Kitabı oku: «Il Libro Nero», sayfa 6
Il conte Corrado si potea scorgere da lontano, con la sua cappa di velluto verde scuro foderata di saio e il berretto sormontato da una piuma bianca, fermata da una rosetta di smeraldi. A' fianchi suoi si notavano inoltre cinque o sei gentiluomini, assai bene in arnese, che stavano, com'egli, aspettando i nuovi venuti.
– Ah! ah! – disse Rambaldo di Verrùa all'orecchio del suo signore. – Que' cavalieri m'hanno aria di gente che tu conosca per bene. O non ti sembra egli, Morello, che siano i tuoi nobilissimi e fedelissimi amici di Roccamàla?
– Sì, per mia fe'! – gridò Morello. – Bene essi mi sembrano al portamento. E sono poi molto leggiadramente vestiti…
– Non badare a cotesto! – rispose l'altro, ghignando. – Vestono le gramaglie per la morte di un loro dilettissimo amico. —
Morello si volse con grave cipiglio a guardare il suo interlocutore.
– E sono appena cinque giorni!.. – diss'egli poscia, chinando le ciglia.
– No, t'inganni, Morello. In una notte tu hai dormito trenta giorni; Ugo di Roccamàla è già da un mese nelle tombe dei suoi maggiori.
– Ah! – sclamò il giovine. – Tu non sei stato a' patti.
– Chi lo dice? Tu devi sapermi grado dello averti tolto il fastidio maggiore, imperocchè oramai gli è un negozio avviato, quello che avremo alle mani. Io del resto ti giuro, in fede d'Aporèma, che il giungere un mese prima alla prova, sarebbe stato un vantaggio per me.
– Gli è ciò che vedremo; – rispose Morello, rannuvolandosi in viso – e se tu dici il vero… —
Così parlando erano giunti all'ingresso del ponte, e la frase del giovine era interrotta dal saluto del conte Corrado, che si faceva incontro a' suoi ospiti.
– Ben venga Morello di Monferrato! – diss'egli, mettendo cortesemente la mano alle redini del destriero. – Ben venga egli e ben vengano gli amici e vassalli suoi nella povera corte di Torrespina.
– Voi dite povera, messere? – soggiunse Morello, in quella che scendeva d'arcioni. – Essa m'ha aspetto di bello e forte arnese, e i gentiluomini che l'abitano hanno fama tra i migliori e i più liberali della Marca Aleramica. —
Con queste parole il vecchio e il giovine signore vennero ad abbracciarsi e baciarsi amorevolmente sulle guance, giusta il costume dei tempi.
– Ora, – ripigliò il conte Corrado, – eccovi, o messere, alcuni amici che la fama di vostra venuta ha tratti fuori dalle loro castella a farvi onoranza; Ansaldo di Leuca, Enrico Corradengo, Ottone di Cosseria, Berlingieri di Camporosso…
– Orrevoli nomi! – rispose Morello, guardando in giro tutti quei cavalieri, a mano a mano che il Torrespina li venìa nominando. – La voce di loro gesta è giunta da buona pezza alla corte di Guglielmo VII, mio glorioso genitore: appo il quale e' saranno i benvenuti, quantunque volte lor piaccia. Ora, eccovi, messer Corrado, gli amici miei; Rambaldo di Verrùa…
– Che già conosco da due ore; – interruppe messer Corrado, inchinandosi.
– Brandolino di Cocconato, mio fedele compagno, – proseguì Morello, – e Gianni da Montiglio, ambasciator di mio padre presso la Repubblica genovese. —
Qui, dopo i consueti inchini scambievoli, la comitiva prese la via del castello, preceduta da messer Corrado, che dava cortesemente la diritta a Morello di Monferrato.
Le lancie si fermarono in uno spazioso cortile, dove smontarono da cavallo, e da' famigli e palafrenieri di Torrespina furono condotti nei loro alloggiamenti, insieme coi fanti del cortèo.
Morello e gli altri gentiluomini, guidati da messere Corrado, salirono per una larga scala, lungo i gradini della quale era steso un magnifico tappeto di Balsòra, fino alla gran sala del castello.
Appena furono sul pianerottolo, Morello ebbe come un capogiro e sentì mancarsi il cuore; ma Rambaldo di Verrùa, che gli era venuto da fianco, fu sollecito a sostenerlo, senza che altri se ne addasse, e a susurrargli alcune parole misteriose. Le quali certamente ebbero possanza di rinfrancarlo, dappoichè il giovine signore ripigliò tosto la sua pronta andatura.
Entrarono per tal modo nella gran sala, e si offerse ai loro sguardi madonna Giovanna, la contessa di Torrespina.
CAPITOLO IX
Nel quale l'autore si prova a ritrarre la migliore tra tutte le donne
Ella era adagiata su d'un seggiolone alla foggia romana, tutto incrostato a minuzzoli di avorio e metallo, secondo l'arte genovese e veneziana di quei tempi. Le stava vicina una tavola rotonda, sulla cui lastra marmorea era steso un drappo di tela di argento, e sul drappo uno scrigno gentilmente lavorato e sparso di gemme, con alcuni volumi legati in carte di cuoio cordovano ed ornati di bei fermagli d'argento dorato. La luce riflessa di due ampie finestre da ponente, rischiarava, senza offenderlo, il suo viso stupendamente bello e stupendamente bianco.
La contessa Giovanna era vestita con maestosa semplicità. Una gonna di candida lana di Provenza, aggiustata alla vita, scendeva con poche pieghe da una cintura di verde zendado mollemente rigirata sui fianchi. I capegli di un bel castagno scuro, uscivano vagamente crespati di sotto una sottil corona d'oro, ornata di smeraldi, andando a raccogliersi alla nuca dopo aver nascosto alcun poco il sommo degli orecchi. Le maniche della veste, soppanate di zendado dello stesso colore della cintura, pendevano aperte fin dal cominciamento dell'omero, lasciando trapelare un braccio mirabilmente tornito, attraverso il tessuto di una camicia di finissimo lino. Raro ornamento era questo per una dama di que' tempi, e quelle d'oltralpi, le celebrate Isotte e le Isabelle, che pur vestivano di sciamito e di broccato, forse non n'avevano mai udito parlare.
Ed era bella, così modestamente vestita; tanto più bella in quanto che i contorni severi del volto e delle membra, degni d'essere espressi nel marmo, a riscontro della Venere di Milo, spiccavano mirabilmente da quella semplice acconciatura e da quella foggia modesta. E quella sua bellezza maestosa, veduta a prima giunta, comandava il rispetto, anzi che ispirare il desiderio. Era in lei alcun che della Beatrice di Dante, dinanzi alla quale ammutoliva tremando ogni labbro, e gli occhi non ardivano pure di guardarla, imperocchè la era cosa venuta «di cielo in terra a miracol mostrare.»
La natura, creando Giovanna di Torrespina, aveva fatto una delle sue meraviglie, ahi troppo rare, se pure l'infrequenza non ha a reputarsi maggior ventura per gli uomini; e, creatala bellissima tra tutte, le aveva conferito un segno di particolar leggiadria, tingendole i grandi occhi di un verde che pareva smeraldo.
Questo regal colore è assai raro a trovarsi negli occhi, ma non è altrimenti fuori di natura. E questo va detto per taluni, i quali hanno notato d'inverosimiglianza un ritratto di donna, già fatto in qualche altro libro dall'autore di questo gramo racconto. Egli ha veduto di simili occhi, li ha amati (quand'era giovine, s'intende), e sa benissimo quel che dice. E molto prima di lui lo seppero i greci, che fecero Minerva glaucopide. Un latinista che sapeva il fatto suo, tradusse cæsios oculos habens, e un italiano che forse non aveva mai veduto occhi verdi, tradusse occhiazzurra. Ma egli non sarebbe caduto in errore se avesse letto il Calepino, dove dice che il cæsius «est color subviridis igneo quodam splendore intermicans» e non avrebbe mutato il verde in azzurro, se avesse ricordato quel che dice Cicerone nel suo libro intorno alla natura degli Dei: «cæsios oculos Minervæ cæruleos Neptuni».
Non avendo il povero scrittore altra ringhiera che questa per dire le sue ragioni contro i suoi avversarii, gli si condoni questa filologica tantafèra, la quale dimostra incontrastabilmente che gli occhi verdi erano conosciuti dagli antichi, e chi non ne ha veduti a' tempi nostri, suo danno.
Ora, gli occhi verdi della castellana di Torrespina erano del più bel verde marino che si potesse vedere, e sfolgoravano alla luce, come fa per lo appunto l'onda marina, quando la penetrano i primi raggi del sole. E la bella Giovanna, a cui lo specchio non aveva taciuto il pregio singolare delle sue grandi pupille, amava il verde sopra ogni altro colore; smeraldi erano le sue gemme predilette; verde zendado la cintura; il verde era maritato mai sempre al bianco delle sue vesti; e il verde dava risalto alla morbida bianchezza delle sue carni.
Torno a' miei greci con una breve digressione. Questi sacerdoti del buon gusto, questi felici interpreti della natura nelle sue forme più elette, ci hanno tramandato due tipi di bellezza femminea, la Venere de' Medici e la Venere di Milo. La prima di esse è giunta intera fino a noi, vo' dire con tutte le sue membra, epperò si mostra all'universale in tutta la leggiadria delle sue forme, in tutto lo splendore delle sue attrattive. La Venere di Milo è guasta; non ha più ciò che attira e trattiene; cionondimeno è stupenda a vedersi, e l'amore si mescola nell'ammirazione. Tutta la sua persona spira una divina maestà, ma i più dolci pensieri si destano alla sua vista; la si guarda riverenti, e frattanto un non so che ci bisbiglia nel cuore che l'essere amati da lei sarebbe la somma felicità. Che avverrebbe egli mai del riguardante, se a quella divina non mancassero le braccia? Nol so; ma so bene che ho contemplato la Venere de' Medici, ed ho adorato la Venere di Milo; che quella mi è piaciuta, e questa mi ha soggiogato.
La più bella delle Veneri stava seduta, leggendo uno di quei volumi dalle carte miniate che erano sulla tavola daccanto alla sua scranna intarsiata; ma come gli ospiti di Torrespina comparvero sul limitare, si alzò, e la sua svelta persona, cui aggiungevano dignità le severe pieghe della sua lunga e stretta veste di candida lana, apparve a Morello di Monferrato in tutta la sua regale maestà.
Il giovine s'inoltrò verso la gentildonna, che lo accolse con un inchino, ma con gli occhi bassi, senza averlo guardato nel volto. Egli, come le fu giunto vicino, curvò leggiadramente il ginocchio e le prese la bella mano, che era bianca e fredda come di donna morta.
Ma la vita fu pronta a mostrarsi, se non in quelle vene, in que' muscoli delicati, imperocchè la castellana, vedendo l'atto inusitato, fe' per ritrarre la mano. Morello la rattenne, e, baciandole il sommo delle dita, temprò l'atto con queste cortesi parole:
– Regale onoranza è dovuta a madonna Giovanna di Torrespina da quanti hanno in pregio bellezza e cortesia. —
Quando Giovanna, costretta dal dialogo, sollevò gli occhi a guardarlo, Morello notò come fossero smorti. In quelle due iridi verdeggianti più non risplendeva la fiamma; anche il viso era dell'usato più bianco; la voce medesima, armonica voce, quando la udì, non gli parve più quella.
– Messere, – disse Giovanna, con molta lentezza d'accento, che dimostrava lo sforzo – voi volete farmi andar troppo superba; e la superbia disdice ad una povera castellana di queste squallide montagne. —
Morello fu turbato da quel malinconico accento; quello «squallide montagne» gli andò diritto al cuore. Tuttavia, facendo forza a sè medesimo, rispose:
– Chi non conosce Torrespina? Gentile è il sangue, se non è vasto il reame; e fosse pure il più grande, la sua cerchia sarebbe angusta mai sempre al nome della figlia di Lionello del Cengio, la quale ha fama per tutta Europa di alto ingegno e di sovrana bellezza. —
Madonna non rispose; ma con gesto leggiadro accennò a lui e a tutta la comitiva le scranne che erano disposte in giro. Morello si assise su quella che era più vicina alla gentildonna, e si assisero del pari i compagni, dopo che messer Corrado li ebbe presentati a Giovanna, chiamandoli per nome.
– Voi leggevate, madonna? – chiese Morello, guardando il volume che stava ancora aperto daccanto a lei sull'orlo della tavola.
– Sì, messere; per conforto a queste lunghe ore del giorno.
– Le canzoni de' trovatori forse? O il San Graal di Filippo di Fiandra, che di presente è in voga per la traduzione francese di Cristiano di Troyes?
– No, messere; gli è un libro manco lieto, ma molto più utile: Les pélerinages de l'âme séparée du corps, di Hardouin de Blancheville.
– Il famoso trovatore che si chiuse in un monistero, poichè la sua dama fu morta? – disse Rambaldo di Verrùa.
– Lo conoscete voi? – chiese la dama.
– Sì madonna, conosco i suoi mirabili scritti, ed ho goduto della sua amabile compagnia, l'anno scorso, all'abbazia di Citeaux.
– Un uomo di molta dottrina! – soggiunse ella.
– Sì certo, madonna, e pochi mesi prima che io andassi in Francia, si era appunto trattato di farlo abate; ma egli non volle a nissun patto saperne; il pover uomo è in uno stato veramente compassionevole; l'età non lo tormenta, ma l'adipe…
– Ah! che dite voi mai, messer Rambaldo! – esclamò il conte Corrado, ridendo. – Voi ora guastate con siffatti particolari il bel romanzo della sua vita.
– Intendo benissimo tutto ciò, – rispose il Verrùa; – ma non è colpa mia se la storia soverchia il romanzo. Io pure, andando all'abbazia e sapendo la vita di messere Arduino, immaginavo di trovare un povero frate macilento e scarno, una di quelle figure che fanno pensare a quelle lame irruginite le quali corrodono la guaina, e argomentate la mia meraviglia quando mi vidi dinanzi un frate rubizzo, co' bargiglioni sotto il mento, e costretto a sciogliere tratto tratto il cingolo della pazienza. Egli è là, il biondo Arduino di Biancavilla, pasciuto e tranquillo come un gaudente cavalier di Maria. Ora io non posso leggere una pagina dei suoi malinconici Pélerinagessenza ricordare, a guisa di contrapposto, quell'altra di un suo libro, ancora inedito, ch'egli mi lesse, intitolato: «Des hauts faits de messire Jean Nitouche» che è tale da sbellicarsi dalle risa. —
Giovanna s'era grandemente rattristata all'udire quel racconto del trovatore.
– Voi mi dite cosa, messere, – soggiunse ella dopo una breve pausa, – che mi disavvezzerà dal leggere più oltre questi suoi Pélerinages!
– Ah, madonna! la vita è cosiffatta; i morti si piangono qualche volta, ma si dimenticano sempre. —
E così dicendo, Rambaldo di Verrùa, torse cortesemente lo sguardo da lei, per dare un'occhiata in giro ad Ansaldo di Leuca e agli altri amici del conte Ugo di Roccamàla. Arrossirono costoro, e turbati chinarono gli occhi sul pavimento.
Giovanna era rimasta sovra pensieri, e non badava al senso riposto della sentenza del trovatore. I suoi grandi occhi di smeraldo erravano, senza guardare, lunghesso le tappezzerie di cuoio dorato che decoravano la parete. – A che pensa ella ora? – chiedeva angosciato a sè stesso il giovane Morello. E la spina d'un rimorso lo pungeva nel cuore, e gli doleva amaramente che Ugo di Roccamàla avesse accettato il patto di Aporèma.
Per metter fine ad una conversazione che aveva così dato nel grave, giunse in buon punto la proposta di messer Corrado: i suoi ospiti, dopo una lunga cavalcata, aver mestieri di scuotere la polvere e di mutar panni; si riducessero dunque a' loro appartamenti, dove, come la povertà del castellano consentiva, avrebbero avuto ogni cosa ad essi bisognevole.
Egli stesso condusse Morello di Monferrato nella stanza a lui assegnata. Quivi il giovine signore, deposta la maglia d'acciaio, indossò una leggiadra saracina, specie di farsetto bene aggiustato alla vita, che era del suo prediletto color amaranto, con liste di tela d'argento. Indi, dopo una breve refezione, andò con la brigata a visitare in ogni sua parte il castello, e, intendente com'era di cose militari, ebbe a commendare di molto le difese naturali ed artificiali del luogo.
In questi discorrimenti venne l'ora del pranzo, che fu squisito daddovero e sontuoso pe' tempi d'allora. Io, per non parer digiuno, e perchè l'occasione di ragionare intorno a simiglianti materie non mi si potrebbe di frequente offerire, farò di dirne loro quel tanto che basti a conciliarmi la benevolenza dei dilettanti d'archeologia gastronomica.
Spazioso era il tinello, e potea fare un degno riscontro alla gran sala della corte. Il solaio era di grosse travi di quercia, disposte a cassettoni, leggiadramente intagliate; le pareti dipinte di grandi rose vermiglie sopra un fondo turchiniccio; le finestre alte e a sesto acuto, ma spartite, nel fondo della strombatura, da agili colonnette, sulle quali giravano due archetti a tutto sesto, e custodite dall'aria esterna con quadrelli di vetro colorato, insieme commessi e saldati da liste di piombo. Questa era gran novità per quei tempi, e segnatamente per quei luoghi dentro terra, dove era comune l'uso delle impannate bianche, e soltanto i più ricchi costumavano farle dipingere a fiori, rabeschi, animali favolosi, ed altre simiglianti capestrerie.
Sorgeva da una parete un gran camino di pietra rossa, sulla cui cappa ornata di sculture si ammirava lo stemma dei Torrespina, e nel cui focolare crepitava la stipa, rallegrando del suo calore le membra dei convenuti alle mensa. Per contro, rallegrava gli occhi, facendo bella mostra di sè dall'opposta parete, una credenza a scaglioni, coperta d'un ricco tappeto; la quale portava sui gradini più alti, vagamente ordinato, il vasellame, i taglieri, le idrie, ed altri arredi d'argento per bastare ai bisogni della tavola, e negli inferiori sorreggeva certi barlozzi e fiaschi, col ventre colmo dei preziosi topazii di Candia, di Cipro e di Metelino.
La mensa era nel mezzo, disposta a ferro di cavallo, ma coi posti da un lato solo, per modo che gli scalchi, i coppieri e i donzelli, potessero correre lungo il lato interno e servire i convitati. Una bianca tovaglia, i cui lembi scendevano fino a terra, correva lungo la mensa, nel mezzo della quale si vedevano a giusti intervalli candelabri e salsiere di pregevole lavoro, e sul margine esterno, a doppia distanza di quello che oggidì si costuma, i piccoli taglieri, o piatti di argento; presso ognuno dei quali sorgeva una coppa, e si notavano due coltelli e due cucchiai dello stesso metallo. Le forchette a que' tempi erano arnesi sconosciuti, e i due coltelli co' due cucchiai intorno ad un medesimo tondo, significavano che due persone usavano mangiare ad un solo tagliere. Anche una sola tazza bastava per due; cosa che di presente appare disdicevole, ma allora non era, ed anzi aveva il suo pregio. Oh buona usanza del tempo antico! E chi poi non ricorda con desiderio i lieti desinari del campo, fatti con cinque o sei cucchiai intorno ad una medesima scodella, che si chiamava la scodella dell'amicizia? E chi non amerebbe metter le labbra sugli orli di quel bicchiere che s'accostò alle labbra della donna amata?
Innanzi che il conte Corrado e i suoi convitati si mettessero a tavola, i donzelli andarono in giro con guastade e catini di argento cesellato, per dare acqua alle mani, acqua stillata con odori di rosa e di mammole. Sedutasi poscia la comitiva, Morello ad un tagliere con la gentil castellana e gli altri a coppie del pari, vennero le prime imbandigioni; semolino in brodo fortemente pepato; vitelli, capretti, cinghiali, salsiccie e carni salate. Tutte queste vivande erano recate in grosse pile su vasti piatti d'argento. Lo scalco, ad ogni portata, traeva un lungo coltello dalla sua guaina di metallo, e trinciava la vivanda con quella pronta sicurezza che è data dal lungo uso; quindi i più eletti spicchi erano posti sui taglieri, dove, la mercè di una stiacciata di pane che stava tra la carne e il metallo, erano agevolmente fatti a minuzzoli.
Un gastronomo de' tempi nostri farebbe le boccacce alle salse, ai guazzetti, ai condimenti, onde erano accompagnate le vivande d'allora. Ma i gastronomi di quei tempi le farebbero del pari, se tornassero in vita, ai condimenti, ai guazzetti e alle salse odierne. Io dunque non mi curo dei gusti mutati, e racconto che le prime mense del pranzo dei Torrespina erano di carni lesse ed arrostite, parte inorpellate con torte e galantine, altre rotte in salse, nelle quali entravano alla mescolata il pepe, il garofano, la cannella, la noce moscata, il cubebbe e lo zenzero. Si notavano inoltre certi pasticci di pollo in salsa bianca, la quale era composta di zucchero, mandorle e capperi, battuti insieme con albume d'uovo. Una cosa che anco i buongustai nel tempo nostro avrebbero mandato giù senza controversia, era il vino; ma di questo s'è già detto più sopra.
Così finite le prime mense, si sparecchiò; i donzelli vennero da capo con le guastade e i catini, per dar l'acqua odorosa alle mani; quindi si venne alle seconde mense, che erano giuncate, formaggi, datteri di Catalogna, mandorle di Liguria, uva passa e fichi secchi di Grecia, miele, confetti, zuccherini di ogni sorta, ippocrasso ed altri vini aromatici.
Giovanna di Torrespina assaggiò a mala pena delle vivande che le erano imbandite e che Morello, da cortese servente, le andava sminuzzolando sul tagliere. La sua mente era altrove; egli tal fiata era costretto a ripeterle una frase, poiché ella la udiva senza ascoltarlo, e la cortesia comandava di chiedergli che cosa avesse egli detto.
Per tal guisa, a malgrado del tagliere e della coppa comune, il pranzo durò troppo a lungo per Morello di Monferrato. Come fu notte ed egli si trovò solo nelle sue stanze con Rambaldo di Verrùa, così volse la parola al compagno:
– Or bene, Aporèma, tu il vedi; costei non dimentica.
– Ah sì, non lo nego; – rispose lo spirito del dubbio. – Ella è addolorata, e tanto più fortemente, in quanto che dura un orribil supplizio per nascondere il suo dolore a messer Corrado; e tuttavia…
– Tuttavia, che cosa?
– Tuttavia, dà tempo al tempo, e vedrai!