Kitabı oku: «Max Leitner», sayfa 3

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IL PREZZO DEL NOLEGGIO

Continuavamo a girare in tondo, ci eravamo persi. In realtà l’entrata Bolzano Sud avrebbe dovuto trovarsi proprio di fronte a noi. La mamma studiava la carta, non capiva perché davanti a noi avessimo una collina se la carta mostrava semplicemente una pianura verde: la carta era sbagliata, il territorio era sbagliato, tutto era sbagliato. Tirò giù il finestrino della nostra Giulia 1600 bianca, ma non si vedeva nessuno. Proseguimmo fino all’ingresso del paese di Colterenzio. Mia madre fermò l’auto, ecco finalmente delle persone.

“Non chiedere ai vecchi, raccontano balle”, dissi. Avevo otto anni.

Perché si dicono così tante sciocchezze sull’essere innamorati? Chissà. Essere innamorati è lo stato di aggregazione più faticoso da sopportare. Improvvisamente le parti del mio corpo passavano dallo stato solido a quello gassoso. Sul collo, dove prima c’era la testa, cresceva un palloncino. Perdevo ogni aderenza con il terreno, rischiavo di sollevarmi in aria in qualsiasi istante portato via dal vento. Poi la gravità mi schiacciava di nuovo a terra, non riuscivo più a fare neppure un passo.

Solo una cosa mi rendeva libero: stancare il mio corpo in ogni sua fibra. Il giorno 20 andai in montagna e il 21, il 22, il 23 e il 24 pure. Sempre da solo. Infilavo gli scarponi, uscivo di casa, andavo in bici al bosco più vicino e poi salivo lungo il sentiero. Facevo sempre lo stesso percorso. Non vedevo nulla, né il paesaggio né le piante, né gli animali. Non c’era nulla. Ah, sì, qualcosa c’era: alberi, radici, pietre, detriti, ancora pietre. Le immagini mi restavano impresse nella retina.

Il direttore del club alpino aveva cercato un itinerario che desse soddisfazione. Dalla malga Leiteralm al valico della Hochgangscharte fino al Lago Verde, poi giù alla malga Oberkaseralm e ritorno. Un giro per gente giovane. Anita camminava faticosamente accanto a me, con la treccia al vento. Sotto la canottiera con le spalline si intravvedeva la forma del seno. Non i capezzoli, quelli no. Sullo stretto sentiero non c’era posto per camminare affiancati, così non dovevo parlare. Del tempo avevamo già parlato. Il cielo era azzurro, faceva caldo.

Giungemmo a un tratto di sentiero ripido. A sinistra la parete di roccia, a destra il precipizio. I vecchi erano davanti. Anita si fermò, prese l’acqua dallo zaino e bevve. Ci sedemmo sul bordo del sentiero, con le gambe a penzoloni sull’abisso. Il mio ginocchio sfiorava il suo. Lei si spalmava la crema solare sul naso e sulle guance. Tra le nostre due ginocchia ormai c’era solo un piccolissimo spazio. Feci un nuovo tentativo di mettere la mia coscia contro la sua. Lei non si scansò. Il mio cuore batteva, lo sentivo fino al collo. Respiravo a fatica. “È ripido questo tratto.”

“Sì, molto ripido.”

Ci sono persone che scalano la parete nord delle Tre Cime di Lavaredo senza funi, altre che si immergono fino a cento metri senza ossigeno o saltano dagli aerei e in genere il paracadute si apre. Io misi il braccio attorno alle sue spalle scoperte. La pelle delle spalle di una ragazza di quattordici anni è morbida come le piume di un fenicottero appena nato. O almeno credo. Sentii il sudore scendermi lungo la schiena e poi scorrere sulla fronte, bagnare la camicia sul collo. Proprio là dove sentivo battere il cuore. Accarezzai con le dita la parte superiore del suo braccio. Ora. Potremmo scivolare giù e baciarci mentre moriamo.

Ed ecco i vecchi. Dove siete finiti? Facemmo finta di non sentirli, una, due volte. Ma ormai mio padre si era messo le mani a megafono sulla bocca e stava urlando per la terza volta: “Dove siete?”. Lo scricchiolio dei sassi sotto le sue suole si fece sempre più forte. Balzammo in piedi. Che cosa stavamo facendo? Abbiamo fatto una pausa, abbiamo bevuto e ripreso un po’ di fiato. È abbastanza ripido questo sentiero.

I vecchi brontolarono qualcosa. Alla Hochgangscharte mio padre mi indicò un lago da ammirare. Attorno a noi la roccia si era liberata ormai dai prati e tra le pietre nude il pennacchio bianco faceva di tutto per farsi notare con la sua morbida lanugine.

Al Lago di Latte ci sedemmo sul terreno roccioso. Noi due vicini ma non troppo. Anita mi sussurrò che venerdì aveva intenzione di andare a trovare Lydia. Venerdì. Meno di una settimana per riuscire a procurarmi un motorino partendo da zero. I vecchi studiavano la carta escursionistica. Oltre il Giogo di Quaira si tornava a valle. Ci misero in guardia dai rischi del precipizio: non guardare a destra né a sinistra, fare un passo alla volta, guardare sempre dritto davanti a sé. Come se fosse la prima volta che camminavamo su una cresta stretta.

Nel pomeriggio prendemmo il caffè a Merano. Eravamo seduti sotto gli ombrelloni rossi con il logo bianco di una marca di caffè. Scacciai via una vespa dalla mia Coca Cola, mentre il direttore del club alpino afferrava al volo un giornale dal tavolo accanto e leggeva ad alta voce titoli e brani di articoli. La SVP di Brunico è riuscita a far approvare la costruzione di una nuova strada importante per i contadini che portano il mais e il grano ai mulini. A Caldaro hanno rapinato la banca Raiffeisen, i criminali sono riusciti a fuggire. La banda Baader-Meinhof ha compiuto un attentato con l’esplosivo a Francoforte.

“Ma questi qui non si calmano mai?”, chiese il padre di Anita. Posò il giornale e così iniziai a leggere l’articolo sulla rapina alla banca. Quattro giovani con le calze da donna in testa avevano portato via parecchi milioni di lire. Ce n’era abbastanza per un’intera flotta di motorini.

I vecchi discutevano di assassini e sequestratori. Il padre di Anita si infervorò parlando delle Brigate Rosse. Mio padre replicò che la mafia aveva metodi altrettanto brutali, bastava pensare a John Paul Getty, il nipote del petroliere americano che anni prima era stato rapito a Roma. Solo per avidità, per pura, schifosa avidità.

Non capivo nulla di rapimenti ma ne capivo invece di avidità, della necessità di ottenere qualcosa che ci si vedeva negata dal destino, o dalla propria madre. Quali altri mezzi restavano se non la violenza più brutale? Avevo bisogno del motorino!

Ma il destino era meno spietato di mia madre: mi concesse un rinvio. Anita si ammalò e così utilizzai il tempo guadagnato per dare inizio alla mia carriera criminale. Come primo esercizio rubai la cioccolata dalla cartella di Vio. La mamma la sgridò perché non era nemmeno capace di badare alle sue poche cose. Ma io puntavo già a un obiettivo più grosso. Se mio padre poteva essere un moralista un po’ codardo, io certo non lo ero. Così andai al minimarket Despar e guardai attraverso la vetrina: la cassiera era impegnata, c’erano tre persone in coda. Arrivato all’interno aprii lo zainetto e feci scivolare dentro la refurtiva. Sabine stava rovistando nel cassetto del denaro, io mormorai che non avevo comprato nulla. Lei annuì, lesse i prezzi del burro, del latte e delle uova e li batté alla cassa. Una volta fuori saltai sulla bicicletta e iniziai a pedalare. Il mio bottino erano due matite di durezza 2H.

Il direttore voleva espellermi da scuola, ma il motorino non l’avevo rubato, l’avevo solo preso in prestito. Il mio compagno di banco Michele e Alessandro della terza venivano a scuola con i loro KTM. Non avrei mai preso niente a Michele, eravamo amici. Mi aveva mostrato la moto e spiegato quello che si doveva fare per farla andare: tirare la frizione, dentro la prima, seconda, terza, la quarta in basso. Mi aveva fatto salire, io avevo premuto la frizione, l’avevo lasciata andare, la mia corsa si era spenta nel cortile. Ero come in Easy Rider, il vento rinfrescava il mio animo surriscaldato.

Alessandro invece era uno spaccone, indossava i guanti e pontificava sull’accelerazione della sua moto, un Bomber. I ragazzi lo ascoltavano attentamente, le ragazze avevano il permesso di fare un giro con lui. Non ero io il ladro, ma l’occasione. Il martedì Alessandro aveva lasciato la chiave sul banco nel seminterrato.

Quattro giorni. Quattro dannati giorni volevo tenerlo, poi l’avrei rimesso a posto.

“Suo figlio ha rubato la moto di un suo compagno”, sbraitò il direttore al telefono. Di un compagno che ha impiegato un’ora a mezza per andare a scuola. I suoi genitori avevano risparmiato un anno intero per comprare la moto al figlio.

Papà mi venne a prendere, in auto restammo in silenzio. Mamma invece non tacque. Non l’avevo mai vista così.

Andai in camera mia, lei spalancò la porta prima che potessi renderla a prova di genitore. “La colpa è tutta vostra”, urlai. Mia madre girò i tacchi e se ne andò.

F17

Quindi Max non è morto. Non c’è il suo cadavere nella cella frigorifera dell’istituto di medicina legale. Sono riusciti a colpirlo solo in modo leggero questi dei Cobra, le unità d’élite della polizia austriaca. Ma dove hanno imparato a sparare? Al vivaio?

Non è così, spiega a Max il poliziotto che lo accompagna al reparto di radiologia. Negli ultimi giorni e nelle ultime settimane gli hanno fatto centinaia di radiografie, tutte al bacino, al ginocchio e alla mano. Oggi tocca di nuovo alla mano. Un’operazione del genere richiede esperienza, continua il poliziotto. Colpi di avvertimento: sì. Colpi di striscio: sì. Colpi per rendere inoffensivo il criminale, cioè al ginocchio, alla mano eccetera: assolutamente sì. Ma se qualcuno muore durante una sparatoria avrai solo grane. All’inizio sono gentili, ti mandano dalla psicologa e lei dice che ti aiuteranno a superare il trauma di aver ucciso una persona. Le solite panzane da psicologi e basta. Ma quando vieni reintegrato in servizio ti fanno riempire talmente tanti moduli che non finiscono più. F10, 11, 13, 14 e 17, e con tutti gli allegati! F17 a, b, c, d, e, stai lì delle ore! Ore intere! Puoi mettere in conto una giornata intera. Poi se sei davvero sfortunato arriva l’inchiesta interna. Devi dire dove ti trovavi esattamente e dove stava il criminale, chi ha sparato per primo e se ci fosse un’alternativa. E devi passare per queste domande, le stesse domande che ti sei fatto già da solo centinaia di volte. Per questo durante l’addestramento alla scuola di polizia non ti insegnano come uccidere un criminale, ma come non ucciderlo. Questa è la parte essenziale dell’addestramento. Cosa fare quando si arriva a uno scontro diretto, il comportamento in un conflitto a fuoco. Si fanno molte esercitazioni, cento, mille, diecimila volte. Per proteggere se stessi, per sapere cosa dire. Per sapere di aver fatto tutto nel modo giusto.

“Allora un modulo mi ha salvato la vita”, commenta Max.

“Si può proprio dire di sì”, risponde il poliziotto con un’aria tremendamente seria.

La radiografia non dice granché di nuovo. Max riesce a usare a malapena la mano. E il ginocchio, dottore, come sta? Malissimo!

Lo riportano in cella. È tremendo qui in Austria, in questo paese arretrato. L’esecuzione della pena è così moderna, qui, che non usano sistemi di tortura.

Una cosa davvero buffa è che anche se Max non rischia più di morire la sua testa continua a essere affollata di ricordi. Ma forse non è poi così buffo, perché non è morto ma non è neppure vivo. È peggio che essere morti. È chiuso in carcere, sepolto vivo a Stein.

Gli passa davanti ancora una volta tutta la sua vita. Le lezioni di karate con Matthias. Max indossa la cintura blu. Matthias distribuisce i bastoni, impartisce ordini. Si lotta e Max alza il braccio, colpisce Ferdinand allo stinco. Non voleva, davvero. La madre di Ferdinand si arrabbia tremendamente, lo accusa di essere un teppista, chiede che Max sia espulso dalla palestra. E tutto questo poco prima delle vacanze. Il ricordo non riesce ad affiorare, allora torna alla terza superiore. Gli studenti di questa classe sono dei poveri secchioni, fanno sempre tutti i compiti a casa. Tengono il registro contabile, puoi metterli subito in qualsiasi azienda e loro lo terranno. Dopo la bocciatura in terza il ricordo non migliora. E allora via dalla scuola, non serve a niente.

I preparativi per il matrimonio. No, la bambina c’era già. L’ultimo giorno di novembre Kathi era tornata dalla clinica con la piccola. Una bambolina, dai grandi e splendidi occhi blu. Non resteranno così, gli aveva detto sua madre. All’inizio era un po’ fredda, ma poi Julia aveva iniziato a piacerle. Piaceva a tutti, era una bambina tanto allegra e rideva sempre. Max per Natale le aveva comprato un sonaglio, ma era ancora troppo piccola per giocarci. Kathi le aveva regalato un carillon di plastica beige, con uno gnomo seduto su una falce di luna. Tirando il cordino si sentiva: “Buona sera, buona notte”.

Da quando era arrivata la bambina Kathi non aveva più smesso di parlare di matrimonio. Litigavano ogni giorno, Kathi urlava e diceva che gli avrebbe portato via la bambina. Max le aveva chiesto che cosa le saltasse in mente. Se non riga dritta sarà lui a prendersi la bambina. Ha degli amici che sanno come si fa in questi casi. Kathi si era messa a ridere. Allora me ne vado con la bambina, aveva detto. In America, o in Finlandia o in Australia, comunque molto lontano. E allora Max come farà a trovarla, eh?

Poi Max aveva capitolato, per trovare un po’ di calma. Ed erano iniziate le liti con sua madre. Perché sposare quella sgualdrina? Che oltretutto gli ha appioppato una figlia solo per poterlo trascinare all’altare. Cosa sa fare, quella sempliciotta? Niente. Avrebbe potuto avere così tante donne, Max. Sylvia, per esempio. Lei sì che era una in gamba, ora è già caposala in oncologia. E persino Claudia, che è andata al ginnasio, era innamorata di lui.

Kathi era in piedi in anticamera e si guardava allo specchio, stava indossando un cappello bianco incredibilmente appuntito. Max gliel’aveva strappato dalla testa, così non vieni al nostro matrimonio. Tra i capelli Kathi si era messa una corona con delle piccole margherite. Era graziosa, non serviva neppure il velo. “Hai proprio un musetto carino”, aveva detto Max.

Come sarebbe stato un matrimonio che non aveva voluto? Se non ci fosse stata Notburga forse non avrebbe sposato Kathi. Notburga prima aveva intrecciato le dita, poi le aveva separate e strofinandosi i palmi aveva detto, senza guardare in faccia Max: “Se c’è una figlia ci si deve sposare”. Non aveva neppure preso la tavoletta, lo sapeva anche lei che tra Kathi e Max non sarebbe finita bene.

La vita che gli passa davanti non si cura delle date. Molto prima del matrimonio Max aveva aperto la palestra a Bressanone, che era stata finanziata da Alois Lechner. Aveva conosciuto Alois a una festa. A quell’epoca, nei primi anni Ottanta, la gente sapeva ancora fare festa. Non se ne stavano in piedi rigidi con il bicchiere da cocktail in mano, allora c’era un gran movimento. Le ragazze ballavano seminude, lo spumante scorreva a fiumi. Alois era appoggiato al bancone del bar e beveva una birra. Si erano trovati subito simpatici e avevano fatto società in un attimo.

E Kathi era contenta? Macché, l’aveva rimproverato. Max doveva gestirla meglio, la palestra, non ce l’aveva per sollevarci i pesi da solo. E lei non poteva occuparsi di tutto. E poi la gente alla fine doveva pagare. La maggior parte aveva pagato, erano pochi quelli che non avevano i soldi. Richie era completamente al verde, non ci poteva fare niente. Una sfortuna, era stato licenziato tre volte. A quel punto fai fatica a trovare un lavoro rapidamente, ogni possibile nuovo capo ti chiede cosa sia successo. E sei già alla porta. Per questo Richie era uno dei suoi clienti più fedeli, veniva almeno quattro volte la settimana. E che gli anabolizzanti fanno male, a quell’epoca Max non lo sapeva. Molte cose sono vietate non perché siano dannose ma semplicemente perché sono divertenti. Quella roba lì andava via come il pane appena sfornato. Tutti quei tizi occhialuti con i muscoli di un pollo che non erano capaci di sollevare neppure dieci chili la trangugiavano come se fossero caramelle. E pagavano bene per averla.

Le celle qui sono minuscole, sono delle specie di budelli con un letto, un tavolo e una finestra – con le inferriate, ovviamente. Più una porta d’acciaio verde chiaro con una piccola finestra attraverso la quale passano a Max il rancio quotidiano. Fuori dalla porta non è che sia meglio: un corridoio lungo e spoglio con il pavimento in linoleum, vecchio e in pessimo stato. Tutto l’edificio è dell’Ottocento o ancora più vecchio. Solo il cortile interno è spazioso, ma Max non può andarci. Perché credono che non possa camminare, sta sempre sulla sedia a rotelle e fa i suoi esercizi solo quando non lo vede nessuno. Ogni giorno si dà dei colpi sul ginocchio per renderlo insensibile. Deve andarsene da qui. Ora, immediatamente, subito. Qui lo faranno diventare matto. Matto. Perché non c’è abbastanza aria, perché non ne può più di stare sempre sulla sedia a rotelle, perché tutto il suo corpo è teso come la corda di un arco e qui dentro non riesce a pensare lucidamente. Per questo nella sua testa si è insediata Kathi e litiga sempre con lui. Per evitargli di immaginare com’è la vita là fuori, di pensare agli altri che se la spassano, vanno al cinema, sfrecciano su fantastiche auto sportive, vanno a letto con le donne. È contro natura rinchiudere un uomo giovane, contro natura! Max non può restare qui, gli serve una strategia. Prima aveva progettato una rapina, adesso gli tocca ideare un’evasione. Sono entrambe complicate, entrambe devono essere studiate nei minimi dettagli. Niente può andare storto. Max deve concentrarsi, ha una missione.

TRADIMENTO

Fui messo agli arresti domiciliari. Mi andava bene, perché non volevo vedere nessuno. Era solo stupido che non avessi neanche la televisione in camera. Michele ne aveva una e sicuramente anche quel fanfarone di Alessandro. Tutti avevano una televisione in camera, solo io no.

Almeno non dovevo fare i compiti a casa. Ero sospeso dalla scuola fino a quando la situazione non fosse stata chiarita. Cosa c’era poi da chiarire! Mi avrebbero ficcato in prigione, così non avrei più dovuto andare a scuola.

Scrissi una lettera ad Anita, spiegandole che non potevamo vederci perché non potevo uscire.

Due settimane, mi avevano appioppato — due settimane che sembrarono infinite. Mancava poco alla fine della scuola, gli altri andavano a nuotare, andavano allo stagno, sfrecciavano con il motorino, andavano a prendere di nascosto le ragazze dalle amiche, giocavano a pallone. Io invece sedevo nella mia muffosa cameretta e mi giravo i pollici. Mi avevano lasciato solo il giradischi. I Sex Pistols non piacevano ai miei genitori, loro erano del partito della musica classica. Andavano a Verona a vedere l’opera, a sentire strilli da far drizzare i capelli cacciati fuori da donne e uomini sovrappeso vestiti in modo ridicolo. Leggevo i vecchi albi di Asterix o addirittura alcuni comics ancora più vecchi di Superman, riflettevo su come avrei potuto modificare la mia camera. Per esempio gettare la biancheria per terra invece di sistemarla nel cassetto. Dipingere quadri neri. Appendere quadri neri. Appendere altri quadri ancora più neri. Per mangiare avevo il permesso di scendere in soggiorno. Ma io restavo in camera. La mamma allora metteva il piatto davanti alla mia porta, io ne lasciavo lì metà, aspettavo fino a quando il pane non ammuffiva e il salame non si pietrificava ai bordi prima di rimettere quegli orribili resti accanto allo stipite della porta. La mattina in bagno Paolo mi informava sulle novità. Emilio della sua classe era in piena muta della voce, la nostra vicina si era slogata un piede facendo legna, la mamma piangeva perché una delle sue pazienti era morta di cancro alla vescica. Una donna che aveva assistito per anni.

Anita mi rispose per lettera proponendo un nuovo incontro. Io non ci andai. Ci vedemmo a una mostra sulla storia dell’alpinismo a cui mio padre mi aveva costretto ad andare. Lui stava pontificando davanti a una vetrina piena di scarpe chiodate e corde di canapa, Anita si avvicinò da dietro di soppiatto e mi mise le mani sugli occhi. Non vedevo più nulla. Non me l’aspettavo e non mi venne in mente nulla da dire. Così le dissi la verità, che non potevo andare a prenderla perché non avevo il motorino. Mi disse che ero un cretino e se ne andò.

Non arrivarono più né lettere né telefonate. Di domenica andavo a camminare con i vecchi, solo io. Nel giro di poche settimane ero riuscito ad avere tutti contro: genitori, amici, ragazza. Violetta aveva capito che ero stato io a fregarle la cioccolata e fece immediatamente la spia. L’unico che stava dalla mia parte era Paolo. Stava seduto con me in camera per ore, anche se gli parlavo a malapena. Spesso avevo parlato male di lui, ma era un bravo ragazzo. A un certo punto finii per soffocare nel mio stesso silenzio e così sputai fuori tutta questa storia così complicata. Forse la migliore delle sue qualità è che non mi dava mai consigli, si limitava ad ascoltare.

Quattro giorni dopo, di mattina, mia madre era seduta sul mio letto. Balzai su con uno scatto fulmineo e le chiesi furibondo cosa ci facesse lì. Rispose che dovevamo parlare. Paolo le aveva raccontato di Anita. Paolo! Che stronzo! Che sacco di…! Che topo di chiavica! La mamma restò in silenzio fino a quando la mia scorta di tre imprecazioni si fu esaurita. “Tu l’hai offesa”, disse. “Adesso devi riparare.”

“Perché l’ho offesa?”

Sorrise. “Pensi davvero che si sia innamorata di te perché credeva che tu avessi il motorino?”

Sbuffai, deglutii. “Cosa dovrei fare ora?”

“Scrivile una lettera, invitala a prendere un gelato, vai al cinema con lei. E parlale. Dille che ti dispiace. Che è stato stupido abbandonarla, che ora l’hai capito.”

“Non volevo rubare il motorino. Volevo prenderlo in prestito per andare a prendere Anita dalla sua amica e fare un giretto con lei. E poi l’avrei rimesso a posto.”

“Lo so”, disse la mamma.

“Mi credi?”

“Sei mio figlio!”

“Ma tutti dicono che sono un ladro.”

“Non mi interessa cosa dicono tutti. Io ti conosco. Tu non sei un ladro.”

“Mi butteranno fuori dalla scuola e i genitori di Alessandro mi denunceranno.”

Mamma mise la sua mano sulla mia. “Papà sistemerà tutto.”

Mi abbracciò e il suo petto era così morbido e consolante che mi vergognai un po’ e scoppiai a piangere.

Mi accarezzò i capelli. “Non te la prendere con Paolo. Gli chiedevo di te ogni giorno, lo assillavo con le mie domande, lo torchiavo di continuo. Ora ha paura che non gli parlerai più. Lui non è ancora pratico di ragazze. Per questo dovevo parlare io con te.”

Paolo, un bravo ragazzo.

Non so quanto denaro fosse stato versato, in ogni caso nessuno ci mandò via da casa e continuammo a tenere l’Alfa Romeo. E andammo in vacanza al sud, come ogni anno. Ma non spendemmo molto perché eravamo ospiti dei nonni.

Mi toccò tornare a scuola, fare i compiti a casa e promettere una cosa ai miei: non sarei mai salito su un motorino, neppure con uno dei miei amici. E assolutamente mai se avevano bevuto. Troppi ragazzi perdono la vita sulle strade dell’Alto Adige.

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