ovest. Ma nessuno rischiò
mai a Tikdabra. O, almeno, quelli che tentarono non sono mai ritornati.»
Il capitano calcolò a occhio:
«Più di cinquecento chilometri di lunghezza per trecento di ampiezza di dune e pianure. Hai più possibilità di trovare una pulce bianca in un branco di mehari».
La risposta fu concisa:
«Ho undici anni per cercare».
Il capitano si mise seduto sulla sua sconquassata poltrona foderata di pelle di gazzella, cercò una sigaretta, l’accese lentamente e studiò con attenzione una mappa che conosceva al dettaglio, poiché era già stato inchiodato lì davanti il giorno che era arrivato al posto militare. Conosceva il deserto e sapeva molto bene che cosa significava addentrarsi in un erg come quello di Tikdabra, formato da una ininterrotta successione di altissime dune che si prolungavano come un mare di gigantesche onde, una trappola di sabbie mobili dove uomini e cammelli affondavano a volte fino al petto, in un’immensa pianura senza orizzonti, così liscia come il più liscio dei tavoli e dove il sole riverberava di continuo impedendo la vista, tagliando il fiato e facendo bollire il sangue a uomini e bestie.
«Neanche un ramarro vi può sopravvivere», mormorò alla fine. «Se qualcuno ti accompagna, vuol dire che ha già il kafard e mi farai un gran favore a levarmelo da torno.» Aprì la piccola cassaforte incastrata nel suolo e nascosta da alcune tavole; contò il denaro e fece segno di no con un gesto. «Dovrai requisire i cammelli alle tribù beduine», disse. «Non ho denaro e non puoi portarti via i nostri.»
«Mubarrak mi aiuterà a trovarli.» Si diresse alla porta. «Se mi dà il suo permesso voglio parlare ai miei uomini.»
Rispose con un gesto al suo saluto, chiuse di nuovo la cassa e rimase calmo, con i piedi sopra il tavolo, contemplando la mappa. Sorrise lievemente, soddisfatto di avere accettato la proposta. Se le cose fossero andate male, avrebbe perso sei uomini e una guida targui, oltre ai due veicoli. Ma nessuno avrebbe protestato per una cosa quasi normale in quelle latitudini. Erano molte le pattuglie che sparivano per sempre, poiché bastava un errore di guida, un’avaria al motore, o la rottura di un asse, perché un semplice giro di routine si trasformasse in una tragedia senza alcuna soluzione.
In effetti contavano su questo, quelli che inviavano ad Adoras tutto quel rifiuto delle caserme e delle prigioni del paese. Secondo logica, nessuno di quegli uomini doveva tornare vivo nella civiltà, perché la società non li voleva con sé e li aveva scacciati per sempre. Per cui a nessuno interessava se si uccidevano a coltellate, se li portava via la febbre, se scomparivano durante una perlustrazione o alla ricerca di un mitico tesoro.
La Grande Carovana era lì, da qualche parte verso il Sud, e su questo tutti erano d’accordo, perché non poteva essersi volatilizzata e il suo carico prezioso sopportava senza deteriorarsi il passare degli anni, e persino dei secoli. Con una minuscola parte di quel carico, il capitano Kaleb-el-Fasi avrebbe potuto abbandonare per sempre Adoras e stabilirsi nuovamente in Francia, aWHótel Majestic di Cannes dove aveva trascorso il periodo più bello della sua vita in compagnia di una graziosa commessa di una boutique di rue des Antibes, che dovette aspettare per anni che lui mantenesse la sua parola di tornare un giorno a prenderla.
Verso sera aprivano le grandi vetrate che davano sulla piscina, su La Croisette e sulla spiaggia e loro facevano l’amore rivolti verso il mare fino al tramonto per andare poi a cenare al Le Moulin de Mougens, al El Oasis, o da Chez Félix e terminare la notte al Casinò, rischiando tutto sul numero otto.
Era un duro prezzo quello che stava pagando per quei giorni, troppo alto a parer suo, e la cosa peggiore non consisteva, forse, nel deserto in sé, con il suo caldo e la sua monotonia, ma nei ricordi e nella consapevolezza che, se un giorno fosse riuscito a uscire vivo da Adoras, non sarebbe stato più in grado di godere nuovamente degli hotel, dei ristoranti o delle ragazze di Cannes.
Rimase sprofondato nei suoi ricordi, lasciando che il sudore scorresse sul suo corpo mentre un caldo infernale si impossessava deH’accampamento, aspettando che il suo attendente arrivasse con un vassoio e il grasso e ripugnante cuscus di tutti i giorni che consumò senza appetito, accompagnandolo con brevi sorsate di acqua tiepida, torbida e leggermente salmastra alla quale ancora non si era abituato e che continuava a causargli diarrea nonostante gli anni trascorsi.
Poi, quando il sole cadde a piombo, verticale, così opprimente che neanche le mosche volavano, attraversò piano il solitario palmeto e cercò nuovamente rifugio nella capanna, lasciando porte e finestre spalancate nel tentativo di approfittare del minimo soffio d’aria.
Era quella l’ora della gaila, il riposo sacro nel deserto, perché durante le quattro ore di caldo più intenso gli uomini, come le bestie, dovevano rimanere fermi all’ombra, se non volevano correre il pericolo di disidratarsi e di cadere fulminati da un’insolazione.
I soldati dormivano già nelle loro baracche e solo una sentinella rimaneva in piedi, coperta da una frasca, lottando con tutte le forze, a volte inutilmente, per tenere gli occhi né troppo chiusi, per non addormentarsi completamente, né troppo aperti, perché il riverbero
del sole sulle bianche dune non la rendesse momentaneamente cieca.
Un’ora dopo si sarebbe potuto credere che il posto militare di Adoras fosse morto. Il termometro, all’ombra poiché al sole probabilmente sarebbe scoppiato, si avvicinava pericolosamente ai cinquanta gradi e i pennacchi delle palme erano così immobili per la mancanza di vento, da far pensare che non fossero veri, ma soltanto dipinti sul cielo.
Con la bocca aperta e i volti coperti di sudore, infiacchiti e rotti come pupazzi senza vita, gli uomini Tonfavano, schiacciati dalla calura, incapaci anche di scacciare le mosche che andavano addirittura a posarsi sulle lingue, in cerca di una lieve umidità. Qualcuno sognò a voce alta, fu quasi un lamento, e un furiere si svegliò di soprassalto con gli occhi dilatati dallo spavento, poiché per alcuni angosciosi secondi aveva temuto di morire asfissiato, visto che l’aria non arrivava ai suoi polmoni.
Da un angolo, un negro scheletrico insonne lo osservò fissamente fino a che si tranquillizzò di nuovo e chiuse a sua volta gli occhi, ma rimase sveglio, poiché la sua mente bolliva inquieta dal momento in cui il sergente maggiore gli aveva detto in segreto che entro quattro giorni avrebbero intrapreso la pazza avventura di addentrarsi nella più inospitale delle terre alla ricerca di una carovana scomparsa.
Probabilmente non sarebbero tornati vivi, ma era sempre meglio che continuare a spalare sabbia giorno dopo giorno, fino al giorno in cui sarebbe arrivato il suo turno e avrebbero spalato sabbia sul suo corpo.
Nella sua capanna anche il capitano Kaleb-el-Fasi russava piano, sognando forse la carovana scomparsa e le sue ricchezze, ed era così profondo il suo sonno che
non avvertì un’alta ombra che si stagliava per un istante sulla porta per poi scivolare verso la branda, lasciare al suo lato, appoggiato alla parete, un vecchio e pesante fucile ricordo dell’epoca in cui i sentisi si erano ribellati contro francesi e italiani, ed estrarre una lunga e affilata sciabola che di punta appoggiò molto lentamente sotto il suo mento.
Gacel Sayah si mise seduto sul bordo del pagliericcio e fece una leggera pressione con l’arma mentre la sua mano si appoggiava con forza sulla bocca dell’addormentato.
La destra del capitano scattò automaticamente verso la pistola che lasciava sempre per terra, vicino alla testata del letto, ma il targui la scansò dolcemente con il piede mentre si chinava sempre più sopra di lui.
Sussurrò raucamente:
«Un grido e ti sgozzo, hai capito?»
Aspettò che gli occhi dell’altro gli confermassero che, sì, aveva capito e poi, molto lentamente, gli permise di prendere aria senza allentare la pressione della sciabola. Un rivolo di sangue cominciò a scorrere lungo il collo dell’atterrito capitano e ben presto si mischiò al sudore che inzuppava il suo petto.
«Sai chi sono?»
Assentì con un gesto.
«Perché hai ucciso il mio ospite?»
Inghiottì saliva. Poi, con sforzo e quasi senza voce, mormorò:
«Erano ordini. Ordini ben precisi. Il giovane doveva morire. L’altro no».
«Perché?»
«Non lo so.»
La punta della sciabola penetrò con più forza.
«Perché?» insistè il targui.
«Non lo so, te lo giuro», quasi singhiozzò. «Mi
danno un ordine e io devo obbedire. Non sono in grado di rifiutarmi.»
«Chi ti ha dato quell’ordine?»
«Il governatore della provincia.»
«Come si chiama?»
«Hassan-ben-Koufra.»
«Dove vive?»
«A El-Akab.»
«E l’altro, il vecchio, dove sta?»
«Come vuoi che lo sappia? Se lo sono portato via, questo è tutto.»
«Perché?»
Il capitano Kaleb-el-Fasi non rispose. Forse capì che aveva detto troppo; forse si stancò del gioco; forse veramente non sapeva la risposta esatta. Disperatamente cercò un modo per liberarsi dall’intruso nei cui occhi leggeva una profonda fermezza e si domandò che cosa diavolo stessero facendo i suoi uomini che non accorrevano in suo aiuto.
Il targui si innervosì. Affondò ancor di più la daga e con la mano sinistra gli strinse il collo, soffocando un grido di dolore che cercava di uscire.
«Chi è quel vecchio», domandò, «perché lo hanno portato via?»
«È Abdul-el-Kebir.»
Lo disse con il tono di chi ha spiegato tutto, ma comprese che il nome non significava nulla per l’intruso che rimase fermo, aspettando una spiegazione.
«Non sai chi è Abdul-el-Kebir?»
«Non ho mai sentito parlare di lui.»
«È un assassino. Uno sporco assassino e stai rischiando la vita per lui.»
«Era mio ospite.»
«Non per questo smette di essere un assassino.»
«Né per essere un assassino cessa di essere mio o spite. Solo io avevo il diritto di giudicare.»
Fece un movimento con il polso e gli recise la giugulare con un solo taglio.
Contemplò la breve agonia, si pulì le mani sullo sporco lenzuolo, raccolse la pistola e il fucile, si avvicinò alla porta e sbirciò fuori.
La sentinella continuava a dormire come quando era arrivato e né un soffio di vento né un alito di vita agitava il palmeto.
Scivolò di tronco in tronco, fino a raggiungere le dune dove si arrampicò agilmente.
Cinque minuti dopo era scomparso, come inghiottito dalla sabbia.
ERA quasi sera quando l’assistente del capitano scoprì il cadavere.
Le sue grida, quasi isteriche, si sparsero per l’oasi, gli uomini gettarono a terra le loro pale e accorsero tutti ammucchiandosi nella piccola capanna, dalla quale il sergente maggiore dovette buttarli fuori a spintoni.
Quando infine si trovò da solo davanti al cadavere e alla chiazza di sangue coperta di mosche, si mise seduto su uno sgabello e maledisse la sua sorte. Quel figlio di cagna che l’aveva ucciso avrebbe potuto aspettare quattro giorni.
Non sentiva alcuna pena; né il minimo segno di compassione per quell’altro figlio di cagna, il più figlio di cagna di tutti, che giaceva disteso davanti a lui, nonostante avessero diviso tanti anni di vita nell’inferno e fosse l’unico con il quale avesse mantenuto una certa conversazione piuttosto coerente in quel tempo. Sapeva di sicuro che il capitano Kaleb-el-Fasi meritava la morte, qualunque tipo di morte e in qualunque parte del mondo, ma non voleva che fosse successo lì e proprio in quei giorni.
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