Kitabı oku: «Scritti editi e postumi», sayfa 18
Signor Diego!
Non è l'ora da vedere se i miei sospetti intorno al vostro naso fossero, o no, giustamente eccitati; vi basti, che io non ebbi costanza da farne la prova. Io conosceva poco me stessa, allorchè mandai la mia governante a divietarvi, che non veniste più sotto la mia gelosia; e meno ancora conosceva il mio Diego, avvisandomi, che resterebbe un giorno a Valladolid per chiarire i miei dubbi; ma fu pietà, o Diego, l'abbandonarmi perchè rimasi ingannata? o fu cortesia prendermi alla parola, giusti o no che fossero i miei sospetti, e lasciarmi, come faceste, a tanta incertezza, a tanto dolore? E come Giulia abbia sentito quest'atto vel dirà il fratel mio al consegnarvi la lettera; e vi dirà come di lì a un istante si pentiva del precipitoso messaggio che vi mandò, e forsennata correva alla gelosia, – e stette più giorni e notti di séguito appoggiata sul gomito guardando alla via donde era solito Diego venire. E quando ella ebbe nuova della vostra partenza, vi dirà come l'abbandonava lo spirito, e il core le si ammalava, e piangeva pietosamente, e chinava la testa sotto il peso degli affanni. O Diego! quanti passi non ho misurati, stanca, anelante di rintracciarvi! e la pietà del fratel mio mi conduceva per mano; e il desiderio mi portava al di là delle forze, e sovente io mi sveniva, e gli cadea tra le braccia, senza proferire altra voce, che questa: – o Diego mio! – Se il cuor vostro non è smentito dalla gentilezza dei modi, volerete presso di me colla velocità onde fuggiste, affrettatevi tanto, che possiate… che possiate giungere a vedermi spirare. È un sorso amaro; ma è più ancora amareggiato dal morir non…
Ella non potè seguitare. Slawkenbergius suppone, che la parola significasse non convinta, ma le forze non le consentirono di finire la lettera. E mentre il Forestiere cortese la leggeva, il cuore gli straboccava di affetti, e ordinò che fosse insellata la sua mula, e il cavallo di Ferdinando; e perchè nel combattimento delle passioni lo sfogo della prosa non agguaglia quello dalla poesia, il caso, che del pari ci spinge ai rimedi e alle infermità, avendo gettato dalla finestra in camera un pezzo di carbone, Diego se ne giovò, e intanto che il ragazzo allestiva la mula, così disacerbava il suo spirito scrivendo nel muro come segue:
ODE
1
No, – se la mano della Donna mia
L'arpa non tocca, esce il concento e muore,
Nè l'accompagna un'aura d'armonia;
Ma se le muove, tremano d'amore
Le belle corde, e l'anima delira
Di misteriosa voluttà sospira.
2
O Giulia!
I versi erano naturali, e convenienti al soggetto, dice Slawkenbergius, – e peccato che rimanessero in tronco; ma o che il Signor Diego avesse tardo l'ingegno a far versi, o che il ragazzo si affrettasse a sellare le cavalcature, non è chiaro; fatto sta, che la mula di Diego, e il cavallo di Ferdinando, erano lesti alla porta dell'albergo prima che Diego fosse in atto per la sua strofa seconda; e però senza restare a finir l'ode, ambedue montarono, dettero di sprone, passarono il Reno, traversarono l'Alsazia, e piegarono alla volta di Lione; e prima che li Strasburghesi e la Badessa di Quedlingberg uscissero della città, aspettando l'arrivo del Forestiere, Ferdinando, Diego, e la sua Giulia, avevano passati i Pirenei, ed erano giunti sani e salvi a Valladolid. Non importa avvertire il lettore geografo, che, Diego essendo in Ispagna, il Forestiere cortese non potevasi più incontrare sulla via di Francfort; basti il dire, che, la curiosità essendo di tutti gl'inquieti desideri il più ardente, li Strasburghesi la sentivano di massima forza, e per tre giorni e per tre notti si trabalzavano su e giù per la via di Francfort con tutta la tempesta di quella passione, nè sapevano ancora adattarsi a tornarsene a casa. Ma sciaguratamente per loro il fato preparava l'evento il più funesto che possa accadere a popolo libero. Perchè molti hanno discorso, e pochi inteso, questa rivoluzione degli affari Strasburghesi, io Slawkenbergius voglio chiarirne il mondo in dieci parole, e al tempo stesso finirò il mio racconto. Ognuno sa del gran sistema di Monarchia Universale composto per comandamento di Monsieur Colbert, e dato manoscritto a Luigi XIV l'anno 1664. Ognuno sa, che un ramo di quel sistema era l'impadronirsi di Strasburgo onde favorire a tutti i tempi un'invasione in Suabia, e disturbare la quiete della Germania, e che in conseguenza di questo piano Strasburgo cadde finalmente in mano di Francia. A pochi è dato di rimontare alle vere sorgenti di questa e simili rivoluzioni. I volgari guardano tropp'alto; gli uomini di stato troppo basso. Il vero sta di mezzo. È funesta, – esclama uno storico, – la superbia popolare di una città libera. Li Strasburghesi stimavano, che scapitasse la libertà a ricevere una guarnigione imperiale, e così vennero in preda ai Francesi. Il destino delli Strasburghesi, – dice un altro, – può servire di avvertimento ad ogni popolo libero, perchè faccia risparmio di danaro. Li Strasburghesi spesero anticipate le rendite, s'imposero tasse di per sè stessi, e si affiacchirono tanto, che finalmente non ebbero forza da tener chiuse le porte, e i Francesi le apersero. – Ahi! ahi! – grida Slawkenbergius, – non furono i Francesi, ma fu la curiosità che le aperse. Veramente i Francesi, che stanno mai sempre all'erta, veggendo li Strasburghesi, uomini, donne, e fanciulli, uscir tutti della città dietro al naso del Forestiere, si posero in marcia ed entrarono. D'allora in poi le manifatture e il commercio hanno piegato a continua decadenza, ma non per le cause assegnate dai capi del commercio; piuttosto vuolsi ascrivere a questa sola: che i nasi hanno sempre fatto tanto frastuono in quelle teste, che li Strasburghesi non poterono badare ai loro interessi. – Ahi! ahi! – grida qui Slawkenbergius, facendo un'esclamazione, – non è la prima, e temo che non sarà l'ultima fortezza conquistata o perduta per via dei Nasi.
– 1829 —
III
STORIA DI LE FEVER
Era di poco avanzata l'estate di quell'anno in che gli alleati presero Dendermond, – e il mio Zio Tobia sedevasi a cena, e Trim sedeva dietro di lui a una tavoletta, allorchè il padrone di un alberghetto del villaggio entrò nella stanza a chiedere un bicchiere o due di vin di Canarie. – È per un povero gentiluomo, io credo dell'armata, – diceva l'oste, – e son quattro giorni, che il male l'ha côlto in casa mia, nè d'allora in poi ha più sollevato la testa, o avuto voglia di gustar cosa alcuna, se non che ora appunto gli è venuta vaghezza d'un bicchier di Canarie, e d'un crostino. – Io penso, – ha detto il malato levandosi dalla fronte la mano, – io penso che se vorrà, conforterà. – Se nol potessi chiedere, o prendere in prestito, o comprare, – soggiugnea l'oste, – vorrei quasi rubarlo per amor del povero gentiluomo, che è malato di tanto. E spero in Dio, – continuava, – che ogni dì più andrà migliorando, – perchè ci sta troppo a cuore la sua salute. – Poffare il mondo! – sclamava il mio Zio Tobia, – tu sei di buona pasta, e berrai tu pure un bicchier di Canarie alla salute del povero gentiluomo, e gliene recherai due bottiglie co' miei saluti, e digli che gliele mando di cuore – e una dozzina ancora, se gli potranno far bene. Io son persuaso, – disse il mio Zio Tobia, nel punto che l'oste serrava la porta, – che costui abbia veramente viscere di pietà; – ma pure, o Trim, non posso tenermi di stimare altamente anche l'ospite suo; – e' dee avere alcuna dote più che ordinaria, perchè in tempo sì breve si sia conciliato tanto l'affetto del suo albergatore. – E dell'intera famiglia, – riprendeva il Caporale, perchè tutti lo tengono a cuore. – Vàgli dietro, – disse il mio Zio Tobia, – va, Trim, e dimandagli come si chiami. – Me ne sono dimenticato davvero, – disse l'oste rientrando nella stanza col Caporale, – ma ne posso dimandar nuovamente al suo figliuolo. – Egli ha dunque seco un figliuolo? – disse il mio Zio Tobia. – Un giovanetto, – rispose l'oste, – di circa gli undici, o i dodici anni; ma la povera creatura non ha gustato quasi nulla di cibo come suo padre: non fa che addolorarsi, e piangere notte e giorno, e son due giorni che non si muove dalla sponda del letto. – Il mio Zio Tobia posò il coltello, e la forchetta, e si tolse il piatto davanti, mentre l'oste gli facea quel racconto, – e Trim senza aspettar comando, nè dir parola, sparecchiava, e di lì a pochi minuti gli recò la pipa e il tabacco. – Trim! – disse il mio Zio Tobia dopo avere accesa la pipa, e date dieci o dodici boccate di fumo. Trim venne alla presenza del suo padrone, e lo inchinò. Il mio Zio Tobia seguitò a fumare, nè più fece motivo. – Caporale! – disse il mio Zio Tobia. E il Caporale lo inchinò. Il mio Zio Tobia non andò più là col discorso, ma finì la sua pipa. – Trim! – disse il mio Zio Tobia, – mi è venuto in capo, perchè è una cattiva nottata, di avvolgermi tutto nel mio mantello, e visitare quel povero gentiluomo. – Vostro Onore, – rispose il Caporale, – non ha indossato una volta il mantello dopo la notte precedente al giorno che Vostro Onore fu ferito facendo la guardia nelle trincee davanti alla porta di S. Niccola; e di più la notte è tanto fredda e piovosa, che tra il mantello e il temporale vi sarà da morirne, o vi ritorneranno i dolori nell'inguinaia. – Temo di si, – rispondeva il mio Zio Tobia, – ma la mente non mi quieta, o Trim, dopo il racconto dell'oste. Avrei desiderato non saperne tanto, – aggiungeva, – o saperne di più. E che modo terremo noi? – Lasciatene a me la cura, se vi aggrada, – rispose il Caporale, – io piglierò il mio cappello, e il mio bastone, e andrò all'albergo per riconoscere, e far quanto occorre, e tra un'ora Vostro Onore avrà nuova di tutto. – Va Trim, – disse il mio Zio Tobia, – ed eccoti uno scellino, perchè tu lo beva insieme al suo servo. – Gli trarrò tutto di bocca, – disse il Caporale serrando la porta. – Il mio Zio Tobia empiè la seconda pipa, e se non fosse che tratto tratto si divagava dal soggetto, considerando se tornasse bene che la cortina della tanaglia avesse una linea retta, o una curva, poteva dirsi che a null'altro pensasse fuorchè a Le Fever e al suo figliuolo in tutto quel tempo. E non aveva per anche scosse le ceneri della sua terza pipa, che il Caporale ritornò dall'albergo, e gli diè le seguenti notizie. – A prima giunta io disperava, – cominciò il Caporale, – di recare a Vostro Onore nessuna novella intorno al povero Luogotenente infermo. – È dunque dell'armata? – disse il mio Zio Tobia. – Certo, – rispose il Caporale. – E di qual reggimento? – disse il mio Zio Tobia. – Io vi narrerò tutte le cose, – rispose il Caporale, – a mano a mano che le ho sapute. – E empirò dunque di nuovo la mia pipa, – disse il mio Zio Tobia, – nè cercherò d'interromperti, finchè tu non abbi finito; e però siedi a tuo bell'agio, o Trim, sulla seggiola presso alla finestra, e comincia da capo. – Il Caporale fece l'antico suo inchino, che generalmente esprimeva chiaro, per quanto lo possa un inchino, – Vostro Onore è buono, – e di poi si mise a sedere come gli fu imposto, e cominciò da capo la storia presso a poco colle stesse parole. – Io disperava a prima giunta di recare a vostro Onore nessuna novella intorno al povero Luogotenente infermo, e al suo figliuolo, perchè dimandando del suo servo, da cui io confidava sapere ogni cosa lecita a chiedersi, ( – giustissima distinzione, o Trim, – disse il mio Zio Tobia, –) mi risposero che non aveva servo con sè, – ma era giunto all'albergo con dei cavalli noleggiati, e trovandosi inabile a proseguire, – io suppongo per unirsi al reggimento, – la mattina vegnente gli aveva rimandati. – Se posso migliorare, – disse, dando al suo figliuolo la borsa onde pagasse l'uomo, – noleggeremo quì dei cavalli; – ma il povero gentiluomo non moverà più di quì, – diceva l'ostessa, – perchè tutta la notte ho sentito l'uccello del mal augurio: e se muore, morrà certamente con lui il giovanetto suo figlio, e di già gli si spezza il cuore. – Io stava a sentire, e il giovanetto venne in cucina ordinando il crostino rammentato dall'oste: – ma lo voglio far io per mio padre, – aggiunse il giovanetto. – Di grazia, o giovanetto gentile, – diss'io pigliando a tal fine una forchetta, e offrendogli la mia sedia perchè sedesse vicino al fuoco, – di grazia lasciate fare a me. – Io credo, o Signore, – mi rispondea verecondo, – di poter meglio contentare mio padre. – Io tengo per fermo, – ripigliai, – che Suo Onore non vorrà gradir meno il crostino perchè l'abbia arrostito un vecchio soldato. – Il giovanetto mi prese la mano, e subito ruppe nel pianto. – Povero giovanetto! – disse il mio Zio Tobia, – educato sin da fanciullo all'armata, il nome di soldato gli suona, o Trim, come nome d'amico: – oh l'avessi io pure quì presente! – Nella marcia più lunga, – continuò il Caporale, – io non ebbi mai sì gran voglia di desinare, come allora di piangere con lui. E che dir voleva per parte mia? – scusimi Vostro Onore. – Niente affatto, – rispose il mio Zio Tobia soffiandosi il naso, – se non che tu sei di ottimo cuore. – Nel tempo che io gli dava il crostino, stimai bene dirgli come io fossi il servo del Capitano Shandy, e che Vostro Onore, benchè straniero, voleva bene fuor di misura a suo padre, – e se v'era cosa qualunque in casa vostra, o in cantina, ( – e tu potevi aggiugnere eziandio la mia borsa, – disse il mio Zio Tobia; –) ne disponesse a piacer suo. Mi fece un inchino profondo che fu inteso a Vostro Onore, ma non rispose, perchè il suo cuore era pieno, e così ascese le scale col crostino. – E vi assicuro, o mio diletto, – gli dissi nell'aprir l'uscio di cucina, – che vostro padre tornerà di nuovo in salute. – Il curato di M. Yorick fumava la pipa vicino al focolare, – ma non disse parola nè buona nè cattiva per consolare quel giovanetto; – e mi parve mal fatto, – soggiunse il Caporale. – E pare anche a me, – disse il mio Zio Tobia. – Come il Luogotenente ebbe preso il bicchier di Canarie, e il crostino, sentissi un po' ravvivato, e mandò in cucina a farmi sapere, che tra dieci minuti mi saprebbe buon grado se io salissi le scale. – Credo, – diceva l'oste, – che voglia fare le sue preghiere, perchè sopra una seggiola accanto la sponda del letto eravi un libro, e nel chiuder la porta vidi che il suo figliuolo prendeva un guanciale. – Io pensava, – disse il curato, – che voi altri uomini d'arme non diceste mai fiato d'orazione. – La notte passata intesi il povero gentiluomo che recitava le sue preghiere, – disse l'ostessa, – e con tutta divozione, e lo intesi con queste mie orecchie, altrimenti non ci avrei creduto. – Ne siete certa? – riprendeva il curato. – Un soldato, scusimi Vostra Riverenza, – favellai allora, – prega sovente, e spontaneo, al pari d'un parroco, e quando egli combatte pel suo Re, per la vita, e per l'onore, ha più ragione di pregare a Dio, che persona di questo mondo. – Ben parlasti, o Trim, disse il mio Zio Tobia. – Ma quando un soldato, – scusimi Vostro Onore, – risposi, – è stato dodici ore di séguito in piedi, fino ai ginocchi nell'acqua ghiaccia, o impegnato per mesi intieri in lunghe e pericolose marcie, oggi per avventura inseguito, dimane perseguitato – mandato in un luogo, – quindi richiamato, – una notte riposando sull'armi, – l'altra destato a battaglia in camicia, – assiderato nelle giunture, – e senza un po' di paglia nella tenda per coricarvisi sopra, – un soldato allora deve fare orazione come e quando può, – e credo, – continuai a dire, essendo punto sul vivo per la riputazione dell'armata, – e credo, – scusimi Vostra Riverenza, – che quando un soldato abbia tempo, preghi di cuore da quanto un parroco, e certo con meno boria ed ipocrisia. – Ciò non dovevi dirgli, – disse il mio Zio Tobia, – che Dio solo conosce chi sia l'ipocrita, o no. Al grande esame di noi tutti, o Caporale, al giorno del giudizio, (e non mai fino a quel punto,) vedremo chi abbia adempito al suo ufficio in questo mondo, – e chi no, – e ne avremo premio secondo il merito. – Spero di sì, – disse Trim. – Si legge nella Scrittura, – disse il mio Zio Tobia, – e dimani tel mostrerò. Intanto possiamo credere, o Trim, a nostro conforto, – disse il mio Zio Tobia, – che Dio onnipotente è sì buono e giusto governatore del mondo, che, dove abbiamo fatto l'ufficio nostro, non vorrà mai ricercare se l'abbiamo fatto vestiti di rosso, o di nero. – Spero di no, – disse il Caporale. – Ma prosegui la storia, – disse il mio Zio Tobia. – Allorchè fui salito nella camera, – continuò il Caporale, – aspettando per altro il termine dei dieci minuti, – il Luogotenente giacevasi in letto colla testa levata sopra una mano, e il gomito sopra il guanciale, e accanto un polito fazzoletto di tela bianca. Il giovanetto chinavasi in quella a raccorre il guanciale, dove suppongo che il padre si fosse inginocchiato: – il libro era sul letto, – e mentre il figlio si alzava con una mano raccogliendo il guanciale, distese l'altra per levare il libro nel medesimo tempo. – Lasciatelo lì, o mio diletto, – disse il Luogotenente. Non si mostrò disposto a parlarmi, finchè io non mi accostai alla sponda del letto. – Se voi siete il servo del Capitano Shandy, fate al vostro padrone i miei ringraziamenti, e quelli del mio figliuoletto, per la cortesia che mi ha usato. – Poscia mi dimandò se Vostro Onore fosse del Lever; io gli risposi di sì. – Dunque, – diss'egli, – noi abbiamo militato insieme per tre imprese nelle Fiandre; ma perchè io non ebbi l'onore di conoscerlo assai da vicino, è probabile che egli non sappia nulla di me. Voi nondimeno gli direte, che la persona tanto dal suo buon cuore obbligata è un certo Le Fever Luogotenente nell'Angus: – ma pure non mi conosce, – diss'egli pensoso una seconda volta; – ma può sapere la mia storia, – continuò; – ditegli di grazia, che io fui l'Alfiere di Breda, cui sfortunatamente venne uccisa la moglie da un colpo di moschetto, mentre io me la teneva tra le braccia. – Me ne ricordo benissimo, – scusimi Vostro Onore, – gli dissi. – Ve ne ricordate voi? – diss'egli asciugandosi gli occhi col suo fazzoletto. – Ed io: – pur troppo! – E in queste parole si cavò di seno un anelletto, che pareva legato al collo da un nastro nero, e lo baciò due volte. Poi disse: – vien qua, Guglielmino, – e il fanciullo traversò di volo la stanza, e, cadendo ginocchioni, si recò in mano l'anello, – e lo baciò, – poi baciò suo padre, – si assise sul letto, e piangeva. – Io vorrei, – disse il mio Zio Tobia traendo un profondo sospiro, – io vorrei esser nel sonno. – Vostro Onore, – rispose il Caporale, – è troppo commosso: vi mesco un bicchier di Canarie, e vi dò un'altra pipa? – Sì, o Trim, – disse il mio Zio Tobia. – Io mi ricordo, – disse il mio Zio Tobia nuovamente sospirando, – io mi ricordo la storia dell'Alfiere, e più una circostanza, che la sua modestia ha tralasciato, – ed è, che ambedue, per una o per altra ragione (non mi rammento quale), erano generalmente compianti da tutto il reggimento. Ma finisci la storia, che hai preso a narrare. – È omai finita, – disse il Caporale, – dacchè non potei trattenermi più a lungo, – e così augurai la buona notte a Suo Onore, e il giovanetto Le Fever mi fece lume sino in fondo alle scale, e nello scendere mi diceva che erano venuti d'Irlanda, e si erano messi in viaggio per unirsi al reggimento nelle Fiandre. – Ma sventura! – disse il Caporale, – l'ultima marcia del Luogotenente tocca al suo termine. – Cosa avverrà del povero suo figliuolo! – esclamò il mio Zio Tobia. —
Eterno onore al mio Zio Tobia! (quantunque io il dica solamente per amor di coloro, che posti tra una legge naturale e positiva non sanno di per sè stessi a che partito appigliarsi in questo mondo;) eterno onore al mio Zio Tobia! – perchè sebbene in quel tempo avesse l'animo caldamente inteso a portare innanzi l'assedio di Dendermond di pari agli alleati, che incalzavano il proprio con tanto vigore, che a mala pena gli davano tempo da desinare, – nondimeno abbandonò Dendermond, benchè avesse di già fatto un alloggiamento sulla contrascarpa, – e volse tutti i pensieri alle private sciagure dell'albergo; e fuorchè impose che la porta del giardino fosse chiusa a catenaccio, onde poteva dirsi che avesse rivolto l'assedio in blocco, lasciò Dendermond in sua balìa, fosse o no sovvenuto dal Re di Francia, secondo che avrebbe stimato bene, – e solo considerava come potesse sollevare il povero Luogotenente, e il suo figliuolo.
– Quell'Ente benigno, che è l'amico del derelitto, te ne renderà merito.
– Tu mi hai lasciata imperfetta l'opera, – disse il mio Zio Tobia al Caporale, mentre ei lo metteva a letto, – e ti dirò dove… Primieramente offerendo i miei servigi a Le Fever, siccome la malattia e il viaggiare ambedue portano dispendio, – e tu sai, ch'egli era un povero Luogotenente costretto a vivere sulla paga col suo figliuolo, – mancasti a non offrirgli ancora la mia borsa, – e tu sai, o Trim, come in caso di bisogno egli ne avrebbe potuto disporre al pari di me. – Sa Vostro Onore, – disse il Caporale, – che io non avea nessun ordine. – È vero, – disse il mio Zio Tobia, – tu operasti benissimo come soldato, – ma veramente male come uomo. In secondo luogo, e tu hai per questo la medesima scusa, – continuò il mio Zio Tobia, – allorchè gli offeristi le cose mie, dovevi ancora offerirgli la casa. Un confratello uffiziale infermo dovrebbe, o Trim, aver le stanze migliori, – e se or noi l'avessimo quì potremmo assisterlo e badare. Tu sei, o Trim, un eccellente infermiere, e tra la cura tua, e quella della vecchia, del suo figliuolo, e la mia insieme, lo potremmo sanar da capo, e rimetterlo in piedi. Tra quindici giorni, o al più tre settimane, – aggiugnea sorridendo, – egli potrebbe marciare. – Non marcerà più de' suoi giorni in questo mondo, – scusimi Vostro Onore, – rispondeva il Caporale. – Marcerà, – disse il mio Zio Tobia, levandosi dalla sponda del letto con un piè senza scarpa. – Scusimi Vostro Onore, – non marcerà, che per andare alla fossa, – diceva Trim. – Marcerà, – disse il mio Zio Tobia, facendo marciare il piè, che aveva nella scarpa, ma non avanzando d'un dito, – marcerà per andare al suo reggimento. – Non può tenersi in piedi, – disse il Caporale. – Lo reggeremo, – disse il mio Zio Tobia. – Cadrà finalmente, – rispose il Caporale: – e che avverrà del povero suo figliuolo? – Non cadrà di certo, – dicea fermamente il mio Zio Tobia. – Poffare! – disse Trim sostenendo l'assunto, – fate per lui l'impossibile, ma la povera creatura morirà. – Non morirà, no per…! – gridò il mio Zio Tobia. —
Lo Spirito dell'Accusa, che volò col giuramento alla cancelleria del cielo, si cosperse di rossore nell'atto di darla, – e l'Angiolo della Memoria mentre lo segnava vi fece su cadere una lacrima, e lo cancellò per sempre.
Il mio Zio Tobia andò al suo forziere, e si mise la borsa nella scarsella delle sue brache; – poi comandò al Caporale, che di buon'ora andasse pel medico, e si pose a letto e si addormentò. La mattina vegnente il Sole appariva splendido agli occhi di tutti, fuorchè a quelli di Le Fever, e dell'afflitto suo figlio. La mano della morte pesava a Le Fever sulle palpebre, – e gli avanzava tempo di vita quanto appena ne mette una carrucola di cisterna a far tutto il suo giro, allorchè il mio Zio Tobia, essendosi levato un'ora prima del solito, entrò nella camera del Luogotenente, e senza preambuli o scuse si pose a sedere accanto al letto, e senza cerimonie aprì le cortine a quella guisa che avrebbe fatto un vecchio amico e fratello ufficiale, – e gli domandò come stesse, – come avesse riposato la notte, – di che si dolesse, – ove fosse il suo male, – e che potesse fare per sovvenirlo; – nè gli dava tempo a rispondere a nessuna delle dimande, – ma seguitava a dirgli del piccolo divisamento combinato per lui la notte avanti col Caporale. – Voi verrete, o Le Fever, direttamente a casa mia, – disse il mio Zio Tobia, – e manderemo pel medico a veder che mal sia, – e avremo lo speziale, – e Trim vi farà da infermiere, – e io da servo, o Le Fever. – Avea tal franchezza il mio Zio Tobia, – non l'effetto della familiarità, ma la causa, – che di súbito ti metteva nell'anima sua, e ti mostrava la bontà della sua natura; – e negli sguardi, nella voce, e nei modi, traspariva certa cosa, che accennava eternamente allo sventurato di ripararsi sotto di lui; talchè il mio Zio Tobia non era giunto a mezzo delle cortesi offerte, che faceva al padre, e il figlio insensibilmente gli si era accostato ai ginocchi, – e preso un lembo della sua veste lo tirava a sè. Il sangue e li spiriti di Le Fever, che più e più sempre si facevano torbidi e freddi, e si ritiravano all'ultima cittadella, il cuore, – ricorsero indietro; il velo della morte lasciò quegli occhi un momento, – egli guardò desioso in faccia al mio Zio Tobia, poi al figliuol suo, – e quel legame della vita, sottile come era, non si ruppe! Ma la natura all'istante riprese il suo corso; – gli occhi si velavano di nuovo, – il polso batteva, – si fermava, tornava a battere, – balzellava, – si fermava da capo, – si moveva, – cessava: – devo dir tutto? – no. – Quanto bisogna aggiugnere è che il mio Zio Tobia, e il giovanetto Le Fever, come capi del funerale, accompagnarono il povero Luogotenente alla fossa. Quando il mio Zio Tobia ebbe convertito ogni cosa in danaro, – e aggiustato ogni conto fra l'agente del reggimento e Le Fever, – tra le Fever e tutto il genere umano, – non gli rimase più nelle mani che una vecchia veste militare, e una spada, di modo che il mio Zio Tobia incontrò lieve o nessuno ostacolo dal mondo, per amministrare quel patrimonio. Diè la veste al Caporale, dicendogli: – portala, o Trim, finchè sta insieme, per amore del povero Luogotenente. – E questa, – diss'egli, recandosi in mano la spada, e la trasse dal fodero nell'atto che favellava, – e questa serberò a te, o Le Fever. È tutta la fortuna, o mio diletto, che ti ha lasciato Dio, – ma se ti ha dato un cuore, onde aprirti con essa un varco nel mondo, – e da uomo onorato, basta per noi. – Appena il mio Zio Tobia gli ebbe dati i primi rudimenti, e insegnato a iscrivere un poligono regolare in un circolo, lo mandava alla pubblica scuola, – e quivi dimorò sino alla primavera dell'anno suo diciottesimo, – tranne le feste del Natale, e della Pentecoste, chè allora il Caporale puntualmente andava per lui; – allorchè la nuova, che l'Imperatore spediva in Ungheria un'armata contro i Turchi, gli accese in seno una scintilla di fuoco, e senza tor licenza lasciò il Greco e il Latino, – e gittandosi alle ginocchia del mio Zio Tobia, gli chiese la spada di suo padre, e la permissione di andare a tentare la ventura sotto d'Eugenio. Due volte il mio Zio Tobia si dimenticò la ferita, – e gridava: – io verrò teco, o Le Fever! io verrò teco, e tu combatterai al mio fianco; – e due volte si pose la mano sull'inguinaia, e piegò la testa nel dolore, e nello sconforto. Il mio Zio Tobia spiccò la spada dal gancio ove era stata appesa, intatta sempre dopo la morte del Luogotenente, e diella al Caporale perchè la forbisse; e avendo intertenuto Le Fever quindici giorni soli onde fornirlo del bisognevole, e contrattare il suo passaggio a Livorno, gli pose in mano la spada, e: – se tu sei valoroso, – disse il mio Zio Tobia, – questa non ti fallirà. – Ma il può la fortuna, – diss'egli pensoso un tal poco. – Il può la fortuna, e se ella ti fallisce, – soggiunse il mio Zio Tobia, – nuovamente ripara a me, o Le Fever, e noi ti diviseremo altro corso. – La più grave ingiuria non avrebbe oppresso di tanto il cuore a Le Fever, quanto la paterna amorevolezza del mio Zio Tobia, – e si divise da lui, come l'ottimo dei figli dall'ottimo dei padri: – ambedue piangevano, – e mentre il mio Zio Tobia gli dava l'ultimo bacio, fece scorrergli in mano 60 ghinee, avvolte in una vecchia borsa di suo padre, ove era ben anche l'anello di sua madre, e l'accomiatò benedicendolo nel nome di Dio. Giunse Le Fever all'armata imperiale nel punto di provare di che metallo fosse temperata la sua spada nella sconfitta dei Turchi dinanzi Belgrado: – ma da quel momento lo perseguitava una serie di disastri non meritati per quattro anni continui, – e resisteva a queste percosse della fortuna; ma la malattia lo colse a Marsiglia, e scrisse lettera al mio Zio Tobia, – che aveva perduto il suo tempo, i servizi, la salute, e tutto in somma, tranne la sua spada, e aspettava l'opportunità del primo bastimento per ritornarsene presso di lui.
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