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Kitabı oku: «Il Libro Nero», sayfa 7

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CAPITOLO X

Dello elogio funebre che fece Ansaldo di Leuca ad un amico diletto

Venti giorni erano passati dopo l'arrivo di Morello a Torrespina, ed egli ancora non s'era disposto alla partenza.

Gianni da Montiglio e Brandalino di Cocconato erano andati ambasciatori alla repubblica genovese ed avevano ottenuto tre galere per condurre allo imperatore Andronico la sua novella sposa, Jolanda di Monferrato. Il naviglio doveva essere allestito per il febbraio dell'anno vegnente, cioè due mesi dopo; e Genova, per usar cortesia a così nobili famiglie, non pure ricusava ogni mercede, ma prometteva di mandare, insieme con la leggiadra Jolanda, una orrevole ambasceria ad Andronico, per congratularsi seco lui delle felicissime nozze.

Questo avevano riferito i due gentiluomini monferrini tornando a Torrespina, e Morello li aveva rimandati, con tutti i cavalieri ed uomini d'arme del suo cortèo, non ritenendo altri con sè che Rambaldo di Verrùa.

Messer Corrado era felice di poter trattenere in sua casa, la mercè di una dolce violenza, un ospite cotanto ragguardevole. Nobilissimo era il sangue e sterminata la possanza dei signori di Monferrato; già fin da Rainerio, fratello al trisavo di Morello, essi erano imparentati cogli imperatori bisantini (Rainerio aveva impalmata Chiromaria, sorella di Emanuele Commeno) e possedevano in Oriente il reame di Tessalonica. Il padre poi di Morello, era quel Guglielmo VII detto il grande, che fe' costar cara a Carlo d'Angiò la sua dimora in Italia, e di Beatrice, figliuola ad Alfonso re di Castiglia.

Argomentate se non dovesse esser lieto, e se non dovessero parergli lievi le splendidezze che s'era dato a fare, per rendere più gradevole all'ospite suo la dimora di Torrespina. Egli aveva cavato fuori dalle pergamene domestiche un matrimonio di Guglielmo VI di Monferrato con Berta di Clavesana, del cui sangue era eziandio sua madre, e cotesto gli dava il diritto di chiamare il giovane Morello col nome di cugino. Di sovente si compiaceva a notare come il parente suo fosse cortese a voler dimenticare, per quella malinconica bicocca delle Langhe, gli splendidi ozii di Acqui e d'Ivrea, le cacce, i tornei, le dame ed ogni altro più gradito sollazzo della corte paterna. Di questo, ch'egli soleva chiamare sacrifizio superiore all'età, messer Corrado s'industriava a compensare il cugino, ordinando nuovi passatempi, i quali avevano mai sempre, a loro principale ornamento, le grazie della contessa Giovanna.

Ed ella? Cortese ognora con tutti; ma il suo pensiero era altrove. Chi non l'avesse conosciuta dapprima forse non se ne sarebbe avveduto; ma allo sguardo esercitato di Morello non poteva per fermo sfuggire che tutta quella serenità esteriore, quella gentilezza di atti e di parole, erano l'opera di uno sforzo continuo. Bianca e fredda come una statua, ella si mostrava dovunque a messer Corrado piacesse, ed appariva facilmente regina; ma in quella che gli altri invitava a godere, ella non pigliava diletto di nulla.

Morello, dal canto suo, non s'inoltrava a proferirle amore; chè non gli dava l'animo, o, per dire più veramente, aveva paura di sè medesimo. Il re Mida, quando gli fu concesso da Bacco il triste privilegio di trasmutare in oro tutto ciò che toccasse, non ebbe certo maggior ritegno ad accostarsi alla bocca il tozzo di pane che doveva sfamarlo, di quello che il giovine Morello a dimostrare l'affetto suo alla donna adorata. Ei non ardiva scendere nella propria coscienza e confessarlo a sè stesso, ma aveva paura. E se ella un giorno venisse ad amarmi! Questo pensiero, a mala pena formato nella mente, faceva rabbrividire lo spirito d'Ugo: e intanto il giovine Morello amava Giovanna con tutte le forze dell'anima, ardeva dal desiderio di palesarlo a lei, e si struggeva ch'ella non lo avesse inteso. Triste stato dell'anima sua! triste dono di Aporèma!

Ma ciò che egli non sapeva indursi a fare, ardiva in quella sua vece Ansaldo di Leuca. Il primo e il più caro degli amici dell'estinto Ugo di Roccamàla, era sempre vicino a lei, le diceva ad ogni tratto le più leggiadre cose, arrossiva quando ella gli volgea la parola, si atteggiava a mestizia quando ella era altrove, parlava poco o nulla con Morello e voleva farlo scorgere, e s'imbronciava a dirittura quando la castellana, per il maggior conto in cui era tenuto il figlio del marchese di Monferrato, era costretta, a mensa, nella conversazione, o nelle gite fuori del castello, a intrattenersi in particolar modo con lui.

Ora, come avveniva egli che madonna gli concedesse di potere assumere quell'aria di amante geloso? Gli è presto detto; madonna non s'era addata di alcuna novità. Ansaldo, agli occhi suoi, non appariva diverso dagli altri cavalieri, che erano, o che venivano a Torrespina, e lo pregiava del pari. Ma ciò metteva conto ad Ansaldo. Egli era uno di quegli sciocchi (e ce ne son tanti in questa valle di lagrime e di furfanterie!) i quali si contentano a non esser nulla presso una donna, pur di sembrare all'universale i prescelti e di riuscire molesti a taluno che l'ami.

Ella, dico, non s'era addata di questi maneggi, imperocchè la sua mente era altrove. Spesso le avveniva di rimanere lunga pezza, segnatamente nell'ora del tramonto, a contemplare il sole che si nascondeva dietro i monti vicini, o a guardare attentamente dal suo verone verso la strada che, costeggiando i pioppi del fiume, facea capo al ponte di Torrespina, in atto di persona che aspetti qualcuno. Il sole tramontava, e madonna era ancora al suo posto, nel medesimo atteggiamento di prima. Che contemplava ella? Chi aspettava? Nulla e nessuno; la sua anima era come la ròcca adamantina delle Mille ed una notte, dove non erano porte, e dove nessuno avea modo di penetrare, se il castellano non gli svelava il segreto.

Morello, a cui era dato di scorgere molto agevolmente cotesto, la mercè di quella maggiore penetrazione, e direi quasi seconda vista che conferisce l'amore, poteva essere al tutto raffidato intorno ai pericoli d'una rivalità simigliante. Ma d'altra parte pensando ai diportamenti di Ansaldo, non poteva far sì che non gli cuocesse aspramente di costui, il quale aveva aspettato la morte dell'amico per farsi innanzi, caldo ancora il cadavere, ad amoreggiare la donna sua. Qui, senza parlare della malaccortezza, che era pur grande, si notava il dispregio d'ogni gentil sentimento, ed una ingratitudine senza pari.

Ansaldo di Leuca non era interamente ospite dei Torrespina. Egli, secondogenito dei Leuca, viveva presso la corte paterna; ma da gran pezza amico e commensale di Ugo, aveva posto quasi continua dimora a Roccamàla e seguitava a rimanervi dopo la morte del giovine conte, in nome del quale mastro Benedicite gli dava ospitalità, sebbene a malincorpo, e sospirando il giorno che gli venisse in mente di andarsene con Dio.

– Sono costoro, – borbottava sempre tra' denti il vecchio strozziere, – sono costoro la cagione della felicità di messer lo Conte, e n'abbiam visto il bel frutto! —

Ed ecco per che modo Ansaldo di Leuca, rimanendo a Roccamàla, come se nulla fosse mutato colà, poteva essere di frequente a Torrespina e fare omaggio alla leggiadra contessa, come se Ugo di Roccamàla foss'egli, ed altro non facesse che proseguire la consuetudine antica.

Nobile Ansaldo! Così egli intendeva l'amicizia! Vivo Ugo, e' gli era sempre ai panni, geloso dell'affetto suo come una donna innamorata, sempre disposto a secondarlo in ogni sua pensata e superbo che ognuno credesse e dicesse non poter Ugo muover passo che Ansaldo non movesse del pari. Oreste era morto, e Pilade lo aveva dimenticato; ospite in casa sua, tradiva la sua memoria e tentava di occupare il suo posto in quell'unico cuore che doveva essere sacro per lui.

Intanto le settimane erano scorse, e dell'estinto non s'era mai fatto cenno alla corte di Torrespina. Morello avrebbe voluto entrare a parlarne, facendo accortamente cadere il discorso sulle castella del vicinato; ma non gli era mai venuto il destro di mettere l'addentellato alla conversazione, e, quando era per ragionarne ex abrupto, quello stesso timore che sentiva di profferire un detto d'amore alla contegnosa gentildonna, gli ricacciava in gola le frasi.

Ma l'occasione, che egli non ardiva far nascere, venne un bel giorno incontro a lui. Una mattina che tutti gli ospiti di messer Corrado erano raccolti nella gran sala, intorno a madonna Giovanna, intesi a discorrere di que' cento nonnulla che formano la trama dei conversari d'una nobile brigata, si venne a dir della neve che era caduta in gran copia nella notte e imbiancava tutto intorno i colli e le montagne.

– Buon per voi, messere Ansaldo! – esclamò il conte Corrado, che era andato a contemplare quello spettacolo della campagna biancheggiante attraverso le invetriate d'una finestra. – Buon per voi, che siete rimasto iersera a Torrespina!

– Perchè mi dite voi questo, messere?

– Perchè la neve vi avrebbe oggi impedito di essere con noi. Vedete come è nevicato forte dalla parte di Roccamàla!

– Dov'è Roccamàla? – chiese Morello, andando nella strombatura della finestra presso il conte Corrado.

– Laggiù, ad ostro, dietro quella montagna che pare un gigante raggomitolato. Di qui alla rocca vi saranno forse venti miglia.

– Ed è forte arnese? – dimandò Morello.

– Sì certamente, un vero nido d'aquile; ma le aquile più non sono là entro…

– E come, messere? forse un castello disabitato?

– No, c'è buona guardia tuttavia, e messer Ansaldo può darvene contezza, egli che v'abita ancora. Ma l'ultimo dei Roccamàla è morto improvvisamente, e fu un rammarico universale, poichè egli era un prode e gentil cavaliero, amato da quanti lo conoscevano. Egli ebbe il torto di non scegliere una sposa tra le molte bellissime che gli erano profferte da orrevoli famiglie, desiderose d'imparentarsi con lui. Io gliene dissi più volte, ma e' non volle saperne. Mi rispondeva sempre sorridendo: c'è tempo, c'è tempo! E il tempo è passato e la sua stirpe si è spenta con lui. Ahimè, messere Morello! Il buon seme si va miseramente perdendo; oggi i Roccamàla; domani forse i Torrespina!.. —

Così dicendo messer Corrado s'era fatto cupo. Morello avrebbe potuto rispondergli com'egli ancor fosse di buona età e come potesse avere un erede degno di lui, solito complimento che si fa ai vecchi, deserti di figliuolanza; ma non disse nulla di ciò, e volse in quella vece il discorso a Roccamàla, donde messer Corrado lo aveva distolto con la sua malinconica osservazione.

– E ditemi ora, messere, a chi toccherà la signorìa di Roccamàla?

– Ruberto il taciturno, – rispose il conte Corrado, – aveva un fratello che andò a morire in Lamagna. Si dice ch'egli abbia lasciato un figlio, ed è voce che quest'ultimo rampollo di così nobile pianta sia per ascriversi alla milizia del glorioso san Bernardo, in un monistero di quelle parti là. Altri dice che egli sia morto; ma io non potrei parlarne con sicurtà. Questo so che furono mandati corrieri in Lamagna, per cercare di lui.

– Ma se fosse morto davvero, o la sua deliberazione di ritrarsi dal mondo fosse irrevocabile…

– Oh, allora, – soggiunse messer Corrado, – il dominio di Roccamàla potrebbe essere rivendicato dal vostro gran genitore, che novera tra' suoi maggiori quel Guglielmo V, detto il Lungaspada, il quale ebbe appunto in moglie una donna dei Roccamàla, siccome ho rilevato dal notulario della nostra famiglia.

– Voi siete buon intendente di genealogie! – disse Morello, inchinandosi con atto leggiadro ai suo ospite.

– Baie, cugino! egli bisogna pur fare alcun che, in questi ozii campestri! Qui poi non abbiamo araldi, come in Francia e nelle corti più reputate, i quali possano tener memoria di queste cose; epperò ogni castellano ha le sue carte, dove nota le discendenze, le agnazioni, i parentadi, e tutte l'altre cose memorabili delle famiglie. Voi vedete che ad esser dotto in cosiffatta materia non ci vuol poi molta fatica. —

Durante questo discorso col Torrespina, Morello aveva sospinto più e più volte gli occhi da un lato, sogguardando madonna. Ma egli non s'era accorto di nessun mutamento che in lei fosse avvenuto al ricordo dei Roccamàla. Tranquilla in apparenza come prima, ella teneva un libro tra mani e ne andava sbadatamente svolgendo le pagine.

Ansaldo, che le stava seduto daccanto, venìa tratto tratto bisbigliando a lei motti leggiadri, ai quali, bisogna pur confessarlo, ella rispondeva a mala pena.

Quel giorno Morello di Monferrato si ritrasse più presto nelle sue stanze e gettatosi bocconi sul letto si diede a piangere amaramente.

Rambaldo di Verrùa s'era fatto daccanto a lui per consolarlo.

– Suvvia, Morello, amico mio, fatti animo non piangere come una femminetta! Ciò disdice ai virili propositi che t'hanno condotto a questo sperimento della vita. Vedi, io, io medesimo, non accuso quella donna, come tu fai ora con le tue lagrime dirotte. Che volevi tu che facesse, o dicesse? Presente il marito, presente tutta la brigata che aveva gli occhi su lei, doveva ella lasciarsi scorgere, mostrarsi turbata, svelare l'interna ed assidua cura dell'anima?

– E sei tu che parli in tal guisa? tu, Aporèma?

– Io, perchè no? Non amo trionfare di te con la menzogna, ed ogni mio ragionamento è condotto a filo di logica. Tu, uomo, disperi oggi così facilmente e senza ragione, come ieri facilmente e senza ragione credevi. Ora, l'una cosa e l'altra debbono esser fatte con piena cognizione di causa. —

Morello non lo ascoltava già più, e continuava tra i singhiozzi a sfogare la piena delle sue amarezze.

– Povero Ugo di Roccamàla! povero stolto! Ecco, tu se' morto appena da un mese, e gli è già come se l'eternità fosse passata sul tuo sepolcro. Gli amici tuoi… ve' come pensano a te! La morte d'un falco randione, o d'un can da giugnere, avrebbe lasciato più ricordanza in quelle anime sciocche e malvagie. E quello sciagurato che tu amasti sopra tutti gli altri, tranquillo, sorridente, superbo, desidera la donna tua, intende senza rimorso a succederti, coglie il momento che si ricorda il tuo nome, per dirle forse: vi amo! Va, traditore! va, Giuda! Alla croce di Dio, ho a bere il tuo sangue! —

Rambaldo sorrise a queste parole di Morello, e gli chiese:

– Sei tu guarito dell'amicizia?

– Sì.

– Guarirai dell'amore.

– Taci, taci! esso mi ucciderà. —

Il giorno appresso, madonna Giovanna, come vide Morello, fu pronta a chiedergli se avesse sofferto, e perchè. La bellissima donna parve molto sollecita della salute del suo ospite, e curante della persona di lui. Ma cotesto, che dovea far lieto Morello, gli riuscì per un altro verso doglioso.

A quelli atti della castellana, il viso di Ansaldo si rabbuiò. Tutto quel giorno stette imbronciato; a mensa fu di pessimo umore. Ed ella intanto, più cortese che mai con Morello, non diede pure uno sguardo alle furie d'Ansaldo.

S'era ella finalmente avveduta dell'amor di costui? Le aveva egli detto parola che non le consentisse d'ignorare più oltre? E, ciò sapendo, le si era forse appalesato, in tutta la orridezza sua, l'animo ingrato del secondogenito di Leuca? Queste erano le domande che Morello andava rivolgendo tra sè, mentre ella si dava tanta cura di lui, e mentre il volto di Ansaldo si rannuvolava sempre più.

Alle seconde mense, e in quell'ora che i più lieti ragionari si alternavano con le tazze ricolme di vini aromatici, volle fortuna che si riparlasse di Roccamàla.

– È egli vero, – disse messer Corrado, volgendo il discorso ad Ansaldo di Leuca, – è egli vero ciò che mi fu riferito stamane, che lo strozziere di Roccamàla…

– Sì, – rispose quegli; – mastro Benedicite si è fitto in capo che il castello, i campi, i boschi ed ogni diritto di dominio su quella vasta contèa, gli appartengano.

– Ma non si tratta di un testamento?..

– Per l'appunto, e' dice di aver trovato in fondo ad uno stipo, nella camera del suo signore, una pergamena con la quale il conte Ugo lo chiama suo erede nel possesso della contèa e ne raccomanda l'investitura. Però lascio argomentare a voi, messer Corrado, com'egli sia salito in superbia, e come già si vada pigliando una satolla di padronanza feudale.

– Egli dunque, – disse Corrado, – aveva il presentimento di una morte vicina, il nostro povero amico?

– O non morì egli, – disse uno dei convitati, – per veleno che gli avea dato a bere un pellegrino misterioso?

– Che! di simiglianti storielle ne corsero molte nel volgo, e molto giovò a propagarle la stoltezza del vecchio Benedicite, il quale vedeva diavolerie dappertutto. Il pellegrino era un povero giullare, tocco nel nomine patris, che non avrebbe fatto male ad una mosca, e che se ne andò la mattina con Dio. Ugo di Roccamàla era chiuso nella sua stanza, disteso nel suo letto, dove non lo aveva certamente ucciso il veleno.

– E che cosa, dunque? – dimandò sogghignando Rambaldo di Verrùa.

– Chiedetene ad Enrico Corradengo qui presente, il quale era stato quel giorno commensale del povero Ugo, e potrà dirvi quante volte la coppa d'oro fosse andata in giro, colma di ippocrasso…

Qui Morello di Monferrato, che fino allora aveva durato una gran fatica a contenersi, balzò in piedi, percuotendo con le pugna strette la tavola.

– Voi mentite, Ansaldo di Leuca!

A quella improvvisa sfuriata di Morello, si fe' un grande silenzio per tutta la sala.

Ansaldo, che era diventato pallido come la morte, si alzò in piedi a sua volta.

– Morello di Monferrato, – rispose egli freddamente, – nessuno mi ha detto mai villania, che non ne pagasse il fio, pel ferro della mia lancia se cavaliero, pel piatto della mia spada se insolente plebeo. —

Morello rispose anzitutto con un sorriso di compassione.

– Noi vedremo, – soggiunse egli poscia, – se gli atti risponderanno ai vanti vostri, messere. Ho notato a due tiri di balestra dal ponte di Torrespina un bel piano, presso una gran quercia, che mi par luogo acconcio ad un passo d'armi. Colà, con licenza di messere Corrado, io cavalcherò domattina con lancia, mazza e spada, e tristo chi verrà a contendermi la via.

– Messer Corrado, – disse Ansaldo di Leuca, – vorrete essermi compagno domani, all'usanza di Lamagna.

– No, o messere, – rispose con molta dignità il castellano di Torrespina. – Morello di Monferrato è mio consanguineo, e se io pure avessi a trovarmi sotto la quercia di Marenda, come quel luogo è detto dalla gente del contado, e' sarebbe piuttosto quale avversario vostro, imperocchè io non avrei dovuto patire che voi diceste cosa contraria alla onorata ricordanza di un cavaliero che era altamente pregiato a Torrespina. Ma voi siete mio ospite, messere Ansaldo, ed altro non vi dirò, che renda più triste la memoria di questa giornata. —

Ansaldo si morse le labbra e non rispose più verbo.

– Grazie, messer Corrado! – soggiunse allora Morello. – Io debbo ora chiedere perdonanza a madonna dello aver qui troppo facilmente ascoltata la mia collera. Come voi mi avete pur ricordato, qualche goccia di sangue dei Roccamàla scorre nelle mie vene… E voi, messere Ansaldo, sappiate che mi sarà compagno alla quercia di Marenda il mio leale amico e pro' cavaliere Rambaldo di Verrùa. Amici non mancheranno a voi per sostenere le vostre ragioni, e come testè mi avete nomato taluno che saprebbe far testimonianza della sconcia morte di un Roccamàla, voi potrete condurlo domattina con voi.

– E' ci sarà, astori del Monferrato! – esclamò il Corradengo, tocco sul vivo.

CAPITOLO XI

Qui si conta di un cavaliere che ebbe il premio innanzi alla giostra

Dirvi come si rimanesse Giovanna di Torrespina a que' concitati discorsi, mi sarebbe troppo malagevole ufficio. Una penna così mal destra, come la mia, non verrebbe certamente a capo di ritrarvi quella delicatezza di pensieri e di sentimenti onde fu agitato l'animo della leggiadra castellana, fino al momento che ella, inavvertita quasi, si ritrasse dalla sala del banchetto, accompagnata dalle sue damigelle.

Pochi istanti dopo la sua dipartita, si fece innanzi un paggio, per dire a messer Corrado e agli ospiti suoi, come madonna Giovanna, sentendosi alquanto stanca, si fosse ridotta nel suo appartamento; l'avessero per iscusata, se quella sera non sarebbe venuta a godere di così gentil compagnia.

Intesero tutti la scusa, e Ansaldo di Leuca ed Enrico Corradengo furono i primi ad uscire dalla sala, togliendo anzi commiato da Torrespina pel giorno vegnente.

Strana condizione di quattro cavalieri, i quali avevano stanza nel medesimo castello, ospiti di un medesimo signore, e che dovevano la mattina appresso uscire dalla medesima porta per combattere ad oltranza gli uni cogli altri!

Ma in que' tempi non si badava più che tanto a simili cose, chè le consuetudini sociali non avevano ancora, come di presente, tante sottigliezze e lisciature, e come le parole erano pronte alle labbra, così le mani erano pronte alle spade, e il sangue si spandeva allegramente per cose da nulla. Le dame assistevano di lieto animo alle tenzoni, e in loro onore solea farsi l'ultimo colpo e il più pericoloso d'ogni torneo, che dicevasi «correr la lancia delle dame.»

Questo di Morello con Ansaldo era uno scontro all'antica maniera de' Paladini, e non dovea farsi in campo chiuso, ove potessero andar spettatrici e giudichesse le dame. Esso tuttavia non usciva punto dalle costumanze cavalleresche, come non era insolito che due cavalieri seduti alla medesima mensa si disfidassero a combattimento per loro private ragioni, od anche semplicemente per qualche sconsiderata parola; imperocchè la misuratezza del dire, e la rispettosa cortesia delle frasi, non si riserbavano che per parlare alle dame, ed era notato d'infamia chiunque ad una donna rivolgesse un manco riverente discorso.

Era migliore la costumanza d'allora, o la nostra odierna? Io, per me, m'attengo all'antica. Abbiamo ora mille vincoli di galateo così per gli uomini come per le donne, e non è chiaro se siamo più riguardosi per osservanza della legge comune, o per vero sentimento di cavalleresca devozione al bel sesso. V'ha poi di peggio nel secolo nostro. Il giovanotto che può vantare un maggior numero di conquiste amorose e che ha lasciato più Olimpie sullo scoglio, è più invidiato che biasimato dall'universale, e v'ha anzi chi lo pregia di più. Ma a' tempi antichi, Bireno era notato di slealtà; chiunque avesse mancato alla fede verso la sua donna, n'aveva il biasimo universale, ed ella non era punto fatta argomento di riso, come oggi si suole; chè anzi, ogni dama ed ogni cavaliero parteggiava per lei, e il disleale amatore non poteva più assidersi a mensa, nè entrare in giostra con gentiluomini, fino a tanto la dama sua, commossa dal suo pentimento, non l'avesse in mercè, e non gli perdonasse il suo fallo.

Ma gli è tempo oramai di tornare al racconto. Uscito Ansaldo di Leuca col Corradengo, anche Morello e Rambaldo chiesero licenza di andarsene nelle loro stanze, per prepararsi (diceva Rambaldo) cristianamente alla pugna del dimani.

Morello era chiuso in sè stesso e non diceva parola; solo l'aggrottar delle ciglia faceva fede di non soavi pensieri.

– Morello, amico mio! – gli disse Rambaldo, scuotendolo, – non ti dar pensiero oggi di quello che farai domani. La rabbia accieca, ma non so di verun caso in cui essa abbia fatto calare più forte un colpo di mazza, o di spada. E poi, che cosa vuol dire questo centellarti fin d'ora il piacere che berrai a larghi sorsi domattina, correndo il saracino contro il tuo tenero amico, il tuo Eurialo diletto?

– Oh, bene hai detto, il saracino! – esclamò il giovine Morello. – Ma io ferirò, te lo giuro, nel bel mezzo della quintana.

– E per questo, – prosegui Rambaldo, – ti bisogna non aver le traveggole. Ma, a proposito di vedere, hai tu veduto gli occhi della castellana?

– No, io non guardavo che lui!

– Male! Io l'ho guardata a mio bell'agio. La s'era sbiancata in viso come la sua veste di lana bianca. Seguì con molta attenzione il tuo dialogo coll'amico prediletto di conte Ugo, e quanto tu dicesti: «orbene, messere, vedremo se gli atti risponderanno alle parole» si alzò a stento da sedere e fe' per andarsene, ma certo sarebbe stramazzata sul pavimento, se le sue damigelle non erano pronte a sostenerla.

– E che argomenti da ciò? – disse Morello, pensieroso.

– Nulla, in fede mia! Gli è naturale che una gentildonna non possa reggere ad una giostra di parole minacciose, come quella che tu hai regalato a così nobile udienza.

– Potevo io operare diverso? Dovevo io contenermi?

– No, per… l'anima mia! Amo la pugna, io; sebbene, mentre tu, già salito in arcioni, mediti i fendenti, i manrovesci e le stoccate, io, più modesto, vagheggio gli sberleffi e le piattonate sulle spalle di quel tristanzuolo del Corradengo. Ah! ah! Egli ci ha chiamati astori del Monferrato, come se credesse di dirci villania. Li vedrà lui, gli astori del Monferrato, questo barbagianni delle Langhe! – E Rambaldo di Verrùa, sostenendo coscienziosamente la parte del personaggio che rappresentava, proseguì allegramente di questa conformità, fino a tanto che giunsero al loro appartamento e, congedati i donzelli, ognuno di essi si chiuse nella sua camera.

Esacerbato ancora dalle parole del suo avversario, e con l'animo travolto in una grande tempesta di feroci pensieri, Morello non fece altro che slacciar la cintura e deporre il pugnale: indi si diede a passeggiar concitato per la stanza. Ma egli non aveva ancor rifatto cinque volte il suo breve cammino, che un lieve picchiar di nocche sull'uscio di quercia venne a distoglierlo dalla sua occupazione.

Egli andò all'uscio, lo aperse, e gli comparve dinanzi un grazioso paggetto, il quale con aria misteriosa gli susurrò queste parole:

– Cavaliere, una gentil damigella di Torrespina che ha in gran pregio il vostro valore, vi prega a muovervi per amor suo e lasciarvi guidare da me, fin dove ella m'ha comandato che io vi conduca. —

Quella misteriosa imbasciata fe' strabiliare Morello.

Siffatte avventure, a dir vero, non erano strane nè rare a quei tempi, in cui il bel sesso, con assai più voce in capitolo, aveva eziandio più arditezza di spirito e più prontezza di partiti, che non di presente; ma per intender quella, bisognava a Morello avere almeno dato uno sguardo alle damigelle di Torrespina, imperocchè non gli pareva naturale che, senza pure aver fatto omaggio degli occhi alla loro leggiadria, dovesse venirgli un invito di quella fatta. Ora questo sguardo fuggevole non si ricordava egli aver dato, nè questo tacito omaggio aver fatto a Peretta di Montezemolo, o ad Agnese de' Ferreri, che così si chiamavano le damigelle di Torrespina.

In questi pensieri, Morello era già per rispondere al paggio com'egli non potesse tenere lo invito. Ma la gentilezza cavalleresca, non lasciandogli trovare una scusa dicevole al rifiuto, gli porse un migliore consiglio, e senza risponder verbo, si fece a seguitare l'adolescente, che per un gran giro di sale lo condusse dalla parte opposta del castello, fino agli appartamenti delle donne.

Il cuore gli batteva forte allo entrare nella camera dove il paggio gli disse di fermarsi e di attendere; ma ben più forte ebbe ad essere la sua commozione, allorquando, invece di Peretta o di Agnese, e' vide venirgli incontro quella che il cuor suo desiderava, ma che mai avrebbe ardito sperare, la stessa Giovanna, la divina Giovanna.

La vista della donna amata ha in sè (chi lo ignora?) alcun che di così forte, di così acuto, che a prima giunta non torna neppure a diletto. Siccome avviene di certi fiori più odorosi, che la loro fragranza va diritta al cervello, quell'«incognito indistinto» di splendori e di fragranze che si sprigiona dal volto e da tutta la persona di lei, t'investe il cuore per guisa, che il sangue bolle e sollecito rifluisce alle tempie, lo sguardo si offusca, e pare che la forza di reggerti in piedi sia per fuggire da te.

– Messere, – disse Giovanna con voce tremante, – non vi fate meraviglia del mio ardimento…

– Oh, che dite voi, madonna? Vedervi è ventura che il cielo non saprebbe mandar la migliore, e non lascia luogo ad altri pensieri. Io, poi, bene intendo come tutto ciò che oggi è avvenuto…

– Sì, per l'appunto di ciò volevo parlarvi.

– Vi ascolto, madonna! – disse Morello, sedendosi sull'orlo della scranna che la bella castellana gli aveva additata, nell'atto di sedersi ella stessa daccanto a lui.

Non era quello il tempo di pigliar la strada più lunga, e Giovanna di Torrespina, guardando fiso in volto il giovine Morello, gli volse questa dimanda:

– Conoscevate voi Ugo di Roccamàla?

– No, madonna; – rispose il giovine, – di lui seppi, soltanto l'altro dì, che mi era congiunto di sangue.

– E allora… – disse ella, con una sospensione che pareva compendiar tutto l'accaduto della giornata.

– Madonna, – fu pronto a soggiungere Morello, con una di quelle frasi improvvise, rapide ed efficaci come il lampo, – io odio Ansaldo di Leuca!

– Ah! e perchè?

– Perchè egli vi ama; – proruppe Morello.

Giovanna non soggiunse parola; stette a lungo muta, ed egli del pari, ambidue cogli occhi bassi.

Quando ella finalmente li alzò, fu per dirgli soavemente:

– Messere, quello che voi avete scoverto, io medesima non ho saputo mai, fino all'altro dì, che mi parve accorgermi di qualche cosa e ancora non ne avevo certezza.

– Ed ora che v'è noto, madonna, – disse Morello incalzando, – ora vi duole di ciò che avverrà domattina…

– Sì, mi duole; – rispose Giovanna, senza badare allo intendimento riposto delle parole di Morello, – mi duole per voi, che mettete a tal repentaglio la vostra utile vita; mi duole, poichè voi lo diceste pur mo', che io mi sia la cagione di questo combattimento; ma ho speranza che Iddio v'aiuti, messere, perchè la buona causa è quella che voi sostenete.

– Ahimè, madonna, a che mi approderà il vincere? – disse Morello, chinando mestamente il capo sul petto.

– Che dite voi ora, messere?

– Che voi non mi amate, – gridò egli, tendendo le palme verso di lei, – e che, non amato da voi, mi sarà forse miglior sorte il morire. —

Queste di Morello erano parole che volevano una pensata risposta, imperocchè da essa dipendeva, non pure il dialogo di quella sera, ma la sorte sua presso di lei.

Madonna lo guardò, ma senza sdegno; chinò i grandi occhi di smeraldo; tornò a volgerli su lui; quindi con piglio solenne, stendendo la mano in atto di far giuramento, gli disse:

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
25 haziran 2017
Hacim:
190 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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