Kitabı oku: «Max Leitner», sayfa 4

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TARDA ESTATE

Cosa ci fa Max in un carcere austriaco? Dopotutto è italiano, lui appartiene all’Italia, all’Alto Adige. Adesso Kathi può venire a trovarlo con Julia. Erano arrivate a Innsbruck quando Max era ancora in ospedale. L’avevano portato lì con l’elicottero. Pensavano che non se ne sarebbe neppure accorto, tanto gravi erano le sue ferite. Invece se ne era accorto. Era disteso nell’angusta cabina del velivolo, legato stretto a una barella, con la maschera dell’ossigeno sulla bocca. A volte perdeva coscienza, poi tornava in sé e si assopiva di nuovo. Qualcuno impartiva degli ordini. E poi c’erano delle luci sopra di lui, tubi al neon su soffitti bianchi che passavano veloci come le strisce sull’asfalto di un’autostrada. Quando la luce si era accesa di nuovo era sdraiato in un letto con le sponde laterali alzate. Gli facevano iniezioni e flebo, gli cambiavano le bende e le tagliavano intorno a lui, ma lui non se ne accorgeva. Più tardi, una volta estratti i proiettili e diradate le nubi dei dolori e delle pastiglie, era arrivato il maggiore Müller, si era seduto accanto al suo letto e l’aveva tempestato di domande: svolgimento degli eventi, pianificazione, deposito delle armi. Max non aveva risposto, erano arrivati i dottori a medicarlo, poi il maggiore si era seduto di nuovo vicino a lui ed erano andati avanti così a lungo: medicazione, interrogatorio, medicazione, interrogatorio… Perché ha sparato a un poliziotto? Max aveva risposto di non avere sparato.

Poi alla fine erano arrivate le visite. Prima Kathi, poi i suoi genitori. La mamma l’aveva rimproverato. Perché gli diceva queste cose? A Max erano venute le lacrime agli occhi e allora lei l’aveva piantata con le ramanzine. Alla fine si era seduta molto vicina a lui e gli aveva preso la mano, quella sana. Gli aveva sussurrato che sarebbe andato tutto bene. Alla fine – questo i giudici l’avrebbero considerato – non era un cattivo ragazzo. Non era una persona malvagia o un assassino, era solo un rapinatore. Max le aveva chiesto come andasse a casa. Oh Gesù, a casa! Giornalisti ogni giorno. Della televisione, dei giornali. Vogliono sapere tutti com’è andata. Tutta Bressanone è in subbuglio, tutti si informano su Max. Oh, non ci crede nessuno! Max ha assaltato un furgone portavalori? Lui? Ma va’, impossibile, sarà uno scambio di persona. Max va a messa tutte le domeniche, Max aiuta gli anziani e i deboli. Max lascia i poveri diavoli allenarsi gratis nella sua palestra perché non si facciano venire strane idee, non può essere stato proprio lui. È tutto vero. Lui va in chiesa ogni domenica, nella chiesa parrocchiale della parte alta del paese, quella con il campanile a punta e la Madre di Dio sul piccolo altare laterale con il panno ricamato: Maria piena di misericordia, io ti ringrazio. Qualche volta scende in città, si siede nella chiesa grande e ascolta la predica del vescovo. Dopo la messa va nel chiostro a destra dell’entrata, passa di fianco al bassorilievo con i vescovi sulla parete e arriva davanti agli affreschi pieni di colori. Si ferma di fronte all’immagine del presepio e guarda in su verso la Madonna con in braccio Gesù Bambino. Di fronte a entrambi sta inginocchiato un re che ha portato in dono l’incenso, dietro ci sono gli altri re magi che stanno per consegnare i loro doni. Ma la Madonna non è felice. Lei sa già che il bambino si allontanerà da lei, che le verrà sottratto. Persino il bue e l’asinello in piedi sotto il tetto di paglia pieno di buchi lo sanno: le cose non finiranno bene.

Max era stato operato due volte, alla coscia e al ginocchio. I colpi di striscio sulla schiena erano guariti da soli, la mano invece era rimasta simile a una zampa, curva e deforme.

Dopo le operazioni era rimasto a letto e solo raramente gli avevano dato delle pastiglie. Le pastiglie lo annebbiavano, Max dormiva per gran parte del tempo e quando non dormiva sentiva la rabbia nello stomaco, come un grumo acido e compatto. Come accadeva anni addietro a Cesenatico quando le suore lo rinchiudevano e non vedeva il sole per giorni interi.

Poi da un giorno all’altro era cambiato tutto. Il viceprimario era venuto tre volte al suo capezzale e gli aveva chiesto come stesse. Gli avevano dato gli antidolorifici tutte le volte che voleva. L’avevano operato ancora, questa volta bene, e una fisioterapista gli aveva massaggiato le gambe e le braccia e spiegato gli esercizi da fare. Era ora, aveva pensato Max. Poi aveva fatto una telefonata in Italia: è finita, stanno seguendo le tracce. Lo riferirò, aveva detto uno che si chiamava Massimo. Max non aveva parlato direttamente con il boss. Non dal carcere, non al telefono. Ma la cosa importante era che i ragazzi non l’avevano dimenticato.

Il detenuto che avevano messo a spingere Max sulla sedia a rotelle si chiamava Michael. Era un misero borseggiatore, l’avevano beccato per la terza volta. Michael l’aveva portato allo spaccio dell’ospedale, lì c’erano vari generi commestibili e Max aveva comprato speck, salamini affumicati, pane e acqua minerale. Mangiare tiene insieme il corpo e lo spirito, si dice.

Davanti alla sua cella aveva trovato degli agenti, dentro era seduto Franco. Max gli aveva dato una pacca amichevole sulla schiena, aveva fatto un cenno verso i tizi in corridoio e aveva alzato gli occhi al cielo. Chi ha paura dell’uomo nero? Franco. Lui aveva paura di tutto e di tutti. Nessuno sapeva l’italiano, Franco si esprimeva a malapena in tedesco e parlava solo con Max. Se si incontravano in corridoio Franco si girava tre volte per vedere se ci fosse qualcuno dietro di lui. I suoi bulbi oculari vagavano a destra e a sinistra, sembrava Buster Keaton in un vecchio film muto. Parlava in modo precipitoso e sconnesso. Una sera stavano seduti nella cella di Max, Franco fumava, aveva spento la sigaretta, aveva preso la successiva dal pacchetto e ci aveva guardato dentro, ne erano rimaste solo due. Max gli aveva messo la sua manona sulla mano. “Guardami”, aveva detto. “Mi è andata male, ma starò di nuovo bene. Non resteremo in carcere. Devi essere contento di non sapere il tedesco, quando ti interrogano sono costretti a prendere sempre un interprete e gli costa dei soldi. Si stuferanno presto!”

Franco non gli credeva. Camminava strascicando i piedi e tenendo le spalle basse, con la testa ritratta come una tartaruga che si rifugia dentro la corazza. Max lo guardava. Fausto si faceva vedere più raramente, avevano preso anche lui. Tutta la sua banda annientata in un colpo solo, erano rimasti solo tre cacasotto e uno storpio.

Max aveva presentato domanda per essere trasferito in Italia. Si era fatto vivo il maggiore Müller: nessuna agevolazione senza qualcosa in cambio.

“Che cosa volete in cambio?”

“Dove avete nascosto le armi? Dove avete depositato l’esplosivo?”

Max si era rifiutato di deporre.

Michael, quello che lo spinge, era entrato nella cella di Max con un amico, un tizio con le spalle larghe, gli occhi azzurri come l’acqua e la testa pelata. Il tipo si era seduto sul letto, aveva dato una pacca sulle spalle a Max, gli aveva detto che era un ragazzo straordinario, poi aveva raccontato di essere dentro per una rapina in banca. Max aveva dato un morso a un salamino duro e sottile. Con un coltello avrebbe potuto tagliarlo a fettine ma non ci sono coltelli in prigione, non si può tenere neppure un temperino. L’uomo continuava a blaterare, raccontava di uno che aveva violentato una donna e aveva tagliato la corda. Dal reparto dell’ospedale, diceva il pelato, si può scappare in qualsiasi momento perché lì non ci sono inferriate alle finestre ma solo pali di cemento. Si possono allargare con un attrezzo a vite. E dove posso prenderlo, aveva domandato Max.

“Lo si può comprare”, era stata la risposta del pelato. “Ne fanno uno di questo tipo nell’officina metallurgica. Bisogna parlare con i detenuti. Però costa…” Il pelato aveva strofinato insieme pollice, indice e medio.

A cena c’erano zuppa di patate e salsiccia con piselli e carote.

Max aveva spedito in officina Michael, che era tornato con un certo Christian. Quest’ultimo si era annotato tutto quello che serviva.

Max è seduto sulla sedia a rotelle e fissa il cielo di fuori. È di un azzurro intenso, non ci sono nuvole, solo una luce forte. In questi giorni è ancora più inquieto del solito, non riesce a tenere ferme le gambe; dondola le ginocchia avanti e indietro, si alza e si abbassa come se dovesse segnalare che è ancora in vita all’“uomo morto”, quel dispositivo che usano i macchinisti. Intanto il treno corre senza sosta e Max non può fermarlo, ormai è partito da un pezzo. Ma nella direzione sbagliata. Dietro di lui c’è la libertà, davanti una detenzione interminabile. “Rapina a mano armata con sparatoria, per una faccenda del genere ti becchi quindici anni”, gli ha detto il maggiore Müller.

Quindici anni. Quando uscirà sarà vecchio, impotente, senza denti e con i capelli grigi. Quindici anni. Max avrà quasi cinquant’anni.

Il congegno a vite avrebbe funzionato? Prima che Max potesse applicarlo ai pilastri di cemento gliel’avevano scoperto sotto il materasso. Era finito in isolamento. Dal reparto dell’ospedale alla cella di isolamento, completamente solo: intorno a lui nient’altro che muri e una minuscola finestra con un’inferriata. Non poter parlare con nessuno per tutto il giorno, fissare il soffitto, essere felice quando una mosca entra per sbaglio nella cella o un ragno tesse la sua tela. Che vivacità, aveva scritto Theodor Storm. Ma Max ha avuto modo di leggerlo solo dopo, quando un detenuto qui a Stein gli ha regalato il libro. Poi Max è andato in biblioteca e ha cercato altri libri di Storm. Ma non li avevano e allora ne ha preso un altro, uno più lungo di Stifter. “Tarda estate” si intitolava, e Max era contento che avesse così tante pagine. Ma poi la felicità è terminata, in “Tarda estate” non accadeva niente. Proprio come qui in carcere, dove non accade mai niente.

GUERRA

C’è mai stato un altro momento in cui mi sono sentito così libero come quell’anno alla fine della scuola? Avevo davanti un periodo infinito di vacanze e poi non sarei più tornato in una polverosa aula scolastica, ma sarei andato all’università a Bologna. Che bella la vita dello studente! Stare in giro fino all’alba senza nessuno che mi facesse il conto di quante cellule cerebrali muoiono a causa di una sbronza. Ah, morire in allegria nella testa di Fabio!

Ero in piedi nella mia camera e stavo infilando le mie poche cose in una valigia e in uno zaino. Paolo mi passò una maglietta nera. La osservai bene e riflettei se fosse abbastanza nera. Disse che gli sarei mancato. Lasciai cadere la maglietta.

“Ma no”, dissi, “ti rimane sempre Violetta!” Era la consolazione più sciocca che mi potesse venire in mente. Cosa se ne faceva un dodicenne di una sorella? Paolo scrollò le spalle. Non mi fece nessun rimprovero, era un bravo ragazzo. Lo strinsi tra le braccia e alla fine gli dissi la verità, che anche lui mi sarebbe mancato. Allora non piansi. L’hanno detto dopo.

Mio padre mi accompagnò fino al treno. Mi avrebbe portato volentieri in auto, c’era molto spazio nel bagagliaio dell’Alfa, ma io non volli. Al momento del congedo disse che era orgoglioso che studiassi a Bologna, l’università più antica d’Europa. Anch’io ero orgoglioso, in qualche modo.

I miei avevano accettato senza fare storie che io non avessi scelto medicina. Mi interessava la sociologia, ne sapevo poco e forse per questo la trovavo attraente.

Ero in piedi in una lunga fila, davanti a me c’era una ragazza con la coda di cavallo castana e gli occhiali. Stava conversando con uno davanti a lei che voleva iscriversi ad antropologia. Ah! Gli altri ragazzi parlavano di teatro e dell’opera d’arte totale, poi si aprì un altro sportello, mi ci piazzai davanti immediatamente e dissi… dissi: “Giurisprudenza”.

Non è così grave, si può cambiare facoltà in qualsiasi momento.

Avevamo un vecchio professore con la pancia e le mani sempre nelle tasche dei pantaloni, camminava su e giù di fronte alla lavagna con indosso un completo blu con i gomiti luccicanti. Parlava di Seneca, diceva che è necessario vivere la vita invece di preoccuparsi per il futuro. Che è indifferente cosa pensano gli altri, e che arrovellarcisi sopra è uno spreco. Uno spreco di vita preziosa, un tradimento del pensiero in quanto tale. “Lo capite?”, ci vomitava contro il vecchio. “Gli dèi ci hanno regalato la capacità di pensare. E noi cosa facciamo? Non pensiamo, stiamo a lambiccarci il cervello! Su cose che non hanno senso!” Lui stesso non si lambiccava il cervello e indossava il suo abito blu in qualsiasi stagione, anche se gli anni Ottanta ci avevano elargito ormai da tempo i pantaloni con le pinces e le polo Lacoste. Il professore mi piaceva ma io restavo sul nero attillato, con le spille da balia infilate nei jeans all’altezza del ginocchio. Non nelle guance e nelle orecchie, ero troppo vigliacco.

In Sicilia intanto era scoppiata la guerra. I Corleonesi avevano visto troppa televisione, Marlon Brando e Al Pacino avevano dato il via al repulisti. Eravamo seduti nella sala comune del pensionato studentesco su sedie da ufficio di seconda mano e tavoli in laminato verde pisello. Le nostre bottigliette di birra si incollavano ai residui di ragù, latte e Coca Cola. Certi giorni il laminato era protetto da tovaglie incerate a quadretti rossi e beige, se sollevavo un po’ la bottiglietta si sgualcivano. Tenevo la mia birra in mano e fissavo la televisione. Automobili sventrate, i morti erano sui sedili in uno stato pietoso: uomini, donne, persino bambini. Uccisi a colpi di arma da fuoco, strangolati, sepolti nel cemento.

E finalmente compresi su cosa avrei dovuto arrovellarmi. La mia meditazione su Seneca mi portò dal professor Alessandro Galli, di mestiere penalista ed esperto di criminalità organizzata. Galli veniva come me dal sud, anche lui era stato scacciato dalla mafia. Gli raccontai di mio padre e di come, ancora bambino, dovetti lasciarmi improvvisamente alle spalle le amicizie più strette. Di come per anni e anni ero stato considerato diverso dagli altri, di come piangevo di notte e stavo in silenzio di giorno. Ma ora Seneca mi aveva dato una missione, ora non volevo più sprecare un solo giorno.

Avevo avuto un curriculum scolastico indegno di mio padre, eppure terminai l’università in un tempo record. Galli mi parlò del pool di magistrati antimafia istituito in Sicilia. Fu allora che udii per la prima volta il suo nome: Giovanni Falcone, un nome che faceva pensare alla caccia con il falcone, mi si era rivelato. Cambiai abbigliamento, riposi in un baule la mia divisa da punk duro e puro riempita ad arte di tagli e mi infilai in un completo di Gianni Versace, con il quale feci l’esame di Stato. Indossai lo stesso vestito anche all’esame di dottorato, in cui i miei genitori si tenevano per mano, la mamma si asciugava le lacrime alla coda dell’occhio e il petto di mio padre sembrava staccarsi dal corpo e uscirne fuori. Paolo si fissava le scarpe annoiato e mi lanciava sguardi pieni di odio: anche lui l’avevano costretto a infilarsi in un abito. Violetta, invece, l’avevo fatta contenta, perché aveva sfruttato senza vergogna l’occasione per farsi rifare il guardaroba dai nostri genitori. A differenza di Paolo, che stava seguendo le orme della mia pubertà, si era decisa per lo stile poco simpatico dei paninari: fun, fun, fun and no brain.

Il professor Galli conosceva Rocco Chinnici dai tempi dell’università. Era stato lui a creare il pool antimafia per la lotta a Cosa Nostra. Un anno prima, nel luglio del 1983, Chinnici era caduto vittima di un’autobomba. Galli mi consegnò una lettera di raccomandazione in cui si ricordava del suo vecchio amico. Per il dottorato mio padre mi aveva regalato la mia prima auto, una Fiat Uno che aveva solo un anno. Avrei desiderato un’altra auto, più slanciata, più scattante, ma mia madre non lo permise. Muoiono troppi giovani sulle strade italiane. Se avesse saputo che stavo per iniziare a lavorare in Sicilia mi avrebbe comprato un’auto blindata. Muoiono troppi uomini…

Falcone non riuscii a vederlo di persona. Stava lavorando agli atti del processo a Tommaso Buscetta, che poco tempo prima aveva infranto la regola dell’omertà. Le sue confessioni avevano dato molto da fare al pool antimafia. Si dovevano emettere mandati di arresto, rintracciare persone e interrogarle. Io condividevo la stanza con un investigatore che brontolava sempre e farfugliava tra sé e sé in palermitano stretto. Sbrigavamo un sacco di scartoffie, battevamo a macchina verbali senza fine, su vecchie macchine da scrivere con i nastri a colori ormai logori. Inoltrai una domanda di acquisto di una macchina da scrivere elettrica, ma fu respinta. I soldi servivano per cose più importanti. Così me la comprai con le mie finanze: una macchina con la testina rotante e il nastro per le correzioni – adoravo il nastro per le correzioni.

E poi improvvisamente eccolo lì in piedi nella nostra stanza, con il viso rotondo, i baffoni, l’abito un po’ spiegazzato. Gli eroi sono spesso meno alti di quello che si pensa. Cercava il mio collega, che stava lavorando su uno dei nastri di Buscetta.

La volta successiva me lo trovai di fronte in un momento cruciale. Falcone e il suo amico Paolo Borsellino stavano istruendo un processo. Un processo che né la Sicilia, né l’Italia né il mondo intero avevano mai visto. Tutti dovevano comparire. Tutti. Avevamo i nomi, ci servivano solo le confessioni e, non da meno, le prove. Falcone invitò tutta la squadra a una festa dove tenne un discorso. Io trattenevo il respiro, ero entrato a far parte di qualcosa di grande, lo sentivo.

Falcone si sedette a ogni tavolo, anche al nostro. Mi chiese chi fossi e dove lavorassi. Notò subito che non ero di Palermo. Gli raccontai delle mie origini. Mi disse di venire nel suo ufficio il giorno dopo. Poi si spostò al tavolo successivo e quando andò via quattro uomini si alzarono e lo seguirono.

L’appuntamento era alle dieci. Avevo indossato il completo di Versace, mi aveva sempre portato fortuna. Falcone stava sfogliando una copia del “Corriere della Sera”, la lanciò verso di me, c’era un articolo cerchiato in rosso. Erano alcuni casi non risolti di rapine in banca in Alto Adige. Io diedi una scorsa al primo paragrafo e mi appoggiai allo schienale. Falcone mi consigliò di tornare in Alto Adige. Io non capivo, lui mi spiegò meglio. In ogni cosa il fattore decisivo sono i soldi. Se volevamo neutralizzare la mafia dovevamo interrompere i suoi flussi di denaro, perché erano quelli a tenerla in vita. Su scala più grande si trattava di banche, riciclaggio di denaro sporco, il che non si poteva effettuare senza l’aiuto della politica e dell’economia. Su scala più piccola si trattava di combattere la criminalità. Per la mafia i bravi rapinatori di banche erano interessanti tanto quanto per l’industria questi specialisti di elaborazione dei dati di cui si parlava tanto in quel periodo. Io sospirai. Falcone si piegò in avanti, mi guardò negli occhi e mi gettò in faccia un nome: Mala del Brenta. Negli anni Settanta i vecchi siciliani si erano dati da fare alla ricerca di nuove fonti di denaro e, non a caso, le avevano trovate nel ricco nord. Si erano insediati là, sul fiume Brenta, e ora cercavano di iniettare nuova linfa nei vecchi traffici. Quanto più spazio avessimo lasciato ai mafiosi, tanto meglio loro lo avrebbero sfruttato. Sulla strada del successo raccoglievano i piccoli criminali e li facevano diventare complici, amici, persone che dovevano loro un favore. “Ma”, e qui i baffi di Falcone tremarono, “stia in guardia. Quella gente è pericolosissima, sono considerati particolarmente brutali.”

Deglutii e tirai di nuovo il giornale verso di me. La banda sospettata di aver alleggerito di alcuni milioni di lire una banca di Molini di Tures e altre agenzie era quella di un certo Max Leitner.

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