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Kitabı oku: «Storia dei musulmani di Sicilia, vol. I», sayfa 5

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LVII. Ibn-el-Wardi (Zîn-ed-dîn-Abu-Hafs-Omar), morto il 1348; mezzo copiò e mezzo compendiò le notizie di Edrisi e Dimascki su la Sicilia. Quali ch'elle siano, le darò, secondo la lezione dei MSS. di Parigi, Ancien Fonds 590, 593, 594, confrontata col testo che ha pubblicato il Tornberg98 di questa mediocre compilazione geografica, intitolata Kharîdat el-'Agiâib (Perla delle Meraviglie).

LVIII. Sefedi (Selâh-ed-dîn-Khalîl-ibn-Ibek), che morì il 1362, compose un dizionario geografico, addimandato El-Waki bil-Wefeiât (Il Conservatore delle Necrologie), diligente e giudiziosa compilazione. La Biblioteca di Parigi ne possiede due volumi staccati, Suppl. Arabe 706, che contengono le lettere dell'alfabeto arabico dalla Kha al Sad; dalle quali ho cavato tre biografie, e, delle tre, due sono di Cristiani: re Ruggiero, cioè, e l'ammiraglio Giorgio d'Antiochia.

LIX. Domairi (Kemâl-ed-dîn-Abd-Allah) scrisse nel 1371 l'Haiât el-Haiwân, opera di Storia naturale; in cui, trattando dello scorpione, l'autore cita i versi e la trista fine di un poeta del Iemen che si trovò avviluppato in una cospirazione contro Saladino, tramata da malcontenti egiziani con la corte normanna di Sicilia. Ho cavato questo squarcio dal MS. di Parigi, Suppl. Arabe 873.

LX. Ibn-Khaldûn (Wâli-ed-dîn-Abu-Zeid-Abd-er-Rahmân-ibn-Mohammed), nacque a Tunis il 1332 d'illustre famiglia, passata dall'Arabia meridionale in Spagna ai tempi del conquisto, e rifuggitasi in Affrica nel XIII secolo. Nobile dunque e povero, cominciò sua carriera da calligrafo nella Segreteria dei principi hafsiti di Tunis. Da costoro passò al servigio dei loro nemici i Merinidi; poi, sempre da un regolo a un altro, di que' che usurpavan oggi e cadean domani sì in Affrica e sì in Spagna: appo i quali ei fu cortigiano, agente diplomatico, ministro, professore; or arricchito e onorato, or imprigionato e perseguitato per gara di altri intriganti, e sospetti che destava quel suo far da Girella. A cinquant'anni, ristucco dell'Affrica, se n'andò in Egitto; ove diessi all'insegnamento pubblico; toccò una pensioncella dal Sultano; salì allo uficio di cadi di scuola malekita al Cairo: e sì balzano è l'animo degli uomini, che quello statista di larga coscienza fu deposto della magistratura per la rettitudine e severità ch'ei manteneva tra la corruzione degli altri giuristi. Il caso, alfine, lo fe' trovare nel 1400 sotto le mura di Damasco in mezzo alle orde dei Tartari e in presenza di Tamerlano; al quale ei fu prodigo di adulazioni, e n'ebbe onori e profferta di rimanere alla corte tartara; ma destramente ei se ne svincolò. Tornato in Egitto, salito e sceso, e risalito all'oficio di cadi, moriva il 1406. Questi particolari tolti dall'Autobiografia di Ibn-Khaldûn, non parranno troppi, quando si pensi che discorriamo del primo scrittore al mondo che abbia trattato di proposito la filosofia storica: nè saprei dir se altri v'abbian levato il velo più alto di lui.

Il lavoro istorico d'Ibn-Khaldûn, composto la più parte in Affrica, nelle brevi stagioni ch'egli ebbe di calma, è intitolato: Kîtâb el-'Iber ec., che io, discostandomi dalle interpretazioni date fin qui, tradurrei: “Libro dei concetti storici e raccolta delle origini e vicenda di Arabi, Stranieri e Berberi.” Va diviso in Introduzione, tre libri, e Autobiografia; delle quali parti, la Introduzione tratta della Storiografia e il primo libro racchiude le considerazioni generali che noi intendiam sotto la denominazione di filosofia storica. Gli altri due libri contengono la narrazione storica; cioè il secondo libro, degli Arabi e altri popoli orientali ed europei; e il terzo, dei Berberi. Disegno vasto e ben ordinato, ma colorito con man disuguale, quasi da due uomini di varia tempra d'ingegno. Da un canto, Ibn-Khaldûn, superiore alla età e società in cui visse, speculando su i fatti generali della storia, arrivava a scoprirne le leggi e s'imbatteva anco in chimere, come è avvenuto poi al Vico ed altri naviganti in quelle regioni; e ritrovava i canoni della critica; e, maravigliosa coincidenza col Vico, discorrendo di così fatti studii, conchiudeva essere scienza nuova, a meno che, aggiunse modestamente, qualche antico non ne abbia scritto, e si sian perdute le opere99. Dall'altro canto, Ibn-Khaldûn si messe a riempire, come un volgare annalista, i compartimenti sì bene immaginati in schiatte, dinastie, e cronologia storica di ciascuna dinastia. In questo usò molti ottimi materiali, e tra gli altri il Kâmil d'Ibn-el-Athîr; ma non digerì i fatti con la critica di cui avea già dettato i principii; non serbò proporzione nei racconti; non seppe sviluppare le cagioni immediate degli avvenimenti con la intuizione che hanno, per esempio, i Latini e il Machiavelli: in somma fece una compilazione, e, pei tempi più vicini, una cronica e nulla più. Il barone De Slane, che lo ha studiato e può giudicarne, notava che Ibn-Khaldûn scrisse la filosofia storica con chiarezza, e le narrazioni con uno stile avviluppato, saltellante e pieno di neologismi.

Lunga sarebbe la rassegna dei lavori che si son fatti, da una trentina d'anni in qua, su questa mirabile opera. Limitandomi a quei che più s'avvicinano all'argomento nostro, ricorderò il testo e versione della Storia dell'Affrica sotto gli Aghlabiti e della Sicilia, pubblicati da M. Des Vergers; la Storia dei Berberi il cui testo si è dato a stampa in Algeri a spese del Ministero della Guerra di Francia e per le cure di M. De Slane, e la cui versione è stata fatta dallo stesso orientalista, con erudite annotazioni, e n'è uscito il primo volume. I Prolegomeni, come van chiamati comunemente la introduzione e il primo libro, vedran la luce, tra non guari, per opera di M. Quatremère, uomo da reggere a questo ed a maggior peso. Mi si permetta infine che io ricordi la edizione del testo e versione italiana della storia antica di Ibn-Khaldûn, incominciata dal nostro compatriotta l'abate Arri da Asti nel 1840, e interrotta l'anno appresso per la immatura sua morte100.

Ibn-Khaldûn nella Storia di Sicilia compendia Ibn-el-Athîr, sì che appena vi si potrebbe scoprir qualche fatto attinto ad altre sorgenti. Negli altri capitoli ci dà ragguagli più pregevoli. Da tutta l'opera io ho cavato, per inserirli nella mia Raccolta, gli squarci seguenti:

1. Uno dei Prolegomeni inedito; ove si tratta del navilio siciliano sotto i Normanni. Dal MS. del British Museum, nº 9571, bel codice in caratteri affricani.

2. La Storia di Sicilia. Dalla edizione di M. Des Vergers, riveduta su i MSS. di Parigi, e confrontata con gli estratti di un buon MS. di Tunis recatimi dal sig. Honnegar.

3. Molti squarci della Storia dei Berberi, ch'io avea copiato dal MS. di Parigi, Suppl. Arabe 742 quater, tomo III, e che oggi ho potuto confrontare con la edizione d'Algeri.

4. Altri squarci inediti su le prime imprese dei Musulmani nel Mediterraneo, su la Storia dei Fatemiti, e su le Crociate; che ho tolto dai MSS. di Parigi, 742 quinquies, tomo II, e 742 quater, tomo IV.

LXI. Zohri (Ibn o piuttosto Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-abi-Bekr), alla fine del XIV o principio del XV secolo, compendiò un trattato di Geografia di Kimâri, copiato o compendiato, non sappiam quando, da un libro che avea fatto compilare il califo Mamûn (815-835) e delineare insieme un planisfero. Tanto si ritrae dalla prefazione del Zohri al detto Kitâb Gi'rafîa, MS. di Parigi, Ancien Fonds 596, e dal cenno che l'autore fa a fog. 58 verso. Di certo, il Kimâri, o lo Zohri stesso, aggiunsero qualcosa alla compilazione del IX secolo; leggendosi qui i nomi di Mehdîa e della Kalat-Beni-Hammâd, che furono fondate appresso. Però non si può ben determinare l'epoca alla quale riferirsi le notizie su l'Etna e su non pochi prodotti del suolo siciliano, che si trovano nel capitolo della Sicilia e che io tolgo dal MS. di Parigi.

LXII. Makrizi (Taki-ed-dîn-Ahmed-ibn-Ali), nato al Cairo il 1364, morto il 1441, dotto e diligente compilatore di varie opere101, tra le altre ne dettava tre che servono al nostro proposito. Sono:

Il Mokaffa, dizionario biografico, del quale la Biblioteca di Parigi possiede un volume, Ancien Fonds 675, che va dagli ultimi della lettera ta (decimasesta dell'alfabeto orientale) a parte dell'Ain; e la Biblioteca di Leyde, nº 1366, tre volumi, che prendono l'alef, Caf (22ª lettera), lam e mim102. Però ci mancano parecchi volumi dell'opera. Dal MS. di Parigi ho estratto io le biografie dei Siciliani; dai MSS. di Leyde lo ha fatto per cortesia verso di me il prof. Dozy.

Il Kitâb-es-Solûk ec. (Introduzione alla conoscenza delle dinastie), del quale una parte è stata tradotta in francese da M. Quatremère. Ho tolto un passo del testo arabico dal MS. di Parigi, Ancien Fonds 673 C., tomo III, e Ancien Fonds 673, A. 2.

Il Kitâb-el-Mewâ'iz ec. (Avvertimento e riflessioni su le divisioni territoriali e i monumenti), MS. di Parigi, Ancien Fonds 680, ove si fa menzione d'un astronomo siciliano dell'Osservatorio del Cairo; uno squarcio del qual testo è stato pubblicato da M. Caussin de Perceval, nella raccolta Notices et Extraits des MSS., tomo VII, p. 45.

LXIII. Zerkesci (Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-Ibrahîm), vissuto alla fine del XV secolo, come conghiettura con buon fondamento M. Alphonse Rousseau103, scrisse una storia dei principi almohadi e degli hafsîti di Tunis fino all'anno 1429. Quest'accurata compilazione, fatta su buoni materiali, mi fornisce due squarci, che ho tolto dal MS. di Parigi, Suppl. Arabe 852.

LXIV. Soiûti (Gelâl-ed-dîn-Abu-l-Fadhl-Abd-er-Rahmân), nato a Soiût nell'alto Egitto il 1445, e morto il 1505, fu compilatore infaticabile ma non sempre accurato; e basta a dir che si crede abbia scritto da trecento opere diverse.

Da quella intitolata Tarîkh-el-Kholafâ (Storia dei Califi), MSS. di Parigi, Ancien Fonds 639 e 776, ho cavato due parole di cenno storico;

Dall'altra, che s'addimanda Kitâb-el-Boghiat ec. (Libro di quanto posson desiderare i raccoglitori delle Vite dei Lessicografi e Grammatici), ho preso una ventina di biografie di Siciliani. Ho avuto alle mani due MSS., l'uno del dottor John Lee, ch'era prestato al prof. Dozy di Leyde in cui casa lo percorsi; l'altro acquistato recentemente dalla Biblioteca di Parigi, ove si conserva, Suppl. Arabe 683.

LXV. Ibn-Aiâs (Mohammed-ibn-Ahmed), nato in Egitto, scrissevi nel 1516 il Nescek el-Azhâr ec. (Fragranza dei fiori su le meraviglie delle regioni), mediocrissima compilazione su l'opera di Edrisi e altre. Nondimeno, raccogliendo tutti i testi ove si tratti della Sicilia, non ho voluto rigettar questo, che ne dà due capitoletti. Li ho copiato dai MSS. di Parigi, Ancien Fonds 595, e Suppl. Arabe 904.

LXVI. Makkari (Ahmed-ibn-Mohammed), nato presso Telemsen innanzi il 1590, e morto il 1631, lasciò una voluminosa e diligente opera su la Spagna musulmana, della quale la più parte è stata tradotta in inglese dal professor Gayangos, e adesso danno opera a pubblicare il testo arabico i signori Dozy, Dugat, Krehl e Wright. Nella descrizione di Cordova occorre al Makkari di citare versi del Siciliano Ibn-Hamdîs e darne giudizio. Porrò questo passo e pochi altri cenni nella mia raccolta, cavandoli del MS. di Parigi, Ancien Fonds 704.

LXVII. Hagi-Khalfa (Mustafa-ibn-Abd-Allah) da Costantinopoli, morto il 1658, per erudizione, critica, e altezza di ingegno, gareggia coi migliori scrittori di storia letteraria che abbiamo in Europa. Due opere sue forniscon materiali alla storia dei Musulmani di Sicilia; cioè:

Il celebre Dizionario bibliografico di 15,000 opere, quasi tutte arabiche, pubblicato dal Fluëgel, testo e versione latina; dal quale ho cavato tutti i paragrafi su opere di Siciliani, riscontrandoli per lo più coi MSS. di Parigi104.

E il Tekwîm et-Tewârîkh, ossia Tavola cronologica, scritto in turco e in persiano e tradotto in lingua nostra da Gian Rinaldo Carli105. Gli estratti della versione italiana relativi alla Sicilia, furono voltati in latino e pubblicati dal Caruso e dal Muratori, e a ragione lasciati indietro dal Di Gregorio: tanto orribilmente il conte Carli avea saputo sfigurare quella semplice Tavola. Ho trascritto il testo persiano, non avendo potuto capitare la edizione turca di Costantinopoli, dal MS. turco di Parigi, Ancien Fonds 45; e l'ho confrontato con una versione latina del Reiske che v'ha nella Biblioteca di Parigi.

LXVIII. Ibn-Abi-Dinâr (Abu-Abd-Allah-Mohammed-el-Kairewâni) scrisse il 1681 un Kitâb el-Munis etc. (Libro dilettevole sugli avvenimenti dell'Affrica e di Tunis), che corre dai principii del conquisto musulmano fino ai principii della dominazione ottomana in Affrica, e contiene ragguagli topografici e di usanze: sennata e diligente compilazione, ancorchè moderna; nella quale non di rado si fa menzione della Sicilia. Alcuni estratti di questa opera mi furono recati da Tunis per favore del signor Honnegar; e li ho accresciuto notabilmente percorrendo lo esemplare che n'ha la Biblioteca di Parigi, Suppl. Arabe 851. Di questo libro han fatto una versione francese MM. Pellissier et Remusat, nella quale l'autore è chiamato ordinariamente col nome etnico di Kaïrouani106: lavoro corredato di ottime note, ma fatto, com'ei sembra, sopra un cattivo MS.

LXIX. Teserif el-Aiâm ec. (Ornamento dei giorni e dei tempi e vita del Malek-Mansur). Il principe di cui si parla è Kelaûn, sultano d'Egitto verso la fine del XIII secolo: il compilatore della cronica non si sa. La Biblioteca di Parigi n'ha il solo volume secondo, Suppl. Arabe 810, splendidissimo MS. fatto senza dubbio per uso della corte di Egitto. Contiene alcune notizie intorno la guerra del Vespro Siciliano, e il testo d'un trattato politico e commerciale tra il Sultano e i principi aragonesi Alfonso re d'Aragona e Giacomo re di Sicilia. Io ho dato la versione italiana di cotesti squarci nella edizione della Guerra del Vespro, Firenze 1851, Documento XXX, p. 588 a 597. Il trattato era stato pria tradotto in francese da M. De Sacy.

LXX. Ibn-Konfûd (Abu-l-Abbâs-Ahmed-ibn-Hasan-ibn-Ali-ibn-Khatîb) nel XIV secolo dettò la Farisîa ec., ch'è parte annali e parte cronica della dinastia hafsita di Tunis. Alcuni squarci ne ha pubblicato M. Cherbonneau, professore d'arabico a Costantina, nel Journal Asiatique, IV série, tomo XII, XIII e XX, con utilissime note. Tolgo dal detto Giornale il testo relativo a due imprese di Cristiani sopra le Gerbe e Mehdia nel 1284. Questa e la precedente opera son messe fuori dell'ordine cronologico, non appartenendo propriamente alla storia dei Musulmani di Sicilia; ma come danno ragguagli su la storia di Sicilia dei tempi susseguenti, così non mi è parso di trascurarle.

LIBRO PRIMO

CAPITOLO I

Dai primi tempi della storia infino a noi molte genti straniere vennero a calpestare il suolo della Sicilia: Cartaginesi, Vandali, Goti, Bizantini, Alemanni, Francesi, Spagnuoli, a vicenda fecervi guerra, guastarono, messer su novelle dominazioni e poi dileguaronsi lasciando poche vestigia di sè. Tra tanti rivolgimenti superficiali quattro conquisti mutarono radicalmente il paese: che furono il greco, il romano, il musulmano e il normanno, o meglio direbbesi italiano. Le colonie doriche e ionie, nell'ottavo secolo innanzi l'era volgare, si insignorivano della Sicilia tra per la forza delle armi e dell'intelletto; vi recavano loro schiatta, genio e linguaggio; dirozzavano gli antichi abitatori, gente italica la più parte e avanzo di varii popoli orientali; facean lieta l'isola di città, di monumenti, di colti, di popolazione; fondavano Stati da rivaleggiare con quei della madre patria; correano, come li portava lor mobile natura, or alla libertà or alla tirannide: tra i quali continui travagli fiorirono nella Sicilia greca i più nobili e profittevoli esercizii degli uomini; e nacquervi, ad onor della umanità, Teocrito, Empedocle, Archimede. Il soldato romano poi che uccideva Archimede simboleggia pienamente il secondo conquisto, il quale, con effetto contrario a quel che si vide nelle altre province, in Sicilia distrusse più che non fondasse. Ma nell'ottavo secolo dopo la nascita di Cristo, seguì il terzo rinnovamento della Sicilia, per opera dei Musulmani, i quali avean tocco l'apice di lor subita civiltà; e riforniron l'isola di colonie arabiche e berbere; vi portarono altra religione, leggi, costumi, lingua, letteratura, scienze, arti, industrie, virtù militare e genio d'independenza; in guisa da ritrarre, se non il raffinamento e splendore, al certo l'attività dei tempi greci. Breve del resto il dominio musulmano, nè arrivò a compiere la assimilazione degli abitanti che avea trovato nell'isola. Sfasciandosi da un canto la società musulmana in Sicilia come per ogni luogo, e spuntando dall'altro canto la novella nazione italiana, questa trovò, come per caso, la insegna di ventura, gli egregii esempii d'ardire e gli ordini di guerra dei Normanni: talchè, verso la fine dell'undecimo secolo, passò il Faro sotto la bandiera di quelli; ripigliò la Sicilia, che le appartenea per ragione di geografia e di schiatta; si aggregò le popolazioni cristiane rimastevi, e raccolse i frutti delle proprie e delle altrui virtù. Perchè, sendo pochi i Normanni che le aveano insegnato a vincere, e ad ordinare lo Stato, la nazione italiana, per la ineluttabile maggioranza del numero, assorbì quella forte schiatta, in guisa che a capo d'un secolo ne rimasero appena i nomi di alcune famiglie. Quanto ai Musulmani, parte si dileguò nel seno della società italiana di Sicilia, parte emigrò o fu mietuta dalle spade cristiane. Ed intanto si era mandata ad effetto, sotto gli auspicii del nuovo popolo, l'opera cominciata dagli Arabi quattrocent'anni avanti: la Sicilia tornata a potenza e splendore primeggiò per tutto il duodecimo secolo tra le province italiane; s'insignorì delle parti meridionali della Penisola; e sparse in terraferma molti semi di quel mirabile incivilimento della comune patria nostra che pose termine al medio evo.

La storia delle colonie musulmane di Sicilia, ch'io mi son proposto di scrivere, comprende i due detti conquisti, arabo e normanno, le conseguenze dei quali son visibili infino ai nostri giorni. Principierò con ritrarre le vicende della Sicilia innanzi la venuta degli Arabi, l'origine dello impero musulmano e le condizioni della sua provincia d'Affrica: e ciò darà argomento al primo libro. Nei tre seguenti tratterò la dominazione dei Musulmani su l'isola; nel quinto il conquisto normanno. Nel sesto libro finalmente discorrerò la condizione dei vinti e i fatti ai quali parteciparono sino alla metà del decimoterzo secolo; quando gli ultimi avanzi loro furono trapiantati di Sicilia in Puglia, e la civiltà italiana tramutò ancor sua sede, prima dall'isola alle parti meridionali della terraferma, e poi, fuggendo i capricci dei re, alle gloriose repubbliche ch'eran surte tra il Tevere e le Alpi.

La decadenza della Sicilia greca era cominciata, come avvenir suole, prima della distruzione di sua potenza politica. Le città più grosse, straziandosi in guerra tra loro e ciascuna dentro da sè stessa; snervate dal lusso, ch'è figlio di civiltà ma uccide la madre; e logore, sopra ogni altra cagione, da tre secoli di guerra continua contro Cartagine, presto soggiacquero alla rozza vigoria di Roma (anni 241-210 avanti l'era volgare). Roma usò e abusò gli avvantaggi dell'acquisto; il primo che facesse fuor la Penisola e fin allora il più ricco. Abbattuta tanto più agevolmente Cartagine quanto l'aveano stracca le guerre con la Sicilia; fatto scala di quest'isola ad altre imprese nel Mediterraneo; accattate da lei le prime dolcezze della cultura intellettuale e del viver dilicato, i vincitori non si saziarono che non divorassero la provincia. La chiamarono granaio del popol romano, e sì vollero farne un gran podere e nulla più. Per un verso o per un altro incominciò il suolo siciliano a divenire proprietà pubblica di Roma o privata dei nobili; incominciarono a formarsi in Sicilia come in terraferma i latifondi, che rimasero a proprietarii romani o d'altre parti d'Italia infino al settimo secolo, nè sparvero che al conquisto musulmano. Ma infin dal principio della dominazione romana vasti tratti di terreno si tennero a pascolo; prima degradazione, che si accrebbe affidandosi gli armenti a schiavi marchiati in fronte, ignudi o coperti di ruvide pelli; i quali armati di mazze, spiedi e bastoni, a due, a tre, poi a frotte, si davano a ladronecci per campar la vita; poichè i padroni lor davano, in luogo di salario o vitto, la impunità dei misfatti.107 Da un'altra mano i cavalieri romani, o, come or diremmo, i cittadini della classe di mezzo, presero in fitto molte terre dell'isola per coltivarle con le braccia d'altri schiavi marchiati, incatenati, chiusi negli ergastoli la notte, menati al lavoro con la sferza.108 A tal empio sistema d'industria agraria si aggiunse la enormità delle gravezze, che prendeano il quarto, come si crede,109 del ritratto delle terre, senza contare i balzelli su le altre arti e commercii.

Così arricchiti subitamente i pochi intraprenditori stranieri, rovinati gli indigeni che non godeano i medesimi privilegii di dritto o di fatto, ne doveano seguitare due mali: che la proprietà ogni dì più che l'altro si tramutasse in man dei Romani, e che andassero a precipizio le industrie cittadinesche e sì il commercio con gli altri popoli fuorchè i dominatori. Dal peso e dalla vergogna del giogo nascea quella disperazione universale, che al certo attizzò la prima guerra servile (a. 134-132 av. l'e. v.), e che spinse alla seconda (a. 103-101 av. l'e. v.) non poche popolazioni libere. Pur coteste guerre avevano origine da più antica e profonda iniquità di cui non erano innocenti i cittadini greci di Sicilia. Gli schiavi di tante lingue congregati nell'isola, e forse gran parte siciliani, dopo lungo alternar della fame con la rapina, della abiezione con gli omicidii, si risovvennero della dignità umana, e invocando il cielo che credeano la dovesse vendicare, si adunarono nei più rinomati santuarii, nel tempio di Cerere ad Enna o dinanzi i tremendi altari dei Palici; bandirono la naturale uguaglianza degli uomini; e valorosamente la sostennero con le armi, aiutati più o meno dai cittadini, finchè Roma, che s'intendea meglio di quella ragione, li vinse e sterminò. E mossa dalla prudenza che accompagnava la ferocità sua, l'aristocrazia romana volle rimediare con leggi che rendessero più sopportabile la condizione dei Siciliani: ma non giovò, perchè tal minuta giustizia non troncava la radice del male, e d'altronde non si osservava, per essere elusa e soffocata a Roma dalla prepotenza dei grandi. Già la patria era perduta; già i migliori disperavano di lei. Diodoro, che fiorì l'ultimo tra i sommi ingegni della Sicilia greca e fu il primo scrittore dell'antichità che abbracciasse la storia universale, Diodoro, dopo trent'anni di viaggi e lungo soggiorno a Roma (verso l'anno 45 av. l'e. v.), par sì rassegnato alle sventure della Sicilia, che accettava come vera guarigione un sollievo passeggiero dovuto alla umanità del pretore Asillio. Nè volgare animo ebbe lo storico siciliano, nè poco amore per la patria; ma vedendola perire, par ch'ei se ne confortasse con le ineluttabili leggi dell'umanità che gli lampeggiavano alla mente, e con risguardare ormai il genere umano come unica famiglia, e il popol romano come capo di quella.110 Dopo la morte di Diodoro seguirono le ultime guerre civili dei dominatori, che fecero campo di battaglia la Sicilia (a. 43-35 av. l'e. v.), e sì la straziarono, che consunta com'essa era dalle cause economiche e morali, non potè risorgere; le antiche e nuove piaghe scoprironsi di un subito. La popolazione delle cittadi scemò orribilmente; moltissime rimasero vôte d'abitatori; abbandonata gran parte dei colti: la terra di Cerere, sì cupidamente presa dai Romani, si era sfruttata nelle mani loro.111

Chi abbia mai percorso le splendide memorie della Sicilia greca, o soltanto abbia notato gli avanzi di quella prosperità nelle orazioni di Cicerone contro Verre (a. 70 av. l'e. v.) crederà a stento lo squallore che ingombrò il paese verso il principio dell'era volgare. Pur ne son prova i provvedimenti di Augusto, necessitato ad ovviare alla rovina di parecchie città, e l'espresso attestato di Strabone, uom greco, contemporaneo, sciente delle cose di Sicilia, non sospetto di esagerarne le calamità per calor poetico dell'animo. Cominciando dal lato di levante Strabone trovava sol quattro città: Messina, Taormina, Catania, Siracusa; notando che le ultime due fossero state di recente ristorate da Augusto, e Siracusa ristretta a minore spazio presso la penisola d'Ortigia, in vece dello antico giro di centottanta stadii, troppo ormai agli abitatori.112 Su la costiera meridionale, continua il geografo, v'ha Agrigento e Lilibeo e il rimanente delle città al tutto rovinate e deserte; nè la settentrionale abbonda di popolazione, ancorchè la si estenda più che le altre due, e vi si veggano Alesa, Tindaro, Cefalù, Palermo colonia romana, e lo Emporio Segestano. Delle città dentro terra ei va nominando Etna, Centorbi ristorata altresì da Augusto, Erice col magnifico tempio scarso ormai di sacerdoti, Enna designata sol come fortezza, Lentini che andava a male; e le altre abbandonate tutte e date ad abitare a pastori. Spaventevole ragguaglio confermato coi nomi delle principali città distrutte, e col dire della grande fertilità del suolo, ma che i prodotti di quello, grani, miele, zafferano, bestiame, pelli, lane, tutto portavasi a Roma, fuorchè quel poco, son le parole di Strabone, che si consuma nell'isola. A compiere il quadro egli accenna alle antiche guerre servili che più o meno ripullulavano, e che ai suoi tempi un Seleuro che si dicea figlio dell'Etna, avesse levato eserciti e tenuto una parte del paese, ma poi vinto e condotto a Roma, aggiugne romaneggiando il geografo greco, ognun l'ha veduto nel circo, esposto in cima a un gran catafalco in figura dell'Etna, il quale aprendosi, com'era congegnato, lasciò cadere il ribelle nelle gabbie delle fiere.113

Ma la rivoluzione che oppresse la libertà di Roma, temperò anco i soprusi dell'aristocrazia romana nelle province; tendendo il principato a ragguagliar nella comune obbedienza tutte le classi dei cittadini, e tutte le parti del territorio. Per questo mutato ordine di cose, la Sicilia, come alcuni altri paesi, respirò alquanto; anche mercè i pronti e materiali soccorsi di Augusto ricordati di sopra; limosina la quale dovea accorare i Siciliani più che confortarli, e continuò, per maggior onta, sotto Tiberio e Caligola, da cui fu riedificato alcun monumento dell'isola. Succeduta poi una serie di buoni principi, che fecero dimenticare, con unico esempio nella storia, i vizii del potere assoluto, la Sicilia convalescente arrivò a partecipare di quella prospera mediocrità universale dell'impero romano: parecchi villaggi ingrossati presero il luogo delle città ch'erano distrutte ai tempi di Strabone, e alcuna di queste risorse, o così potè dirsi, perchè un pugno di gente tornava ad abitar tra le rovine. Provan ciò le opere di Plinio e di Tolomeo, e l'Itinerario d'incerta epoca che porta il nome di Antonino: scritti che tornano a un dipresso alla prima metà del secondo secolo. E in vero l'Itinerario accenna novelle stazioni di posta istituite recentemente, e i due geografi, con poco divario l'uno dall'altro, danno una lista di città il cui numero è quadruplo di quel di Strabone e metà di quel che si rinviene appo Stefano Bizantino, erudito di tempi più bassi, che spigolò negli antichi scritti dei Greci.114 Le quali cifre ancorchè vadan prese ad arcata per la poca esattezza di coteste compilazioni, pur vi si raffigura il precipizio della Sicilia negli ultimi tre secoli che precedettero l'era volgare, e lo scarso ristoro nei primi due secoli che la seguirono.

Scarso ristoro e non durevole; perchè indi cominciò la decadenza universale dell'impero; perchè l'Italia si trovò peggio che le altre province per lo flagello dei latifondi e degli schiavi di che eran pieni; e perchè la Sicilia, divenuta del tutto italiana, fu afflitta più che la Penisola, per essere caduta una parte maggiore delle sue terre nelle mani dell'aristocrazia di Roma. A tal disordine sociale non bastavano a riparare nè la prudenza di Augusto, nè la benevolenza degli Antonini, nè l'equa amministrazione della giustizia, nè la bene ordinata azienda. Pertanto riapparvero gli antichi sintomi nel terzo secolo; e tra quell'universale scompiglio, che suol chiamarsi l'epoca dei trenta tiranni, divampò nell'isola una novella guerra servile115 (a. 259). Spenti altrove i piccioli tiranni, posata la commozione sociale dell'isola, continuò in tutta Italia l'abbandono dell'agricoltura, continuò lo spopolamento, non ultima cagione delle invasioni dei Barbari. Diocleziano prolungò alquanto la vita dell'impero. Poi la sede passò a Costantinopoli (a. 330); ripassò in Italia alla divisione (a. 395) nella quale la Sicilia appartenne all'impero d'Occidente: ma che potea ormai nuocere o giovare un mero mutamento di forme amministrative alla provincia arsa ed annichilita?

Delle incursioni dei Barbari settentrionali avrò poco da dire. Comparvero la prima fiata in Sicilia quando appena potean temersi ai confini estremi dell'impero. Sotto il regno di Probo, una mano di Franchi, vinti nelle Gallie e trasportati in riva al Mar Nero, trovandovi un'armatetta romana, se ne impadroniano con disegno di tornarsene in Ponente; e nell'arrisicato lor corso dal Bosforo allo stretto di Gibilterra, per necessità e vendetta, saccheggiavano molti luoghi delle costiere, e, tra gli altri, piombati sopra Siracusa, le dettero il guasto, vi fecero una carnificina, e salvi si ridussero finalmente alle Bocche del Reno116 (a. 278).

Dopo quel turbine passeggiero, consumata la rovina dell'impero occidentale, Alarico, come ognun sa, morì a Cosenza quand'era in punto di assaltare la Sicilia (a. 410); ma Genserico osteggiò Palermo, prese Lilibeo (a. 440), e, sconfitti i suoi Vandali da Ricimero presso Girgenti (a. 456), dopo avere più tosto depredato che occupato l'isola, cedettela per trattato ad Odoacre (a. 476), ritenendo solo il Lilibeo come vedetta da custodire il suo novello reame di Affrica. Odoacre poi regnò su la Sicilia per quattordici anni; del quale ci resta il documento d'una concessione di terre presso Siracusa,117 e prova com'ei prendesse nell'isola quella che si chiamò la parte dei Barbari. Del resto gli Eruli non passaronvi mai; forse non vi mandarono che qualche picciol presidio: a tale debolezza era condotta la Sicilia! Così ancora, vinto Odoacre dagli Ostrogoti, la si diè quetamente a Teodorico; a persuasione di Cassiodoro, ed a condizione che le città e i campi fossero salvi dalla licenza dei vincitori, dei quali sol venisse nell'isola quel tanto che bastava a munir le fortezze principali. Teodorico, resse l'isola assai più umanamente che i suoi predecessori barbari e non barbari; ma non potè far che si dimenticasse l'origine sua, nè l'eresia ariana ond'era infetto: sì che un semplice romito di Lipari, alla morte del re affermò averlo veduto strascinare all'isoletta di Vulcano, scinto, scalzo, con le mani legate al dorso, ghermito dalle ombre invendicate di papa Giovanni e del patrizio Simmaco, che il precipitarono nel cratere ardente.118

98.Stampato ad Upsal il 1839, un vol in-8.
99.Saggi di Schultz, inseriti nel Journal Asiatique. Questo passo si legge nella serie I, tomo VII, (1835), pag. 293, ove il traduttore ha dato anche il testo arabico di tal frase.
100.Il baron De Slane, che ricorda spesso con affetto i lavori di questo valente giovane, dice in una nota della Histoire des Berbères par Ibn-Khaldoun, tomo I, Introduction, p. III et IV, che si erano già stampate 108 pagine di testo e 140 della versione, e che rimangono come carta inutile nei magazzini del tipografo.
101.Su l'autore veggansi: Sacy, Chrestomathie Arabe, tomo I. p. 112, seg.; e Quatremère, Histoire des Sultans Mamlouks de l'Egypte par Taki-Eddin-Ahmed-Makrizi, tomo I, prefazione.
102.Catal. del Dozy, tomo II, p. 200, nº DCCCXX.
103.Journal Asiatique, série IV, tomo XIII, (1819), p. 256, seg.
104.Lexicon Bibliographicum et Enciclopædicum a Mustapha… Haij-Khalfa ec., Lipsia e Londra. 1840, 1852, sei vol. in-4.
105.Cronologia historica di Hazi-Halifé-Mustafà ec., Venetia, 1697, in-4.
106.Historie de l'Afrique de Mohammed-ben-Abi-el-Raïni-el-Kairouani, Paris, 1845, in-4, che è il vol. VII della Exploration scientifique de l'Algérie, Sciences historiques et géographiques.
107.Diodorus Siculus, lib. XXXIV, XXXV.
108.Florus, lib. III, c. 9.
109.Palmieri, Somma della storia di Sicilia, vol. I, cap. 14. Ma egli non vede la causa principale del danno là dove pare a me di trovarla, cioè nella proprietà territoriale usurpata dai cittadini romani ai Siciliani.
110.Diodorus Siculus, lib. V, XXXIV, XXXV, XXXVI, XXXVII. A creder mio, Diodoro giudicò male la prima guerra servile, credendola un imperversare di masnadieri e nulla più. Nella seconda riconosce il malo contentamento dei Siciliani. Ma la Legge Rupilia, alla quale io ho fatto allusione di sopra, sendo stata promulgata dopo la prima guerra, ne prova chiaramente l'indole politica.
111.Palmieri, l. c., sostiene che il grano prodotto dalla Sicilia al tempo di Verre, non montasse che ad un milione di salme d'oggi (2,753,659 ectolitri); cioè due terze parti della produzione attuale. Di più, crede che tutta la Sicilia allor ne desse appena quanto il solo Stato di Siracusa sotto Gelone.
112.Gli stadii di Strabone sono ordinariamente di 700 al grado. Il perimetro della antica Siracusa indi torna a 11 miglia e mezzo delle italiane di cui entran 60 in un grado. Ho seguíto in questo passo di Strabone la interpretazione di M. Letronne, Essai critique sur la topographie de Syracuse, p. 100, seg., non quella che erroneamente portava Siracusa ristretta da Augusto, come dei nostri tempi, alla sola penisola.
113.Strabo, Rerum Geographicarum, lib. VI, p. 265, seg.
114.Stefano dà 122 nomi di città e castella, tra le quali alcune poste per errore in Sicilia, ma altre ne mancano. (Stephanus, De urbibus, passim). Strabone (l. c.) ne contava 16, tralasciando senza dubbio i luoghi meno importanti. Plinio (Historiæ Naturalis, lib. III, cap. 14) ne ha 69, delle quali 5 colonie romane, 13 oppida, 3 popolazioni di condizione latina, e 48 tributarie. Tolomeo (Cl. Ptolomei Geographiæ, lib. III, cap. 4) novera 64 tra città e castella, accordandosi con Plinio in 47 nomi, e discrepando negli altri, forse perchè il Romano segue la geografia politica, quando Tolomeo, geografo matematico, nota i luoghi non le genti. L'Itinerario (presso Fortia d'Urban, Recueil des Itinéraires anciens, Antonini Augusti Itinerarium, numeri XXIII a XXVII, p. 26-29) non vale in questa esamina, perchè dà le sole stazioni di poste; tra le quali 26 in città note.
115.Historiæ Augustæ Scriptores, tom. II, p. 85. Trebellii Pollionis, Galliani duo, cap. 4.
116.Zosimus, lib. I, cap. 67, 71.
117.Marini, I Papiri Diplomatici, numeri XXXII e XXXIII, che si credono frammenti di unico diploma dato il 489. Indi si scorge che Odoacre aveva accordato a un Pierio, forse il conte di tal nome, 690 soldi, dei quali 450 assegnati su certi beni a Siracusa, 200 a Malta, e che per questo diploma concedeva il rimanente di 40 soldi e una frazione, sopra tre fondi diversi posti nella massa Piramitana, nel territorio di Siracusa.
118.San Gregorio, che non credea certamente a tal fola, pur l'accreditava, con mille altre somiglianti, per promuovere la superstizione; e nel presente caso anco per aizzar la gente contro i Longobardi, barbari e tuttavia Ariani come i Goti. Vedi Divi Gregorii Papæ Dialogi, lib. IV, cap. 30.