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Kitabı oku: «Pietro Mascagni», sayfa 3

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Alla interruzione dell'intermezzo e della bella scena popolare, succede più tragica e più feroce l'ultima ripresa del dramma. E il finale è perfetto in tutte le sue parti. Dalla sfida di Alfio al discorso sconclusionato di Turiddu, che sente in sè sorgere prepotente il rimorso per il male che ha fatto a Santuzza; dall'addio di Turiddu alla madre, d'una dolcezza che strazia, al murmure lontano del popolo che annuncia tumultuosamente l'uccisione di Turiddu; è un seguito di episodi che fanno uguagliare a questo finale la bellezza della romanza e del duetto di Santa e di Turiddu. Ma di tutti questi episodi, l'addio di Turiddu alla madre è forse tale da superare la bellezza non solo del resto del finale, ma ancora di tutta l'opera. Dopo la sfida di Alfio, la scena è rimasta vuota. Alla gaiezza e al clamore è successo un silenzio impicciato e quasi doloroso, quel senso di tristezza che generano le scenate popolari in mezzo a una bella festa. Tutti sono partiti lasciando Turiddu solo nella gran piazza piena di sole. È un momento d'ineffabile malinconia. Turiddu non sa come baciare, forse per l'ultima volta, la madre. E un breve intermezzo di violini tremolanti nel grande silenzio, s'espande rinforzando scendendo salendo diminuendo, come fa il vento, e come fanno i sentimenti umani fluttuando per i lor ciechi e irremeabili labirinti. Finchè Turiddu trova la scusa: ha bevuto troppo, ha bisogno di un poco d'aria libera; e fingendosi ubbriaco chiede alla madre la benedizione «come quel giorno che partì soldato». Questa frase è un nulla: eppure è un'evocazione sublime. Bisogna infatti sapere che cosa significhi per gli abitanti dei paesetti sperduti e lontani dai grandi centri la leva militare, quella ineluttabile chiamata che strappa alle madri e ai padri i figli per portarli, là, nelle contrade ignorate o sognate come piene di terribili pericoli, donde spesso non tornano più; bisogna intendere tutta la delicatezza di quell'immagine infinitamente triste. E nella musica c'è tanta semplicità, tanta giustezza di malinconia affettuosa, che volentieri noi porremmo questa scena tra le più grandi d'ogni teatro. Ma alla pietà filiale s'accoppia in Turiddu la compassione per Santuzza: ed egli prorompe allora in una spasimante frase: «Voi dovrete fare da madre a Santa!» La povera madre s'angustia; domanda il perchè di tali strane parole e del più strano tono. E tuttavia la musica non ha un momento di debolezza: è sempre d'una verità purissima, cristallina. Nessun ricordo di maniera intralcia nello spirito del musicista lo svolgersi della visione del dramma, sentito fino a farlo balzare ai nostri occhi e al nostro cuore come un momento di vera vita vissuta. Questa musica è perfetta creazione, e le parole e la situazione per esser rivissute intere nello spirito del Mascagni, sembrano esser create contemporaneamente colla musica. Anzi io posso sostituire all'empirico forse, una sicurezza assoluta. Giacchè in iscene come queste, anche i compositori che non creano nel tempo storico il libretto da loro stessi, ma lo chiedono ad altri, sono simili a coloro che, come Wagner, furono autori del libretto della musica. Infatti tanto gli uni che gli altri, creando l'opera musicale, dovettero rifondere in una nuova intuizione totale, l'antica intuizione poetica. Onde, che questa appartenesse ad un altro o a quell'altro particolar sè stesso, che è il del passato, ciò non conta, se tutte e due le intuizioni, e la propria e l'altrui, debbono essere rintuite e come rifuse in una sola dal compositore.

Riepilogando, la Cavalleria Rusticana è opera non di grande portata, ma schietta e piena di vita e di difetti simpatici da un capo all'altro. È un'opera giovane ed entusiastica; è un'opera plebea, certo inadeguata a rappresentare nella storia un vero e proprio momento spirituale dell'Italia. Piuttosto essa si riallaccia bene con quell'ordine di opere italiane e straniere, create, com'ebbe a dire uno degli interpreti più profondi dello spirito moderno, da coloro che, preclusi ai grandi orizzonti del pensiero dall'opaca muraglia del positivismo e del naturalismo, peccarono contro il pensiero. Se non che la posizione del Mascagni nel verismo e nel naturalismo è assai più complessa di quella di uno Zola e di Verga e merita di essere commentata ed esplicata, tanto più che da tale analisi potremo togliere i criteri onde dare un definitivo giudizio su quest'opera; un giudizio, cioè, che non annullando come, ripeto, troppi critici fanno, le sue indiscutibili bellezze, limiti la sfera in cui queste bellezze nacquero e vivono.

La Cavalleria si ricollega indubbiamente col grande movimento europeo del verismo. Senza entrare nella questione, per me ovvia, della possibilità del verismo nella musica, noterò subito come la Cavalleria sia opera del verismo più per virtù del libretto, che per bisogno della natura del musicista. È in questo che consiste la speciale posizione del Mascagni rispetto al verismo. La musica è stata finora, riguardo ai grandi movimenti della coltura europea e alle grandi correnti dell'arte, come un'arte di rifiuto. Le aspirazioni d'una nuova scuola allora solo penetrano nel mondo cinese dei musicisti, che abbiano compiuta la loro totale evoluzione e che questa evoluzione abbia già generato la sua rispettiva controrivoluzione. L'Italia aveva avuto già la violenta e feconda reazione letteraria al verismo zoliano e verghiano nello pseudo-idealismo d'annunziano, pseudo in quanto attuato più come intenzione che come cosciente rivolta al positivismo; quando la reazione dei musicisti al melodramma victorughiano-verdiano si modellava tardivamente sopra la reazione che all'arte victorughiano-romantica già compivano in Francia i naturalisti, generando un'arte che doveva empire di nuovo sangue, benchè a preferenza plebeo, le vene flaccide della Musa Europea. La Cavalleria resulta dunque, rispetto agli ideali che l'hanno o sembra l'abbiano ispirata, un'opera in ritardo, e perciò, anche sotto quest'aspetto, inferiore alla storia, allo spirito che si svolge con continuo processo di autocreazione nel tempo; essa è un'estrema produzione del verismo, come il Mefistofele è una postrema produzione del romanticismo; sebbene nella Cavalleria noi potremmo trovare un verismo infinitamente meno rigoroso di quello dei naturalisti, che non ammettevano l'opera d'arte che come un documento scientifico-fotografico della vita umana. E non per il fatto che il Mascagni si sia reso piena coscienza dell'errore estetico del verismo; sibbene perchè il verismo mascagnano è un verismo da musicisti, un verismo (non voglio fare un calembour) a orecchio, da permettere perfino delle infiltrazioni wagneriane. Ora questa mia nota sul verismo della Cavalleria, non sarebbe che oziosa e meramente meccanica, se proprio questo carattere veristico non facesse assumere a quest'opera il valore, rispetto alla circoscritta operistica italiana, d'un sintomo di rinnovamento innegabilmente necessario, e, rispetto alla grande arte motivata dalle più alte necessità della storia umana, non le facesse assumere, contemporaneamente, il valore d'un'opera inutile perchè in ritardo7. Ciò che ho detto sulla manchevole coltura del Mascagni, ha qui una nuova riprova. Sembra quasi che l'arte degli artisti come questo nostro, si contenga verso la grande arte degli artisti come Goethe e Beethoven, e Berlioz e Wagner, al modo stesso che l'immobile fondo del mare verso gli alti strati delle acque percorse da correnti e agitate da tempeste. Il movimento delle onde giunge, se vi giunge, in basso, quando già su in alto un nuovo movimento s'è manifestato. L'ambiente musicale assolutamente sterile di nuove idee, nate dal contatto diretto della vita libera e aereata dai vasti venti della coltura, si pasce quasi delle briciole che lascia cadere il sereno banchetto dei grandi spiriti. Da questa specie di vecchiaia precoce, di morte quasi direi necessaria e congenita alla nascita dell'opera, viene spiegato il senso di vuoto che cova sotto la Cavalleria. Certo la freschezza dello spirito del Mascagni c'incanta, e se noi giungiamo ad astrarre l'opera dal momento storico in cui siamo immersi, e ad assorbirci tutti nell'angusto cerchio della vita dello spirito italiano, quasi ci sentiamo spinti a proclamare la Cavalleria un capolavoro. Ma anche ammettendo, come io so di buon grado, la fresca spontaneità di quest'opera contrastante con le bolse produzioni del falsissimo teatro melodrammatico italiano – un teatro che ci ha dato talora per buone delle putrefazioni romantico-sentimentalistiche della forza d'una Gioconda del Ponchielli – il nostro spirito, se aperto a tutti i venti che agitano la storia contemporanea e alle voci dei suoi problemi spirituali, trova presto in quella freschezza la barriera della puerilità e dell'incoscienza, e in quella spontaneità – il limite cieco della futilità. Non siamo dinanzi a una di quelle opere che c'inquietano e ci fecondano, se non altro di contraddizioni, come qualche libro di Zola un tempo, e come il Pelléas di Debussy, oggi. Non sentiamo nella Cavalleria un bisogno ineluttabilmente nuovo, che prenda coscienza piena di sè e, come tale, abbia il diritto di esser chiamato una nuova conoscenza artistica, una vera nuova opera d'arte. La Cavalleria, se, ripeto, siamo pienamente coscienti del nostro spirito, ci fa l'effetto che fanno tutti i ritardi e le rifioriture fuori stagione nella storia. Stucca presto, anzi genera presto, invece di uno stato estetico nuovo, un sorriso oblioso. Oblioso, perchè ci dimentichiamo che è stata scritta, tosto che il grande sole della vera coltura adeguata alla pienezza cosciente dello spirito, ci ravvolge scaldandoci e illuminandoci del suo immenso splendore meridiano.

Così, tutto sommato e tenendo conto del valore di musicista popolare che ha il Mascagni, il vero senso che la Cavalleria ha nella storia generale dell'arte e quindi dello spirito umano, non è che quello d'indicare un rinnovamento popolare della linfa musicale nell'antichissimo tronco dell'arte italiana. E anche questo suo valore popolare non è da disprezzarsi. Giacchè si ricordi bene che il popolo è pur sempre il serbatoio delle forze vive d'una nazione, e che coloro i quali sembrano aver superato lo stato confuso e retorico della vita spirituale del popolo, in fondo in fondo non hanno fatto altro che dare una forma umana a ciò che dall'anima popolare veniva su come confuso gurgite di sentimenti. Ond'è che un vero grande musicista futuro non potrà dimenticarsi dell'opera di Pietro Mascagni, come non potrà dimenticarsi, pur riallacciandosi alla grande tradizione del 500-600, di quelle di Verdi di Bellini e degli altri nostri compositori popolari. Riprendo qui una tesi che accennai nella prima parte di questo studio. Il linguaggio musicale italiano è continuato da quei sebben piccoli musicisti che, sotto altro aspetto, giustamente noi reputiamo come imbastarditori della grande arte italiana. Ma chi vorrà cantare italianamente dovrà avere le vecchie arie popolari in cuore. Che certo queste meno differiscono dalle antichissime nenie dei pastori preromani, di quello che da esse non differiscano, e comicamente, le musiche inutili degli intedescati e dei futuri d'Indysti e Debussysti.

II.
L'Amico Fritz e i Rantzau

Che il buon Mascagni non fosse un verista pienamente iniziato nei dogmi della scuola naturalistica, ce lo dimostrano le due opere, che subito seguirono la Cavalleria. La prima di esse, l'Amico Fritz, sebben musicalmente possa rappresentare come la continuazione del giovanile furore melodico della Cavalleria, non ne rappresenta certo una continuazione dei presunti ideali veristici. Non starò a ripetere che quel verismo era dato alla Cavalleria dal caso puro e semplice; chè infatti il soggetto del Fritz ne è una conferma lampante, nulla essendo di più d'una di quelle farse un po' comiche un po' sentimentali, quali il Donizzetti specialmente ci diede nel suo delizioso Elisir d'amore e nel suo Don Pasquale, etc. Certo molto di nuovo e di diverso dal contenuto di quelle farse e delle affini c'è nel Fritz; chè elementi indubitatamente nuovi sono nella vita anche popolare della terza Italia. Un senso più immediato e appassionato della natura, una più profonda, a modo suo, intimità psicologica dei personaggi, e quella certa strana tristezza erotica, che se per un lato richiama alla memoria l'erotismo melanconico del settecento, per un altro è cosa tutta moderna e che, a ben guardare, si ricollega con quello stato ambiguo che fu chiamato – dai letterati, oh! non dai musicisti – neoromanticismo. Ma nella sostanza il drammetto del Fritz è ben diverso nel suo significato umano dalla tragedia della Cavalleria. Col Fritz il Mascagni è tornato, per non abbandonarli più, ai vecchi mannequins del teatro melodrammatico italiano. Questi personaggi non son mai come quelli della Cavalleria. Tra Suzel e Santuzza c'è lo stesso abisso che tra la vera poesia e la graziosa invenzione del romanzo ameno.

Musicalmente, ripeto, il Fritz è una continuazione dell'esplosività melodica della giovinezza musicale del Mascagni. Come noi vedremo a poco a poco, la scoperta della propria forma musicale dal Mascagni raggiunta nella Cavalleria, lo influenzò per il lungo periodo che va dalla Cavalleria all'Iris, nel quale spartito egli raggiunge la scoperta di un mondo di nuove formule stilistiche, quasi direi di un nuovo vocabolario personale, scoperta pur troppo resa vana, come è già dimostrato in altra parte, dal non essere generata di pari passo con la scoperta d'un nuovo contenuto maggiormente significativo. Pure tra il Fritz e le opere al Fritz posteriori, cioè i Rantzau, il Poema leopardiano e il Silvano (eccettuo il Ratcliff e lo Zanetto come opere, in cui il maestro ha potuto risentire con calore di vita l'espressione di quelle formule già sfruttate) corre un immenso divario: chè, rispetto alla pienezza espressiva della Cavalleria, quelle tre opere sono autoretorica nata dalla Cavalleria, mentre il Fritz è, come ho già detto, una continuazione della Cavalleria. Quindi, a parte la sciatteria di alcune sue parti, nel Fritz troviamo ancora delle cose incantevoli per freschezza e schiettezza. Il preludietto, l'aria di Suzel nel 1º atto, quasi tutto il 2º atto, la magnifica romanza «all'amore» di Fritz nel terzo atto e, pure nel terzo, il duo di Fritz con Suzel, meraviglioso per passione e forza drammatica, son tutti pezzi degni di stare accanto alle più belle ispirazioni della Cavalleria. Ma il pezzo che supera e abbuia tutta l'opera e che è tra le cose migliori del Mascagni, sebbene inutile rispetto all'opera in cui lo troviamo, è l'intermezzo. Consistente come quello della Cavalleria in una larga aria per violini incastonata tra accordi preludianti e accordi concludenti orchestrali, questo intermezzo esprime, quanto difficilmente la musica del Mascagni ha poi saputo ancora esprimerlo, la calda natura sensuale dell'autore. A quei critici a cui non piaccia e che non sentano in esso che un volgare raddoppio di violini, io non so fare altro che consigliare di essere inesauribili nelle loro esperienze di vita e d'arte, e di pensare che anche questa sensualità espansiva e sana, in cui par sentire «gorgogliar rosse le scaturigini della vita», è cosa troppo italiana, troppo popolare, troppo giovane, perchè si possa spiegare… a chi non l'ha provata nè sospettata, e a chi non ha dell'Italia che una concezione retorico-nietzschiana. Ma chi ha conosciuto la semplicità della vita italiana lungo i litorali luminosi, nelle campagne armoniose di venti leggeri e di squilli di merli; chi ha penetrato il fascino carnale dei dialetti di certe sue città meridionali, dialetti che nelle loro movenze sembrano musica di Mascagni o di Bellini; chi dell'Italia sa tutto questo e ha intravisto (sorridendo dell'avvicinamento mostruoso) quanta parentela corra tra la più fresca e schietta poesia di un Gabriele D'Annunzio (Canto novo, III libro delle Laudi) e le dolci liriche di un Salvatore di Giacomo, e ha sospettato che le loro parole vivide di meridionalità sono intagliate nella stessa materia psichica di questi buoni musicisti italiani, che sembrano averci al posto dell'anima… della bella carne giovane e robusta; converrà con me che quest'intermezzo è vero, è bello, è italiano, e che anch'esso va messo tra quelle arie popolari, che il sereno grande compositore futuro dell'Italia dovrà avere nel cuore insieme con qualche altra cosa ancora degl'italiani, oggi purtroppo dimenticata: il Pensiero. Ma già, di coloro che questo intermezzo non comprenderebbero e irriderebbero, quanti hanno compreso le divine ariette di Pergolese, di Marcello, di Carissimi, di Vivaldi, di Arcangelo del Leuto etc. etc? quanti le hanno godute pienamente e non a traverso ridicole retoriche da salotto?

I Rantzau, invece, sono una delle opere peggiori del Mascagni; in esse trionfa quel modo compositivo o meglio costruttivo, che ho già chiamato autoretorica. Certo, non siamo ancora caduti nella ributtante sciatteria del Silvano, nè nello sforzo tronfio e inconcludente dell'Amica. Il maestro ha in quest'opera ancora tanta dignità in sè da non abbandonarsi a un'inerzia indifferente o a ricorrere a degli inganni ignobili di barocca sapienza orchestrale e drammatica. Ma, sebbene questa retorica sia innocente e quasi fanciullesca, cominciamo però a sentire nell'ingegno del maestro il serio bisogno di un rinnovamento di stile e di contenuto; aggiungasi il soggetto ben agro per un musicista monocorde come il Mascagni. Chè, invece dell'amore, ha in questo dramma il sopravvento l'odio; e il Mascagni, pur riuscendo fino ad un certo segno a far prevalere una tenue ispirazione erotica infinitamente più debole di quelle già avute nella Cavalleria e nell'Amico Fritz, non ha saputo che retoricamente creare il contrasto, l'atmosfera nemica a questo amore, l'odio. Ed è naturale; chè se il Mascagni può cantare l'odio erotico, l'odio della gelosia carnale, non saprà mai, perchè troppo complesso ed estraneo alla sua natura, cantare l'odio per cupidigia, l'odio nato fra due fratelli per colpa del danaro. Anche nella scena tra Alfio e Santuzza, chissà che ad otturare la ben facile vena mascagnana non abbiano contribuito ancora la situazione e il carattere di Alfio, che al Mascagni dev'essere apparsa se non incomprensibile, certo indifferente, non trattandosi in Alfio d'una rivolta al tradimento puramente erotico, sibbene della rivolta molto più fredda e austera, la rivolta al disonore. E anche da questa via ecco che noi torniamo al semplice centro del carattere mascagnano, a questa specie di sensualità di primitivo e di meridionale di quest'uomo che non capisce di tutti i sentimenti umani che quello più popolare di tutti, l'amore. E che altro di più, in fondo in fondo, hanno sentito i maggiori a lui Ariosto e D'Annunzio e gli spiriti affini?

III.
Il Ratcliff

È la quarta opera del Mascagni. Apparsa tre anni dopo i Rantzau, era attesa come un'affermazione più importante e più nuova dell'ingegno del Mascagni. Ma l'opera, sebbene nella scelta del soggetto sembrasse accennare a un rinnovamento del contenuto mascagnano, non segna che un aspetto un po' diverso del contenuto già noto. Si aggiunga che, se quest'opera è infinitamente più significativa dei Rantzau, un fraintendimento della propria ispirazione da parte del maestro, ha fatto sì che l'opera al teatro appaia moltissimo meno bella e importante di quello che non sia nella realtà.

Il libretto, come ognun sa, non è che la traduzione discretamente sciatta che Andrea Maffei fece della tragedia romantica di Enrico Heine. Per quel che riguarda il poema heiniano, non è da dubitare che invece di una tragedia voluta bella e riuscita ridicola, si tratta di uno scherzo di buonissimo gusto. In un paese dove come nella Germania, il maggior tragico, lo Schiller, per imitare Shakespeare e i tragici greci produceva tragedie affatto indegne di stare allato ai sublimi modelli inglesi e greci, se non altro che per il fatto stesso che avevano bisogno di modelli per essere intese a dovere; niente di strano se l'inflessibile critico del cattivo gusto e dell'ingenuità tedesca abbia voluto contraffare ironicamente quel tipo d'arte con una tragedia in cui tutto l'arsenale dei luoghi comuni del teatro tedesco – luoghi comuni che si sono infiltrati discretamente anche nell'opera wagneriana – venisse a bella posta adoprato con mano umoristicamente prodiga. Del resto anche senza ricorrere all'ipotesi d'una cosciente satira dei falsi tragici tedeschi, chiunque abbia dimestichezza con lo spirito di Heine e con gli spiriti affini e fraterni, sa benissimo come certi loro stati d'anima, anche senza potersi chiamare umoristici, confinano con l'umorismo. C'era quasi in essi un'impotenza artistica – impotenza se noi teniamo fissa la mente alle più sublimi forme dell'arte – e un'amarezza ironica sempre pronta a zampillare, che facea lor volgere in un ridicolo doloroso anche ciò che pur avessero intrapreso come qualcosa di serio. Del quale stato d'anima angoscioso e pure accettato con serenità, non era esente, a me così pare, neppur lo stesso massimo Goethe.

Ma, com'ebbi già a dire altrove, Pietro Mascagni con la sua solita beata ingenuità ignorante poco si è occupato d'indagare il significato tortuoso e duplice del poema di Heine. Ha creduto così, alla buona, alle tirate umanitarie del socialistoide Ratcliff, s'è entusiasmato romanticamente alle apparizioni spettrali nelle foreste scozzesi alla Walter Scott, ha animato musicalmente l'inanimato contrasto erotico del protagonista; e ha creato, in mezzo alle brutture d'un'opera enfatica e volgare, una specie di nucleo musicale, d'un romanticismo schietto e simpatico, affine, sebben più grossolano, a quello di certe ballate di Chopin, di certi poemetti vittorughiani e di alcune concezioni wagneriane della prima maniera.

Ho detto: una specie di nucleo, e avrei dovuto dire addirittura un poema o una suite lirico-sinfonica. Giacchè se il Mascagni ha creduto di creare un'opera, a sua insaputa, credo, egli ha creato in mezzo alle costruzioni inutili di quattro atti che non riescono a star bene insieme, un centro vivo, un nucleo musicale a sè, che è quello che regge in piedi l'opera dinanzi al pubblico e che impedisce allo stesso di fischiare quest'opera, realmente, come opera, sbagliata. Ora l'ufficio della critica non deve esser sol quello di dimostrare l'inesistenza estetica di quella tale opera, in cui le parti belle non formino un organismo con tutto il resto dell'opera, ma da questo si distacchino come frammenti compiuti d'un edificio incompiuto. Vi sono casi, e il Ratcliff mascagnano è uno di questi, nei quali il compositore ha realmente visto qualcosa di vivo nel soggetto preso a trattare, ma è stato, per dir così, insofferente della forma impostagli dal libretto e ha composto qualcosa di formalmente diverso dalla ineffettuata attuazione dello schema dato dal libretto, anzi ha creato un organismo del tutto indipendente da questo schema. Chiunque infatti ascolti il Ratcliff a teatro, si accorgerà con meraviglia come da tutto il mare plumbeo dello spartito emergano e s'imprimano indelebili nella memoria alcuni pezzi, mentre di tutto il resto dell'opera non rimane in mente che una fluttuazione informe di recitativi e di fragori orchestrali. La ragione di ciò sta proprio in questo: che il vero Ratcliff di Mascagni consiste soltanto di quei pochi pezzi, è tutto in quei pochi pezzi. Sono essi, cioè, che ci danno l'immagine schiettamente romantica e per nulla umoristica che di questa strana storia s'è formato il maestro; sono essi che hanno diritto di chiamarsi una delle più ispirate cose del Mascagni; sono essi finalmente che la critica deve estrarre dall'inutile materia sonora in cui sono immersi e sperduti, onde render loro la giusta fisonomia.

Non sarà male, per spiegarmi meglio, illustrare l'esempio già citato del Vascello Fantasma. Chi conosce davvero quest'opera (ossia chi l'ha ripensata criticamente) non stenterà molto a convenire con me esser l'ouverture dell'opera e la ballata di Senta due pezzi bastanti da soli a esprimere tutta la leggenda bellissima del maledetto navigatore condannato in eterno a scorrere i mari del nord sul vascello misterioso. Infatti le numerose e prolisse scene, che s'aggruppano intorno a quel nucleo musicale, non sono che un'aggiunta inutile, una spiegazione che nulla dice di più di quel che già dissero col suo prodigioso impeto sinfonico l'ouverture e col suo fuoco sentimentale la ballata. La stessa cosa sarebbe avvenuto se da una Ballata di Chopin e servendosi di essa altri avesse svolto drammaticamente ciò che in essa è già stato svolto a sufficienza liricamente.

Ora lo stesso divario che corre tra l'ouverture e la ballata di Senta e il resto del Vascello Fantasma, corre pure tra i pezzi lirici del Ratcliff – i quali tra poco analizzeremo – e le scene che intorno ad essi s'aggruppano. La leggenda dei romanzeschi amori d'Eduardo Ratcliff e della Bella Elisa, ripetuti, quasi per legge d'atavismo, dai rispettivi figli Guglielmo e Maria, come può esser poesia di per sè stessa, cioè all'infuori della versione umoristica ricamatavi sopra dallo Heine, così può servire, ed ha servito, al Mascagni, di soggetto a un poema lirico-sinfonico da porsi accanto a quei leggendari poemi che sono l'ouverture e la ballata del Vascello Fantasma, le ballate di Chopin, e per passare dalla musica alla poesia, il Mazeppa di Victor Hugo, la Lénore di Burger etc. etc.

Il primo di questi pezzi lirici è il lungo preludio con cui si apre l'opera. Esso è una specie di ballata romantica ispirata all'antefatto della tragedia d'amore di poi svolta. Immaginiamoci una sfrenata fantasia d'amore di gelosia e di fatalità tragica, fantasia che sarà poi determinata verbalmente sulla fine del poema: per ora non se ne intende che il tono tragico e fantastico (adopro qui la parola fantasia nella sua accezione volgare di soprannaturale, irreale). Come tutte le ballate romantiche, questo preludio, interrotto dalla canzone fatale: «perchè rossa di sangue è la tua spada Eduardo?», canzone che nel poema ha il potere misterioso e ineluttabile che aveva nella tragedia greca l'oracolo, presenta i procedimenti ormai classici dell'arte romantica: i ritornelli, le ripetizioni etc. etc. E certo questi procedimenti sono venuti spontaneamente al Mascagni, che non è da credere ch'egli abbia una profonda conoscenza del folklore romantico e del romanticismo folkloristico.

Le scene che seguono il preludio, cioè il fidanzamento di Maria con Douglas, la descrizione che questi fa della vita londinese, il racconto, sempre dello stesso, del viaggio per la Scozia infestata dai masnadieri, sono e inutili nel dramma (naturalmente nel dramma preso sul serio; satiricamente sono allo Heine riuscite bellissime) e false musicalmente. Anzi non è qui senza ragione la autoretorica mascagnana; chè, dato lo sfondo leggendario del dramma, troppo grande è il salto dal carattere eroico di questa leggenda, e la realtà semiseria d'un buon fidanzamento che, a dir vero, d'eroico non ha che i costumi scozzesi dei personaggi. Per trovare una continuazione della leggenda lirica, occorre saltare a pie' pari tutti questi episodi inutili e leggere l'altra bella ballata che descrive, alla fine dell'atto, le uccisioni dei due fidanzati di Maria, tragico frutto della decisione irrevocabile che Guglielmo Ratcliff ha preso, di uccidere tutti i fidanzati della sua cara. Le parole heiniane sono qui più comiche che terribili. Un musicista che ne avesse penetrato l'intenzione satirica, avrebbe certo scritto per esse una finissima musica carica d'ironia. Ma il Mascagni, come sempre, non ha saputo che risentire senza doppi sensi una tragica vendetta d'amore e ha scritta una graziosa ballata in due vere e proprie parti o strofe ritornellate e tutte piene di quei richiami ed echi suggestivi, che sono come la musica della poesia romantica. Così alla melodia scorrevole narrativa, che descrive l'innamoramento di Ratcliff per Maria, succede, bene intonata, la descrizione della ricerca dello sposo mancante alla cerimonia nuziale. Ed è bello il glaciale fluttuar dell'orchestra sottolineante la scoperta del cadavere nella foresta a' piedi del Negro Sasso. Ed è pur bene intonato alla leggenda lo scoppio di fanfara eroica che alla fine della prima strofa echeggia all'offerta che del teschio del fidanzato fa Ratcliff a Maria. La seconda strofa della ballata, saggiamente abbreviata, ripete e nel fatto e nella musica le parti episodiche della prima. Certo non dico trattarsi qui d'una splendida ballata come quella di Senta o come una delle sublimi ballate di Chopin. Ma questa ballata mascagnana non sembrerà affatto brutta se se ne penetri il tono tutto popolaresco e l'ingenua spontaneità.

È facile trovare nel 2º atto, liberandolo dalle banalità poco spiritose dei briganti e dell'oste, banalità che ci ricordano, con minor schiettezza d'ispirazione, le scene zingaresche del Trovatore verdiano, e sfrondando la parte di Ratcliff dalle poco concrete effusioni socialistiche, il momento musicale che, continua il poema sui generis, in cui dico consistere il vero Ratcliff del Mascagni. È il racconto che, intrecciato di fantasticherie soprannaturali, Ratcliff fa del suo amore disperato per Maria. Questo pezzo, di gran lunga superiore alla ballata del 1º atto, comincia dalle parole «un lunatico eroe non mi devi suppor», e termina laddove ritorna in ballo la sciocca fantasmagoria dei masnadieri scozzesi (sottintendi, bella nello Heine). In questo lungo racconto s'incontrano bellezze tali da porre questo brano di musica accanto alla Cavalleria e all'Amico Fritz. Certo il significato del testo poetico – una morbosa passione inoculata atavisticamente nel sangue del protagonista – vien sopraffatto e quasi tramutato dalla sana vena erotica del Mascagni. Sicchè, lentamente, la mania dell'eroe romanzesco si converte nella solita rubiconda sensualità popolana del Mascagni. Il bellissimo motivo sulle parole: «quando fanciullo ancora» esprime, sì, qualcosa di misterioso, ma non è il cupo mistero soprannaturale del testo. Sibbene è il dolcissimo mistero dell'amore e del piacere carnale, che annega lo spirito e che, se gli impedisce di discernere nitidamente lo stato sentimentale in cui si trova, pur non lo acceca tanto da non concedergli una semivisione calda e quasi direi, se non fosse un controsenso, materiale. Del resto sappiam forse noi in certi nostri stati d'anima distinguere con precisione i gradi della insensibile scala per cui l'impressione sensuale si converte lentamente e per passaggi impreveduti, in intuizione, in percezione, in spiritualità insomma? Di tutti gli stati sentimentali ambigui e confusi, lo stato amoroso è il più crepuscolare. Lo spirito si contenta d'una penombra quasi incosciente, dileguata la quale, dileguerebbe anche la passione. È questa penombra il mistero dell'amore, e questo mistero si sente indefinibile e soave in tutto questo bellissimo racconto d'amore. Così ancora una volta trionfa nell'arte mascagnana, si tratti d'un soggetto veristico o romantico, l'amore, il solito amore sensuale, sano, fresco, senza complicazioni psicologiche: e la musica di questo pezzo è pieno di baci, di rose, di luminose visioni di giardini verdi e solivi, di tutta quella natura serena e prettamente italiana che riempie della sua gran pace refrigerante la Cavalleria e l'Amico Fritz. Anche gli scoppi d'odio e i propositi di vendetta di Guglielmo, tentando di colorirsi delle reboanti esclamazioni romantiche, dove non suonano a vuoto, parlano dello stesso strazio carnale, dello stesso ribrezzo della gelosia carnale, che già ispirò la melodiosa Cavalleria Rusticana.

7.Lo stesso si potrebbe dire, mutatis mutandis, del Mefistofele di Arrigo Boito.
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12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 haziran 2017
Hacim:
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