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Kitabı oku: «Il Libro Nero», sayfa 8

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– Morello di Monferrato, se uomo al mondo potessi amare tuttavia, voi sareste quel desso. —

Egli cadde ginocchioni, afferrò quella mano, e la cosperse di baci e di lagrime, senza che ella pensasse a ritrarla.

– Ma voi non morrete, – proseguì ella, – voi non morrete, cavaliero gentile, nato alle grandi imprese, per cui va giustamente famoso il vostro legnaggio. Il mondo ha dovizia di donne, più di me a gran pezza leggiadre, ed ognuna di esse sarà superba dell'amor vostro. Che potrei darvi io, in quella vece? Il mio cuore, divorato da una profonda amarezza, non ha più luogo per l'affetto. —

L'anima di Ugo di Roccamàla suggeva avidamente quelle meste parole; ma il cuor di Morello era triste; e Morello ed Ugo, la carne nuova e lo spirito antico, furono ad una per dire a Giovanna:

– Oh, io non amerò mai altra donna che voi!

– Mai! – ripetè Giovanna, sorridendo malinconicamente. – La è una grave parola. Chi ardisce dir «mai» quando non è alcuna fidanza del futuro, e nulla è durevol quaggiù?

– Voi stessa, – rispose prontamente Morello, – voi stessa che dite nel vostro cuore non essere più luogo all'affetto, come se la carne inferma non potesse risanare, come se…

– Tacete, messer Morello, tacete! E per ricordarvi di me, togliete questa sciarpa di verde zendado, che cingerete, se pur l'avete in qualche pregio, intorno al vostro giaco di maglia, e che io desidero abbia a portarvi ventura. —

Il giovine non trovò parole da rispondere; strinse la sciarpa sul seno, e rimase ginocchioni, estatico a guardar lei, che, con un leggiadro gesto di commiato, si era mossa per andarsene. I suoi occhi la seguirono fino all'uscio interno per dove era venuta dapprima; colà, innanzi di sparire, ella mandò al cavaliero un altro saluto amorevole.

Quando tornò nel suo appartamento, Morello fu meravigliato di scorgere il lume acceso nella camera di Rambaldo.

– Che fai tu? – chiese egli, affacciandosi sul limitare.

– Non vedi, Morello? Forbisco e metto in assetto i pezzi delle nostre armature.

– Fatica rubata agli scudieri! – disse Morello.

– No, – rispose Rambaldo, – io penso che in questi negozi assai meglio vedano gli occhi del cavaliero. Egli ha da indossare le armi, egli ha da esser sicuro del fatto suo, segnatamente allorquando, com'io ora, egli non ha certe guarentigie…

– Che vuoi tu dire?

– Che io non ho, – soggiunse Rambaldo ghignando, – favori di dame da sospendermi al collo, nè cuori innamorati a palpitare per me. —

Morello non rispose nulla ai motti di Rambaldo; voltò le spalle, e andò nella sua camera a coricarsi sul letto.

CAPITOLO XII

Nel quale si legge della differenza che corre fra astori e barbagianni

I primi albori del giorno rischiaravano appena la morta campagna, e già gli arcieri di Torrespina erano costretti a calare il ponte, per dare uscita a due cavalieri che andavano alla quercia di Marenda, seguiti da loro scudieri e donzelli.

Quantunque vestiti di pesante armatura, essi cavalcavano due palafreni. Ma gli scudieri che venivano dietro a loro conducevano per le redini due poderosi destrieri, bardati sulla cervice e sul collo con lamine di ferro, e coperti di sotto all'arcione con ricche gualdrappe di tela d'argento e di rosso. Ciascheduno de' donzelli, poi, recava sulle spalle la lunga lancia di ferro e la mazza ferrata del suo signore.

Gli arcieri salutarono i due gentiluomini con l'aria di persone le quali sapevano la cagione di quella gita mattutina. Infatti, fin dalla sera innanzi, la voce della disfida era corsa e ognuno facea voti pel giovine cavaliero del Monferrato. Tanto era amato a Torrespina messere Ansaldo di Leuca!

– Viva Morello di Monferrato, e il barone San Giorgio gli dia vittoria de' suoi nemici! – gridò il capo degli arcieri, scuotendo la berretta col braccio teso sopra la testa.

Morello rispose con un sorriso e con un cenno della mano all'augurio del soldato, ed uscì galoppando all'aperto. Egli portava il suo ghiazzerino, armatura di cuoio cotto, contesta di lamine di ferro. Sul ghiazzerino scendeva il sorcotto, del suo prediletto colore amaranto. L'elmo non aveva corona, poichè il secondogenito di Guglielmo il grande, non esercitava ancora il comando di terre e castella, ma era in quella vece sormontato da due grand'ali spiegate, le quali, crescendo maestà alla sua bella figura, significavano voler egli innalzarsi piuttosto col suo valore che con la casuale nobiltà dei natali.

Rambaldo di Verrùa, vestito anch'egli di ferro, appariva di fuori tutto rosso come un cardinale, o come un gambero cotto. Il suo elmo portava due magnifiche corna, o trombe di torneo, contrassegni allora di chi era stato riconosciuto nobile e blasonatodue volte nei torneamenti, cioè pubblicato due volte a suon di tromba dagli araldi.

I due amici cavalcarono silenziosi fino alla quercia di Marenda, luogo molto acconcio ad un combattimento, siccome aveva notato Morello, e che già più volte doveva aver servito ad uso di giostra o torneo. Era esso un campo assai lungo e di conveniente larghezza, pulito e piano come un'aia, fiancheggiato da un ciglione, sul cui declivio sorgeva una gran quercia, stendendo i lunghi e nodosi rami, a guisa di padiglione, fino a mezzo l'arringo.

Il sole non era anco spuntato, e certe nuvole che coprivano il cielo lasciavano intendere ch'egli per tutto quel giorno non si sarebbe mostrato. L'aria mite faceva presagire un'altra nevicata imminente.

Morello, come fu giunto sotto la quercia, scese d'arcione, e lasciato il palafreno ai donzelli, si fermò con le braccia incrociate sul petto a contemplare la campagna e i monti lontani.

– Che guardi tu, ora? – gli chiese Rambaldo.

– Di là da que' greppi, verso Roccamàla, dov'è morta e sepolta la felicità di conte Ugo…

– Ahi poca fortezza d'animo! – disse Rambaldo. – La mesta sapienza di Morello non val forse la sciocca felicità del cieco signore di Roccamàla?

– Sarà, – rispose il giovine, mettendo un sospiro, – ma io ero felice!..

– Sì, – soggiunse l'altro ghignando, – col tuo fedele Ansaldo di Leuca…

– Ah! non mi parlare di lui!

– Sto zitto; eccolo appunto col sozio, che viene a questa volta. Ve' i capi scarichi! E' stancano fin d'ora i destrieri. —

Infatti Ansaldo di Leuca e il Corradengo venivano di buon trotto al luogo del convegno sui loro destrieri di battaglia, e con le lance sull'arresto della staffa.

Appena li ebbe veduti, Morello, che già era smontato dal palafreno, siccome s'è detto, fu sollecito a salire sul destriero. Raffermatosi in sella, volle sincerarsi che la sua mazza d'armi pendeva dall'arcione. Calò la visiera, imbracciò lo scudo e tolse la lancia dalle mani del donzello; si curvò un tratto per carezzare con la manopola le nari del cavallo, e il generoso animale rispose a quel tocco amorevole del suo signore, con un dolce nitrito; quindi, dato di sproni, lo fe' voltare indietro per pigliar campo, intanto che gli avversarii giungevano.

Rambaldo, da esperto cavaliere, lo aveva prontamente imitato.

– O che vuol dire, messeri, – gridò Rambaldo, salutando con una arguzia i nuovi venuti, – che il sole di questi Appennini è tanto scortese con voi?

– Perchè dite voi ciò? – chiese ruvidamente il Corradengo.

– Perchè egli mi sembra, – rispose Rambaldo, – che non voglia punto saperne di ammirar le prodezze de' barbagianni delle Langhe contro i poveri astori del Monferrato. —

Il Corradengo si morse il labbro e non rispose; ma per lui rispose il braccio, crollando fieramente la lancia in atto di minaccia.

– Ah! ah! Sta bene; – soggiunse Rambaldo ghignando, giusta il costume, – che cosa intendete di dire con quel vostro giunco in aria? Calatelo alla misura della mia testa, e vedremo! —

Fu quello il segnale del combattimento. Ficcati gli sproni ne' fianchi ai destrieri, corsero tutti e quattro, rovinarono gli uni sugli altri, con le visiere calate, il corpo piegato sul dinanzi, lo scudo raccolto sul petto e la lancia bassa. A que' tempi non era anche inventata la resta, grosso ferro saldato alla corazza, su cui poggiare l'impugnatura della lancia perchè il colpo riuscisse meglio assestato, epperò l'antenna si volgeva diritta al petto dell'avversario tenendola a gran forza di braccio raccomandata sotto l'ascella.

Le lance dei due maggiori combattenti si scontrarono con tutta la veemenza che era loro conferita dall'impeto delle cavalcature. Ma la lancia di Ansaldo colse di sguancio un lato dello scudo di Morello, e il colpo andò a vuoto; laddove il ferro della lancia avversaria imbroccò il suo così forte che essa si piegò ad arco, e, rimanendo egli saldo in arcioni, andò in ischegge fin quasi all'impugnatura. S'impennò a quel cozzo il cavallo di Ansaldo, e fe' cadergli la lancia di pugno. Ambedue allora, seguendo l'impeto dei destrieri, trascorsero il campo, andando a fermarsi più lunge, l'uno al posto dell'altro.

Morello intanto era stato sollecito a gittar via l'inutile troncone, dando in quella vece di piglio alla sua mazza, arma poderosa la quale portava ad uno dei capi, raccomandata ad una breve e solida catena, una grossa palla di ferro, armata di aculei, che dovevano essere la misericordia di Dio per quelle membra sulle quali andassero a cadere. E già fornita la carriera, il valoroso giovane avea voltato il cavallo per muover da capo sull'avversario; ma ciò ch'egli vide accadere in mezzo al campo, tra gli altri due combattenti, lo fe' rimanere ammirato a guardare.

Ansaldo di Leuca, s'era fermato del pari, ma con animo ben diverso, imperocchè aveva veduto il suo compagno a mal partito, disteso a terra supino, con un piede ancor nella staffa e le mani aggrappate alle redini del suo destriero, che sparava calci per liberarsi da quella stretta, e frattanto, ne' suoi sbalzi a dritta e a manca, lo trascinava dietro di sè.

Ora, ecco come era andato il negozio. La lancia del Corradengo era passata tra i due corni dell'elmetto di Rambaldo, che per cansare il colpo s'era prontamente curvato fin sul collo del suo destriero, intanto che la sua lancia, più fortunata, coglieva l'avversario sotto la gorgiera, e lo balzava a dirittura di sella. Tardo delle membra com'era, e per giunta stordito dal colpo, il Corradengo era rovinato a terra, e, non potendo rimettersi sulle gambe, stringeva per moto istintivo le redini del cavallo, in quella medesima guisa che l'affogato s'aggrappa ad ogni cosa che gli venga tra mani.

– Lasciate le redini, messer barbagianni, lasciate le redini! —

Il Corradengo, che già più non sapeva a qual santo votarsi, seguì il consiglio dell'avversario, il cavallo fatto per tal guisa padrone di sè medesimo, scappò via spaventato, non senza aver ricevuto sulla groppa la puntura della lancia di Rambaldo, che continuava a ridere senza misericordia.

Tutto indolenzito dalla caduta, ma furibondo pe' motteggi dell'avversario, il Corradengo si rizzò in piedi, mentre Rambaldo, sceso giù da cavallo e lasciate le redini al donzello, mettea mano alla spada.

– Io mi penso, messer barbagianni, – disse quest'ultimo, – che noi possiamo far capo a quest'arma. La vostra mazza se l'ha portata via il destriero, ahi poco fedele! ed io rinunzio a far uso della mia, sebbene sarei in diritto di giovarmene e pettinarvi con essa quel po' di cervello che avete. —

Il Corradengo, che mal poteva schermire di lingua col trovatore di Monferrato, non rispose; ma al piglio con cui si fece a cavare la sua pesante spada dal fodero, era agevole argomentare che la rabbia tendesse i nervi del gigante.

Egli era, siccome ho detto, di membra poderose, e la mezzana statura di Rambaldo, messa a raffronto con la sua, non avrebbe certamente tenuto in sospeso il giudizio di uno spettatore. Al Corradengo parve allora di potersi rifare in un tratto del suo primo svantaggio e di tutti i sarcasmi del suo avversario.

– Astore del Monferrato, prendi questa! – gridò, precipitandosi con un fendente su lui.

Ma Rambaldo non s'era tolto nemmeno il fastidio di parare il colpo. Agile e pronto come una lucertola, egli era guizzato da un fianco, e il Corradengo, non avendo altro a tagliare che l'aria, era andato bocconi sul terreno a contare la sua seconda caduta.

– Ah, ah! il barbagianni! – Ma se la dicevo io, che se il sole non ha voluto comparire quest'oggi e' doveva averci le sue gravi ragioni! —

Furibondo, il Corradengo fe' per alzarsi, ma la spada di Rambaldo fu più pronta di lui e gli piovve addosso una tempesta di colpi. Il povero gigante ricadde, sotto quella rovina, per non sollevarsi più, e per la rotta gorgiera, per le spezzate piastre che custodivano l'omero, spicciarono rivi di sangue.

Pigliatasi quella satolla, Rambaldo si fermò, e al cenno ch'ei fece di averne abbastanza, accorsero i donzelli del Corradengo, per trarre il loro semivivo padrone fuori del campo.

– Che ne dite voi, messere Ansaldo di Leuca? Vi par egli che fosse tanto l'ippocrasto cioncato da Ugo di Roccamàla, quant'è il sangue spillato dalla botte del vostro compare bugiardo?

– Non cantate così presto vittoria! – gridò Ansaldo di Leuca. – I valorosi possono cadere, ed essere vendicati eziandio! A voi, Morello di Monferrato, e fate buona custodia delle vostre membra leggiadre! —

Così disse, e, rotando la mazza sopra l'elmetto, spinse il cavallo a carriera. L'animoso Morello non volle dal canto suo rimanersi ad attenderlo e galoppò del pari verso di lui, andando a ricevere sullo scudo la prima mazzata di Ansaldo. Qui spesseggiarono i colpi, come le martellate dei favolosi Ciclopi nelle fucine dell'Etna, facendo balzar scintille dalle armature percosse.

– Bene! – gridava Rambaldo dall'alto del ciglione, dov'era andato a piantarsi, come un mastro di combattimento; – questo è un colpo che val quanto pesa; e non badate al bisticcio, che è di sovra mercato. Ah, benissimo quest'altro! Morello, amico mio, tu me lo conci pel dì delle feste, il leggiadro garzone! Ohè, bada a' fatti tuoi! Gitta lo scudo, che ormai non serve che ad impacciarti. Ottimamente! Ve' ve' quest'altra mazzata! Fischia la palla e va a battere l'elmetto. Addio, roba mia! L'ha tocco: habet, habet! direbbe mastro Benedicite, che sa di latino. Compare Ansaldo, come vi sentite voi ora? —

Il compare Ansaldo, pesto e sanguinante per tutte le membra, sbalordito dall'ultimo colpo di Morello, che gli avea rotto sul viso la ventaglia dell'elmetto, andava riverso sulla groppa del suo destriero, e, brancicando l'aria con le mani irrigidite, cadeva sul terreno, dove Morello di Monferrato, balzando da cavallo, gli fu subitamente col ginocchio sul petto.

– Ansaldo di Leuca, mi conosci tu? – disse egli con voce bassa ma concitata, in quella che, alzata la visiera, metteva i suoi occhi contro gli occhi del caduto.

Ansaldo lo guardò, e mise un grido di orrore. Egli aveva conosciuto sotto quella visiera la pallida figura di Ugo di Roccamàla.

– Ansaldo di Leuca, – prosegui Morello, col medesimo accento di prima, – chiedi perdonanza delle tue scellerate menzogne!

– No! no! – urlò Ansaldo di Leuca; e, tratto il pugnale, cercava di piantarlo nel fianco del suo nemico.

– No? no? e tenti ancora di ferirmi? aspetta a me, e va in tua malora! —

Alle parole di Morello andarono gli atti compagni. Cavato egli pure il pugnale che gli pendeva dal fianco, lo immerse tre volte nella gola dello sleale cavaliero. Gli occhi si ottenebrarono ad Ansaldo; tentò parlare, e gli sgorgò dalle labbra un fiotto di sangue; volle alzare la fronte, ma tosto ricadde, coi denti stretti e gli occhi sbarrati; era morto.

– Ora, a noi! disse Rambaldo, saltando nel campo, e prendendo pel braccio l'amico. – Il furfante t'aveva ammaccato per bene, ma tu hai picchiato più forte di lui, e me ne congratulo teco, tanto più schiettamente in quanto che Aporèma è rimasto affatto neutrale. Su, in arcioni, adesso, e ognuno seppellisca i suoi morti! —

CAPITOLO XIII

Dove si stilla in dieci pagine ciò che potrebbe stemperarsi in cento

Ho letto, non so più in qual libro, di un filosofo che sudò di molte camicie a cercare se il tempo fosse un gran veneno, come l'ha dichiarato il Petrarca, o un gran rimedio, siccome è dimostrato da tanti e tanti casi della vita. Inutile studio, a parer mio! Spesso i veleni più possenti riescono farmachi, e i farmachi più blandi riescon veleni. La scienza vi discorre e vi spiega queste apparenti contraddizioni della natura; e a me l'esperienza, questa durissima scienza della vita, ha insegnato che il tempo, rimedio e veleno, non rammargina le antiche piaghe se non per aprirne di nuove, che la immagine di un alto dolore scorre impunemente su quelle fibre che nel tempo antico avea fatte frizzare, e un lieve rammarico, fresco di quel dì, fa metter grida e guaiti più forti che non ne mettesse Prometeo sulla rupe, ai colpi di rostro del vorace avoltoio.

Ahi, Ugo di Roccamàla! ahi, povero martire d'un dubbio! Tu volevi sapere, e non ti peritasti di mettere la posta più grossa nel tuo esperimento doloroso. Ora ecco che noi, senza fatica, senza stregonerie, riusciamo a saperne altrettanto; poniamo a sindacato gli affetti del cuore, tiriamo giù la sua brava equazione, troviamo la formola che li crea e quella che li distrugge. La vita, per tal modo considerata, ci si dimostra una cosa assai più da ridere che da piangere, e da non francar sempre la spesa d'esser vissuta.

Ma lasciamo l'algebra del cuore in disparte. Perchè parlavamo noi del tempo? Volevamo chiedergli cinque anni, da farli trascorrere in un batter d'ali, per comodo del nostro racconto. Ed ecco, i cinque anni sono passati, mie belle lettrici, e quel che più monta, senza mescolare un filo d'argento nei vostri capegli, senza scavarvi una ruga traditora alle tempie. Se così fosse mai sempre, se gli anni passassero, senza avvizzirci sulle guance il fiore della gioventù, senza raffreddarci a gradi a gradi il lago del cuore, chi non amerebbe invecchiare, poichè lo andare innanzi negli anni non è altro che vivere? Ma ohimè, il tempo passa e, non pure ogni anno, ogni giorno ci ruba qualcosa; il miracolo di far volare il tempo senza danno d'alcuno, non ve lo fa che un romanziero, e pur troppo gli è un miracolo per celia!

Basta, sono trascorsi cinque anni dalla morte di Ansaldo di Leuca. Il savio lettore ha già capito che Morello ha tolto commiato quel dì medesimo dalla corte di Torrespina. Non si sta accanto ad una donna con le mani tinte del sangue di chi pure l'amò. Il combattimento era leale, necessario; la vostra vittoria desiderata; ma guai a rimanere dopo quel combattimento e dopo quella vittoria!

Tutto ciò aveva inteso Morello, anche prima di sentirselo a dire dal suo fedel consigliero. Inoltre, che cosa poteva egli sperare di ottenere eziandio? Quella donna aveva fatto per lui tutto ciò che le era concesso dal suo stato d'allora. Egli portava sul petto una sciarpa di verde zendado, testimonio, se non d'amore, di benevolenza singolare, e scolpite nel cuore queste gravi parole: «se uomo al mondo potessi amar tuttavia, voi sareste quel desso.» Chieder di più in quel momento, fermarsi a mendicare un quotidiano sorriso, sarebbe stato un cadere in quella mediocrità, che può parer d'oro a molti, ma che non ha uscita, nè speranza di fortuna migliore. Savio consiglio il partire; un amore che vicino spaventa, o infastidisce, lontano si vagheggia senza timore, cresce quasi inavvertito e soggioga.

In tal guisa e con tali propositi, Morello si partì da Torrespina, nè per cinque anni più vide quei luoghi. Dormì egli cinque anni in una notte, o gli passarono dinanzi agli occhi rapidi come un baleno? Questo ed altro potea fare Aporèma.

Comunque ciò fosse, la storia dice che Morello di Monferrato fu alla corte paterna; quindi, per la via di Lamagna, fino a Tessalonica, reame di sua famiglia, e di là navigò a Costantinopoli e corse molta terra d'Asia, dappertutto celebrando la bellezza sovrumana della figliuola del Lionello del Cengio, e rompendo in onor suo molte lance contro francesi e saracini.

E Giovanna, nella solitudine del suo maniero, udiva di frequente il nome di Morello. Talfiata gli era un povero monaco, che se ne tornava pedestre dal sepolcro di Cristo, e le recava novelle del prode e memore cavaliero, insieme con un pezzettino del santo legno; tal altra un gaio menestrello, che le ripeteva d'udita i versi, divenuti famosi, del giovine innamorato.

Ma che sapeva egli del cuore di lei? Aporèma gli aveva chiesto di dar tempo al tempo, ed egli assaporava la triste voluttà di un mutamento, lontano o vicino, ma certo; spiava ansioso e tremante il giorno che la memoria di Ugo di Roccamàla fosse tradita nel cuor di Giovanna.

E già forse non era? Che cosa avea ottenuto Ugo in suo vivente, da lei? Ciò che ebbe a dire più tardi un altro martire del dubbio: parole, parole, parole!Morello potea dunque, e ragionevolmente, argomentare di esser giunto ad uguale ventura, e il suo sperimento avrebbe potuto credersi finito, se un nuovo dubbio non fosse nato nell'anima sua.

– Amerà me finalmente… Aporèma lo giura. Ma, se pure ciò avvenga, che vorrà dire? potrò io farne colpa a lei e crederla dimentica dell'amato estinto? Se lo spirito che muove queste membra è quel desso di prima, non potrà dirsi che ella, amando Morello, obbedisca all'arcana possanza dello spirito di Ugo?..

E qui nuove incertezze, ed una tenerezza ineffabile per quella donna. E con questo pensiero, vagheggiato nella mente senza farne motto al compagno, un cavaliero, male in arnese e stanco in apparenza come chi abbia fornito assai lungo cammino, saliva l'erta di Roccamàla, una mattina di novembre, sei anni dopo la morte di Ugo, andando a chiedere ospitalità al nuovo signore del castello.

Ora il nuovo signore del castello non era altri che quel burlesco personaggio, già noto ai lettori, di mastro Benedicite, il vecchio strozziere.

Com'egli di vassallo fosse giunto a quell'alto stato s'è detto, e son note le grasse risa che ne erano state fatte a Torrespina. Ma ben più avrebbe riso la corte di messere Corrado, se avesse saputo in qual modo l'antico falconiere di Ugo rispondesse al nobile ufficio di successore. A me, per dipingervi a modo questo ridevole castellano, bisognerebbe la penna e il buon umore di Rabelais; ma poi ch'io non l'abbo (direbbe Dante) mi ridurrò al più modesto ufficio di raccontarvi come il nuovo signore passasse i suoi giorni feudali.

Anzitutto ei dormiva, oh! dormiva come un ghiro, e non c'era verso che il ponte di Roccamàla si calasse prima delle undici del mattino, ora in cui l'ottimo gaudente si alzava dal suo letto comitale. Chiunque avesse bisogno di entrare, era cortesemente pregato di attendere, foss'anco stato Carlomagno redivivo. Que' che volevano uscire innanzi l'ora ci avevano la scappatoia delle scale di corda; ma qui bisognava farla netta; se no, guai al trasgressore della comune disciplina; il castellano non lasciava correre lo scherzo!

I negozi del castello andavano innanzi, come al tempo di Ugo il felice, con questo solo divario che i parassiti dell'estinto signore erano stati con bel garbo messi fuori e che lo stesso Fiordaliso, il quale era di nobil sangue, non volendo stare ai servigi di un villan rifatto, se n'era andato, sua sponte, da Roccamàla, per cercarsi ventura altrove.

– Buon viaggio! – aveva detto Benedicite. – I in malam crucem! – aveva soggiunto tra' denti.

Ma se il paggio era andato, il castellano non era altrimenti rimasto senza un fedele compagno. Un certo fra Gualdo, buon bernardone del monistero vicino (ho detto fin dal principio di questo racconto che cosa fossero i bernardoni e perchè chiamati in tal guisa), faceva compagnia quotidiana a messer lo conte. E se il castello non risuonava più degli accordi del liuto e delle gaie canzoni del biondo Fiordaliso, echeggiava per contro delle nasali salmodie del cirsterciense e del suo protettore, arcades ambo, e così bene pasciuti, che l'uno pareva sant'Antonio, e l'altro… quel suo collega che sapete.

Il conte Benedicite s'incamminava di buon passo sulla via della santità. Egli e fra Gualdo recitavano ogni giorno insieme il breviario, e tra un salmo e l'altro, tra un'antifona ed un oremus, solevano bagnarsi l'ugola, per rinfrescare la voce. Cominciavano a centellare, a sorseggiare quel famoso vin di Cipro, che l'uguale (giusta la nota frase di Benedicite) non si beveva alla mensa del serenissimo doge di Venezia; poi tracannavano addirittura le ciòtole; e finivano ogni sera col disfidarsi a chi bevesse meglio a garganella, senza imbrodolarsi la giubba.

Per tal modo non riusciva strano che ogni notte fossero in cimberli, e il più delle volte i famigli fossero costretti a raccappezzarli sotto la tavola, per levarli di peso e portarli a dormire.

Il conte Benedicite! Notate rotondità di nome! Ma al castellano non gli andava ai versi. Diventato padrone, egli s'era affrettato a ribattezzarsi col suo antico nome di Anacleto, comandando, sotto pena di andare a marcire nei sotterranei della rocca, che nessuno fosse tanto ardito da dimenticarselo.

Ma le furon novelle. A nessuno veniva fatto di chiamarlo conte Anacleto; e qualche esempio da lui dato a' trasgressori fece sì che nel rivolgergli il discorso non gli si desse più verun nome. Lui assente, del resto, non si diceva altro che conte Benedicite, ed anzi v'era taluno la cui lingua ribelle non sapeva dir «conte» e tirava innanzi a dir mastro Benedicite, come nel tempo passato.

Il solo che lo chiamasse col suo vero nome, troppo tardi svecchiato, era lo strozziere di Roccamàla, persona nuova, e successore del nuovo padrone in quella aucuparia dignità. Conte Anacleto (lo storico imparziale gli farà anch'egli il torto di non chiamarlo a modo?), conte Anacleto avea fatto venire assai da lontano quel personaggio, perchè avesse cura delle sue nobilissime bestie.

Di insegnare il mestiero all'Anselmuccio non gli era infatti più nulla. Quel biondo nipotino, che i lettori conoscono per la sua lezione sulle varie generazioni di falchi, poteva essere allora sui diciassett'anni, e nato, come era, da una sorella di Benedicite, il quale non aveva figliuoli, diventava per conseguenza il contino, l'erede della corona, salvo (s'intende) il caso d'una rivoluzione, od altro accidente che avesse a turbare il prestabilito ordine dinastico.

Lassù si andava bisbigliando che l'Anselmo fosse un figlio extra torum di Roberto il taciturno e fratellino carnale di conte Ugo. Benedicite, che in ogni altra occasione si sarebbe recato di questa diceria come di ingiuria gravissima alla memoria della sorella, or la lasciava correre, come quella che gli pareva una consacrazione del diritto di successione. Onore umano, come cangi spesso di nome e di luogo!

Ma, il lettore dirà, e non c'era il testamento per raffidarlo? Ahimè, nessuno lo aveva veduto, quel testamento, e non se ne parlava che d'udita, perchè lo avea detto egli…

Così il conte Anacleto passava il suo tempo abbastanza felice. Egli era una specie di Macbeth, senza i delitti, ma con tutte le sperticate ambizioni e con la più sperticata ingratitudine verso la memoria del suo estinto signore.

Al nuovo feudatario non mancava che una cosa, la castellana. Talfiata, nelle sue bacchiche conversazioni con frate Gualdo, e quando il vino gli dava nell'elegiaco, il conte Anacleto Benedicite si lasciava ire alla tristezza di questo pensiero.

– Vae soli, frate Gualdo, vae soli! lo ha detto re Salomone; ed egli doveva intendersene, che, pel timore di rimaner solo, s'era tolto settecento mogli, e trecento… ausiliarie. Or dove ne troverò io una?

– Che dite voi, messere? – rispondeva frate Gualdo, il quale aveva un altissimo concetto del vino di conte Anacleto. – Qual donna non si recherebbe a ventura di avervi in marito, felicem adire thalamum?

– Voi non direste male, pater reverendissime, se io fossi giovane, si mihi rideret ætas. Ma oramai la è passata, l'età degli amori onnipossenti, e qual Sabina di queste castella si lascierebbe rapire da un vecchio par mio?

– Mi viene in mente una bella pensata; – disse fra Gualdo. – O non potreste sposare la figlia dell'armaiuolo? Quella è una bellissima femmina, mulier formosissima, non troppo giovine…

– Ah, ah! – gridò mastro Benedicite, cioè scusate, il conte Anacleto. – Bibisti quam maxime, pater reverendissime! Voi mi proponete di far casaccia…

– O come, casaccia?

– Maisì, un gramo parentado. O che, vi par egli dicevole? Un signore di Roccamàla… la figlia d'un fabbro… Ella è belloccia, mehercle! e non nego che se fossi il re Salomone, non avrei nessuna difficoltà a farla la millesima prima…

– Messer Anacleto! – interruppe scandolezzato il monaco. – Re Salomone cadde per questi suoi peccati in disgrazia di Dio.

– Ah, me n'ero scordato; ma basta, io non corro di simiglianti pericoli, a questi lumi di luna. Io volevo dirvi soltanto che un signore di Roccamàla non può scender di condizione, e che i vostri argomenti peccano contro il senso comune.

– Io dicevo così per dire; – rispose fra Gualdo. – Non ne parliamo più. —

«Non ne parliamo più» gli era presto detto! Cotesto era in quella vece il discorso che veniva in tavola ogni giorno, poichè il pensiero del matrimonio era l'unica spina del conte Anacleto.

Per ventura, ogni sera, il vin di Cipro veniva pietoso ad affogare il dolore del conte.

E adesso che abbiamo rifatta conoscenza, con gli abitanti di Roccamàla, ripigliamo il filo del nostro racconto, torniamo al forastiero, che ha avuto tempo a salir l'erta, agio ad aspettare la calata del ponte, e modo di giungere fino alla gran sala del castello, dove il conte Anacleto, quondam strozziere, seduto sulla scranna feudale, riceveva i cavalieri e rendeva giustizia ai vassalli.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
25 haziran 2017
Hacim:
190 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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