Kitabı oku: «Le stragi delle Filipine», sayfa 14
Le bande passarono come un fiume impetuoso dinanzi alla colonna e si dileguarono in mezzo ai boschi, lasciandosi dietro una lunga fila di morti e di moribondi orribilmente calpestati. Una gran parte dei tagali e dei chinesi, anzi i piú, che si trovavano con Hang e con Romero, invasi pure da quel pànico, li avevano seguiti, malgrado le grida e le minacce dei capi.
Era finita. Le truppe spagnuole, ancora una volta vittoriose, avevano abbattuta la bandiera della libertà che ondeggiava sulle trincee di S. Nicola, ed erano rimaste assolute padrone del campo.
L’insurrezione era stata domata sulle rive dello Zapatè, senza speranza che potesse risorgere.
Hang-Tu e Romero, vedendo che ormai tutto era perduto e che ogni resistenza sarebbe stata vana, si erano pure ripiegati verso l’uscita della valletta, per rivarcare il fiume prima che le brigate del valoroso ed audace generale tagliassero la ritirata.
La loro colonna era quasi del tutto sfumata. Attorno a loro non erano rimasti che sei meticci, tre tagali, un chinese e la valorosa Than-Kiú.
Percorsero al galoppo la valletta, salutati da parecchie scariche che gettarono a terra un meticcio ed un tagalo e si diressero frettolosamente verso il fiume, sperando colà di trovare alcune bande di fuggiaschi, ma rimasero delusi.
I difensori di S. Nicola, invece di attraversare lo Zapatè per tentare di guadagnare Cavite, la sola località ove ancora si combatteva con fortuna da parte degl’insorti, si erano dispersi fra le foreste e le montagne. Cercare di raggiungerli per riordinare la resistenza, non vi era neppure da pensare. Sarebbero state necessarie parecchie settimane ed in quel frattempo le vittoriose bande spagnuole avrebbero avuto il tempo per batterle e ribatterle.
– Non vi è nulla da tentare qui, – disse Romero ad Hang-Tu. – Lo Zapatè e Pamplona sono perduti per sempre.
– Lo temo, – rispose il chinese, con un sospiro. – Hang-Tu legge talvolta nell’avvenire.
– E lo ha veduto fosco?
– Sí, Romero.
– L’insurrezione però non è ancora spenta, Hang. Cavite, Bulacan, Bacoor, Malabon, Rosario, Noveleta e Santa Cruz sono ancora in mano dei patriotti e resistono sempre.
– Ma le truppe della vecchia Spagna – rispose Hang, – sono agguerrite e valorose, Romero. Anch’io, al principio dell’insurrezione aveva una grande fiducia nelle nostre bande, ma lo vedi in che modo esse combattono? Contiamo troppe sconfitte e ben poche vittorie. Orsú: in acqua o gli spagnuoli ci piomberanno ancora alle spalle. Al di là del fiume non avremo piú da temere, ora che anche la seconda brigata si trova a S. Nicola.
Spinsero i cavalli nel fiume ed avendo trovato un guado, raggiunsero felicemente la riva opposta, tagliando l’impetuosa corrente quasi in linea retta.
Hang-Tu, volendo frapporre fra la sua minuscola banda e le truppe spagnuole una distanza considerevole, tale da non poter venire sorpresa, quantunque fossero tutti stanchi, continuò la marcia gettandosi verso le montagne che formano la vallata del fiume.
Voleva raggiungere un posto elevato e affatto deserto per concedere alcuni giorni di riposo a Romero, prima di tentare la pericolosa e lunga marcia verso Cavite.
Nel pomeriggio, avendo trovato un luogo adatto per accampare, dava il segnale della fermata.
Capitolo XXIII. LE TRISTEZZE DEL «FIORE DELLE PERLE»
Il luogo scelto dal chinese per concedere a Romero ed anche alla valorosa Than-Kiú un riposo d’alcuni giorni, e per lasciare al primo il tempo di guarire completamente, non poteva essere migliore.
Era la cima d’una montagna tronca, la quale formava una piccola spianata, difesa all’intorno da enormi macigni e coi fianchi coperti da foltissime foreste, le quali promettevano copiosa selvaggina, cosa necessarissima, poiché il piccolo drappello si trovava affatto sprovvisto di viveri, avendo tutto perduto nella disastrosa ritirata.
Di lassú i fuggiaschi potevano dominare un vastissimo tratto di paese ed una parte del corso dello Zapatè e quindi osservare anche le mosse delle due brigate del generale Lachambre e prevenire qualsiasi sorpresa, nel caso che qualche compagnia di soldati avesse avuto l’intenzione di snidarli.
Fu subito decisa la costruzione d’una capanna per ripararsi dai cocenti raggi del sole e dall’umidità della notte.
Prima che il sole tramontasse, i cinque meticci, aiutati dai due tagali e dal chinese, aveva costruito il ricovero, un capannone di frasche e di rami d’albero, incapace assolutamente di proteggerli contro le palle degli spagnuoli, ma sufficiente per ripararli dalle intemperie.
Quella sera dovettero accontentarsi per cibo di alcuni banani trovati nella foresta e di alcuni aranci, magro conforto pei loro stomaci che dal mattino non avevano ricevuto nemmeno un biscotto.
Quantunque non vi fosse da temere alcuna sorpresa da parte degli spagnuoli, i quali non erano stati veduti a ripassare lo Zapatè, e non avessero da paventare pericoli da parte degli abitanti della foresta, non essendovi alle Filippine fiere capaci di assalire un uomo, all’infuori dei serpenti pitoni e dei coccodrilli che ordinariamente si tengono nelle bassure e nelle terre inondate, Hang-Tu dispose dei quarti di guardia, volendo essere minutamente informato delle mosse del generale Lachambre. Gli premeva conoscere la direzione che avrebbero presi gli spagnuoli per regolarsi sulla via che avrebbe dovuto tenere per giungere sulle sponde del mare senza paura d’incontrarli.
Quella prima notte, sulla cima di quell’alta montagna, passò tranquilla e tutti poterono rimettersi dalle lunghe fatiche sopportate nei precedenti giorni.
Da parte degli spagnuoli nulla era stato notato. Pareva che non si fossero ancora mossi da S. Nicola per accorrere ad ingrossare le truppe del generale Polavieja, operanti contro Cavite.
L’indomani alcuni meticci si cacciarono nei boschi per cercare di abbattere qualche capo di selvaggina, mentre i tagali andavano in cerca di frutta e di miele, avendo osservato, durante la marcia del giorno precedente, che numerose erano le api selvatiche in quei dintorni.
Gli uni e gli altri furono abbastanza fortunati, poiché prima del mezzodí ritornavano portando con loro due scimmie lar, quadrumani alti ottanta centimetri, col pelame grigio-nero, la faccia nerissima cinta da una fascia di peli bianchi che dà loro un aspetto dei piú bizzarri e le natiche nude e rosse; un gatto pescatore, un bell’animale lungo ottantacinque centimetri e alto quaranta, dal pelame grossolano con sfumature di varie tinte e strisce oscure, robusto, selvatico, che vive presso i torrenti ed i fiumi, distruggendo grandi quantità di pesci, di uccelli e serpenti e assalendo qualche volta perfino i bambini.
Avevano inoltre abbattuti parecchi volatili e raccolto parecchi chilogrammi di miele squisitamente profumato, nonché un bel numero di banani, di grossi aranci, di deliziosi ananassi e di manghi.
Avevano anche tentato di raggiungere un branco di grossi cinghiali che erano stati scorti in mezzo ad alcune folte macchie ed anche una coppia di cervi, ma senza riuscirvi. Si ripromettevano però di tornare l’indomani per cercare di abbatterne qualcuno.
Durante la giornata Hang-Tu si mantenne quasi costantemente in osservazione sulla cima della piú alta roccia, per sorvegliare le mosse delle due brigate spagnuole. Aveva già veduto alcuni battaglioni lasciare S. Nicola e allontanarsi lungo la riva opposta dello Zapatè, come se mirassero a scendere verso Pamplona.
Verso sera, altri li avevano seguiti prendendo la medesima direzione e ciò lo rassicurava, poiché tenendosi al di qua del fiume era certo di poter giungere sulle sponde del mare senza incontrarli.
– Se fra una settimana sei guarito, con una rapida marcia possiamo giungere in vista di Cavite, – disse a Romero, che lo aveva raggiunto su quell’alto osservatorio.
– Possiamo partire anche prima, – rispose il meticcio. – La mia ferita non mi dà quasi alcun disturbo.
– No, – disse il chinese. – A Cavite avremo molto da fare e le fatiche potrebbero inasprire la ferita e farti ricadere ammalato quando avremo maggior bisogno di te. Non c’è fretta. La piazza è ben munita e bene armata e terrà testa agli spagnuoli per molto tempo ancora, malgrado il bombardamento della flotta.
– Vi sono delle bande valorose?…
– Le migliori, Romero, e quasi tutte formate da meticci e da tagali che prima militavano fra le truppe coloniali della Spagna. Vi sono anche buoni cannoni e le munizioni devono abbondare ancora.
– Chi comanda le vostre forze?
– Andrea Bonifacio coi suoi fratelli ed Aguinaldo, tutti capi valorosi ed intelligenti, quantunque siano gelosi gli uni degli altri.
– Assumeremo noi la difesa della piazza, cosí sopprimeremo le loro gelosie.
– A Cavite, già prima della nostra partenza da Manilla, erano stati spediti varii corrieri per annunciare a quei capi la decisione dei comitati segreti, cioè di affidare a noi la direzione suprema delle operazioni guerresche. Forse di giorno in giorno ci attendono.
– Speriamo di poter resistere a lungo e costringere le truppe spagnuole a lasciare la penisola.
– Temo che sarà difficile, Romero, specialmente ora che il Lachambre andrà, colle sue truppe, a rinforzare il generale Polavieja e forse a prendere la direzione della campagna.
– Forse che il Polavieja sta per cedergli il comando supremo delle forze spagnuole? – chiese Romero, stupito.
– Da alcuni uomini delle bande ho udito che il Polavieja non si trova piú in grado di dirigere le operazioni militari, in causa del suo male di fegato che lo fa soffrire assai e che gl’impedisce di montare a cavallo.
– E gli succederebbe certamente il Lachambre.
– Sí, e questo vale l’altro, per nostra disgrazia.
– O li avremo tutti e due attorno a Cavite, – aggiunse Romero, come parlando a se stesso.
– Forse, – rispose Hang, che si era alzato. – Vedi bene che anche il baluardo dell’insurrezione, stretto fra una cerchia di ferro e di fuoco, non potrà resistere a lungo. Ormai, in questa provincia, non ci sono piú bande capaci di scacciare gli spagnuoli dalla penisola.
– È vero, ma se Cavite dovrà cadere, andremo a rianimare le bande che combattono a Malabon ed a Bulacan.
– Se potremo sfuggire alla cerchia di ferro. M’ingannerò forse, ma il cuore mi dice che la caduta di Cavite sarà fatale a qualcuno di noi due.
– E sia, – disse Romero. – Io mi sono gettato in mezzo all’insurrezione per cercarvi la morte.
– Sei giovane ancora per morire e potresti un giorno diventare ancora felice. Per me è un’altra cosa: non amo nessuno, fuorché la libertà, la patria, mentre tu hai delle persone che ti amano.
– Che importa, quando la donna che amo non potrà diventare mai mia? – disse Romero, con tristezza.
– Tu pensi alla donna bianca!… – esclamò Hang-Tu, mentre la sua fronte si abbuiava. – La si dimentica.
– Teresita?
– Vi è un’altra che ti ama e forse piú della fanciulla bianca.
– Lo so… Than-Kiú, – mormorò il meticcio con un sospiro. – Perché il destino l’ha spinta sui miei passi?…
– Perché dici questo? – chiese Hang, con voce sorda.
– Perché sento che non potrò mai amarla, finché vi sarà Teresita… eppure…
– Continua.
– Meriterebbe bene l’amore mio. Quanta affezione in quella valorosa fanciulla!… Ed invece le spezzerò il cuore, mentre le devo la mia vita e quella del maggiore d’Alcazar.
– E non potrai mai amarla?…
– Sí, ma come sorella.
– Non le basterà, – disse Hang, i cui occhi diventavano tetri.
– Lo so, ma la fanciulla bianca mi ha stregato, Hang, e non potrò mai dimenticarla. Che vuoi?… È il destino che cosí esige.
– È vero – mormorò Hang. – sempre il destino. Than-Kiú morrà infelice.
– Ma tu? – chiese ad un tratto Romero, volgendosi verso il chinese. – È una fanciulla della tua stessa razza, è bella, è ardita e tu sei prode e forte.
– Ebbene? – chiese Hang coi denti stretti, incrociando le braccia.
– Che t’impedirebbe di farla felice?…
– Io! – esclamò il chinese – Hang-Tu non lo potrà mai.
– Ma chi te lo impedirà?…
Hang-Tu aveva aperte le labbra come se volesse dargli una pronta risposta, ma poi le rinchiuse convulsivamente e con tanta forza, che i denti stridettero, quindi s’allontanò a lenti passi, scendendo attraverso i boschi della montagna. Parve a Romero che egli fosse in preda ad un’estrema commozione e credette che si fosse allontanato per sottrarsi a qualche nuova interrogazione.
– Vi è qualche mistero nella vita di Hang-Tu – mormorò il meticcio – e forse riguarda anche Than-Kiú. Potrò io un giorno saperlo?…
Scosse tristemente il capo e s’alzò per ritornare alla capanna. Alla base della roccia vide la giovane chinese, la quale era seduta su di un macigno, cogli sguardi malinconicamente fissi sulla luna che allora sorgeva all’orizzonte, rossa come un disco di metallo incandescente.
Udendo i passi di Romero, Than-Kiú si scosse, poi si rialzò dicendo:
– Vieni, mio signore. L’umidità della notte non fa bene ai feriti.
Il meticcio, che era diventato pensieroso, non parve che l’avesse udita, perché invece le chiese:
– Hai veduto Hang?…
– Sí, rispose la fanciulla, quasi distrattamente. – Mio… sí, l’ho veduto scendere la montagna.
– Mio… Cosa volevi dire, Than-Kiú?
La fanciulla udendo quella domanda, trasalí, poi seguitò, ma con un certo imbarazzo:
– Volevo dire mio signore. Forse che non ti ho sempre chiamato cosí?…
– Sí, fanciulla.
Poi si era incamminato verso la capanna che sorgeva in mezzo alla spianata, senza aggiungere parola. Than-Kiú lo aveva seguito, ma dopo alcuni passi si era arrestata, dicendo con voce dolce:
– Il mio signore sta male forse?… Mi sembri triste e preoccupato.
– È l’insurrezione che mi preoccupa, Than-Kiú, – rispose Romero.
La giovanetta gli aveva messo una mano sulla spalla e lo aveva fermato, guardandolo attentamente in viso.
– No, – diss’ella, dopo alcuni istanti. – Le labbra non dicono ciò che tormenta il tuo cuore, o mio signore.
– E che vuoi che lo tormenti?…
– La donna bianca, – rispose la fanciulla, con voce tremula.
– È cosí lontana, Than-Kiú!…
– Ma tu pensi a lei.
– Non parlarmi di Teresita, fanciulla. Quel nome fa male a te.
– È vero, mio signore. Il Fiore delle Perle, che non trema fra gli orrori delle battaglie, impallidisce quando ode il nome della donna bianca.
– Taci, fanciulla.
– La donna bianca porterà sventura alla donna del fiume Giallo. Poi prendendo Romero per una mano e indicandogli una fulgida stella che scintillava sulla linea dell’orizzonte, continuò:
– Guardala, mio signore, come brilla la stella della Perla di Manilla. Sono tante sere che io la guardo e la vedo sorgere sempre piú vivida, e noi, crediamo agli astri.
– Follíe, Than-Kiú.
– No, mio signore. Guarda invece la mia stella che segue quella della donna bianca. La sua luce pallida tremola sempre come se dovesse spegnersi da un istante all’altro. Quando sarà giunta sopra il mio paese morrà e quel dí morrà pure la figlia del paese del sole.
La voce della fanciulla si era spenta in un singhiozzo.
– Ebbene, che importa? – proseguí, ma con una voce cosí lieve che pareva un lontano lamento. – Il mio signore non m’amerà mai, ma Than-Kiú non rimarrà a lungo infelice. La terra dei suoi padri sta laggiú, dalla parte ove il sole tramonta e Hang trasporterà nel giardino dei fiori il corpo del Fiore delle Perle, all’ombra dei lillà e della grande cupola a scaglie di ramarro. La morte non la teme, Than-Kiú: ben venga.
La sua voce si era spenta in un secondo singhiozzo e Romero vivamente commosso, aveva attirato verso di sé la disgraziata giovanetta, dicendole:
– Tu sei infelice, mia povera Than-Kiú, ma credi tu che io sia felice?… T’inganni, fanciulla!… Il tuo cuore sanguina, ma anche il mio soffre: tu ti lamenti, ma anch’io non sono lieto: tu ami senza speranza ed io, credi che ne abbia?… Tu non potrai mai sapere quanto io abbia sofferto per la fanciulla bianca, che l’insurrezione mi ha strappata. Siamo due infelici, Than-Kiú, percossi da un’implacabile destino: ecco tutto.
– Ma tu ami la donna bianca.
– Sí, l’amo è vero, e se dovessi morire, il mio ultimo pensiero sarebbe per lei e per … te, che amo come una sorella, ma che avrei voluto amare come mia sposa.
– Mio signore!… – esclamò Than-Kiú. – Tu mi avresti amata?…
– Sí, coraggiosa fanciulla.
– Ma la Perla di Manilla non è ancora tua!
– Ma io l’amo, Than-Kiú.
– Ma se ella morisse?…
– Romero guardò la fanciulla: era trasfigurata. I suoi lineamenti cosí gentili, cosí dolci, velati sempre da una nube di malinconia, erano diventati fieri, mentre una fiamma cupa animava quegli occhi.
– Se il destino la uccidesse?… – chiese la giovane chinese con voce sibilante.
– Than-Kiú, mi fai paura! – esclamò Romero. – Io leggo nei tuoi occhi un triste disegno.
La fanciulla non aveva risposto. Si era coperta il viso fra le mani e si era lasciata cadere lentamente al suolo, come se un gelido vento avesse piegato a poco a poco quel rigoglioso fiore del paese del sole.
– No, – la udí a mormorare poco dopo Romero, con voce soffocata dai singhiozzi. – Il mio signore pure morrebbe. Il Fiore delle Perle non potrebbe mai prendere il posto della Perla di Manilla. Fatalità!…
Romero si era curvato su di lei per rialzarla, ma prima che le sue mani l’avessero toccata, la fanciulla si era raddrizzata con uno scatto selvaggio.
– L’umidità della notte può far male al mio signore, – disse, con un tono di voce che pareva tranquillo, ma nel quale si sentiva una profonda rassegnazione. – Le ferite s’inaspriscono.
Si avviò verso il capannone dinanzi a cui vegliava uno dei meticci, attese che Romero entrasse, poi si sedette dinanzi alla porta avvolgendosi nel suo mantello di seta bianca e posato il capo fra le mani piú non si mosse.
Verso mezzanotte anche Hang-Tu ritornava al campo. Era ancora cosí preoccupato, che non s’avvide di Than-Kiú.
Chiese all’uomo di guardia se nulla di nuovo fosse accaduto, poi si sdraiò all’aperto, accanto al fuoco che era stato acceso dietro alcune enormi rocce, affinché non potesse venire scorto dagli spagnuoli, che potevano ancora trovarsi accampati sulle rive dello Zapatè.
Capitolo XXIV. FRA COCCODRILLI E SERPENTI
Tre giorni dopo, cioè il 21 marzo, la piccola banda lasciava definitivamente il rifugio, per tentare di giungere a Cavite.
Romero, ormai completamente guarito dalla ferita riportata durante la ritirata da Salitran, era in grado di prendere vigorosamente parte all’estrema lotta che si doveva combattere nel piú forte baluardo dell’insurrezione, contro le truppe riunite dei generali Polavieja e Lachambre.
La piccola banda, durante quei sei giorni passati sulla montagna, aveva potuto radunare delle provviste sufficienti per attraversare la distanza che la separava dalle rive del mare, senza essere costretta a ripiegarsi sui villaggi, i quali ormai dovevano essere tutti occupati dagli spagnuoli. Essendo riusciti, i tagali ed i meticci, ad uccidere un piccolo cignale, avevano seccata parte della carne al sole, una ventina circa di chilogrammi, e questi potevano bastare per alcuni giorni.
Per maggiore fortuna, quasi tutti gli spagnuoli che avevano preso parte all’assalto di S. Nicola, già da quattro giorni erano partiti, seguendo il corso dello Zapatè. Era quindi certo Hang, tenendosi sempre sulle montagne, di poter attraversare il paese senza venire inquietato.
Scesa la montagna, Hang-Tu aveva guidato i compagni attraverso a certe vallate selvagge e boscose, ma che si dirigevano verso il nord, seguendo due aspre catene di monti. Uno dei tagali, pratico del paese, gli si era messo vicino per le necessarie indicazioni.
Pareva che la guerra non avesse lasciata alcuna traccia in quelle vallate. Probabilmente nessun combattimento era colà avvenuto, essendo lontane da qualunque centro popoloso.
Alberi maestosi e antichissimi coprivano i fianchi dei burroni e delle montagne, spingendosi a grandi altezze, abitati solo da numerose bande di scimmie che volteggiavano fra i rami, salutando i cavalieri con grida scordate o con latrati piú o meno acuti. Si vedevano giganteggiare i tek dal legno durissimo, spingendo le loro cime a cinquanta e piú metri dal suolo, i laureti cubilaban dai quali si ricava un olio aromatico ricercatissimo, gruppi di papayer, di tornasoli, d’alcanti, di ebani verdi, di legno del ferro, cosí chiamati perché le loro fibre sono cosí resistenti da far rimbalzare le scuri piú affilate: di superbi cocchi dalle grandi foglie piumate, di latanieri, di tamarindi, di frangipani e d’alberi della cassia, formando tutti insieme delle vere foreste, forse non ancora calpestate da alcun uomo bianco.
È incredibile la feracità del suolo di quelle isole. Tutte le piante siano d’origine indo-malese od europea vi allignano facilmente, anzi dànno maggior copia di frutta che in qualunque altro paese. Un solo tubero non ha mai potuto svilupparsi su quelle terre, un tubero che può invece crescere in qualunque altra regione del globo e senza la menoma difficoltà, ossia la patata.
La fauna non mancava di essere rappresentata entro quelle tranquille vallate. Bande di cervi e di cignali si vedevano fuggire attraverso i pendii, nascondendosi entro le piú cupe macchie e anche non pochi serpenti fuggivano all’avanzarsi dei cavalieri e fra quelli qualcuno anche di quei pericolosi rettili chiamati pitoni tigri, lunghi oltre trenta piedi e dotati di tale forza, da stritolare fra le loro spire perfino un bue.
In alto invece svolazzavano bande di kokatoe bianche col capo adorno di un pennacchio color rosa-pallido, di pappagalli dalle penne variopinte, di tortorelle verdi e di certi uccellacci chiamati calao delle foreste, mentre in riva ai torrenti, che scendevano i pendii scrosciando, si vedevano non pochi trampolieri col dorso verde, il ventre giallo e la coda azzurra e talvolta qualcuno di quegli strani volatili chiamati tabau, quali hanno talvolta l’abitudine di seppellire le uova in terra, lasciando al calore del sole la cura di schiuderle, né piú né meno come fanno i coccodrilli ed i caimani.
La piccola banda a mezzodí fece una fermata di alcune ore in fondo ad una cupa vallata, dove crescevano alcune palme di cocco già cariche di noci e alcuni alberi del pane, la cui frutta poteva somministrare una pasta tenera, dolciastra, somigliante per gusto a certe specie di zucche.
Alle quattro pomeridiane Hang-Tu si riponeva in marcia, seguendo altre vallate, solcate nel mezzo da piccoli corsi d’acqua che pareva si dirigessero tutti verso il mare e tutti ricchissimi di certi pesciolini esili, i quali costituiscono, per quelle isole, un vero flagello, specialmente durante la stagione delle piogge.
Straripando i corsi d’acqua, le uova di quei pesciolini si disperdono dappertutto e dopo pochi giorni si ritrovano i piccini in tutti i luoghi, ove regna anche solo l’umidità. Invadono perfino i pozzi ed i serbatoi corrompendo le acque e se ne trovano in grandissimo numero perfino nelle cantine, nei sotterranei delle chiese ed anche nelle tombe.
Il paese, che la piccola banda percorreva, era sempre selvaggio, coperto di antichissime foreste, ma non disabitato del tutto, poiché di quando in quando, sui fianchi delle montagne, vedevano alzarsi colonne di fumo e si udiva a rullare l’avitam, specie di tamburo adoperato dagli indigeni per accompagnare i mapaganit, ossia cantori di professione che girano pei villaggi.
Degli spagnuoli però non si vedeva alcuna traccia, segno evidente che le popolazioni di quelle vallate, forse ancora mezzo selvagge, non avevano abbracciata la causa della libertà, preferendo rimanersene tranquilli nei loro villaggi.
Alla sera la banda si accampava sui fianchi boscosi d’una montagna, la quale pareva altissima. Hang-Tu avrebbe voluto scalarla per vedere se di lassú poteva scorgere il mare, ma temendo di smarrirsi dovette rinunciarvi.
Il giorno seguente la piccola carovana entrava in una cupa vallata ingombra di piante acquatiche ed interrotta qua e là da paludi, le cui acque stagnanti esalavano miasmi che potevano produrre febbri pericolose.
Essendo chiusa fra alte montagne dai fianchi tagliati quasi a picco, assolutamente inaccessibili agli animali, ed irte di enormi piante che crescevano quasi orizzontalmente, una mezza oscurità regnava entro quell’umido vallone.
Hang-Tu non sapeva dove terminasse, ma vedendo che si dirigeva verso il nord, ossia in direzione del mare, credette bene d’inoltrarsi. Procedeva però con prudenza, temendo che quelle piante acquatiche e quei pantani nascondessero dei serpenti e dei coccodrilli.
I suoi timori dovevano in breve venire confermati, poiché mentre stava attraversando un banco di sabbia e di fango tenacissimo in parte sommerso, ad un tratto il suo cavallo s’arrestò, mandando un nitrito di spavento.
– Che vi siano delle sabbie mobili? – si chiese Hang-Tu. – Non c’è da fidarsi di questi terreni.
Spronò l’animale per costringerlo a raggiungere un macchione di canne, ma il destriero, invece di avanzare, cercò di retrocedere, manifestando un vivo terrore.
– Hang-Tu, che cosa succede? – chiese Romero, che gli stava a breve distanza.
– Non lo so, ma se il mio cavallo è spaventato deve avere i suoi motivi, – rispose il chinese.
– Affondato nel fango?…
– Non mi pare.
– Torna indietro; faremo il giro dall’altra parte.
– La via non sarà migliore, Romero.
Spronò per la seconda volta e piú forte di prima, ma invece di obbedire il cavallo s’inalberò cosí bruscamente, che per poco il chinese non fu sbalzato di sella.
– Dannazione!… – urlò Hang.
Furioso per quella scossa, stava per piantare gli speroni nel ventre dell’ostinato animale, quando vide uscire dal macchione sette od otto orribili rettili, i quali gli si precipitavano incontro colle grandissime mascelle aperte.
Era una banda di coccodrilli, formidabili mostri, lunghi dai sei ai sette metri, coi corpi corazzati da scaglie ossee d’un tale spessore da far rimbalzare le palle dei migliori fucili e con certe bocche lunghe un buon metro e armate di denti lunghi e solidi quanto l’acciaio.
Hang-Tu era coraggioso, ma nel vedersi dinanzi quei rettili impallidí:
– Badate!… – gridò ai compagni. – Sono ben piú terribili degli spagnuoli!…
Aveva armato rapidamente il fucile, ma prima che lo avesse puntato, un coccodrillo, il capo banda, aveva avventato un tale colpo di coda al cavallo, da spezzargli le gambe anteriori, come se fossero due semplici stecchi.
Il povero animale cadde bruscamente sulle ginocchia, sbalzando il cavaliere tre metri piú innanzi, in mezzo al fango. Romero e Than-Kiú avevano mandato un urlo di terrore, credendo che Hang-Tu fosse perduto, ma il valoroso chinese si era prontamente alzato, tenendo ancora in pugno il fucile.
Vedendosi dinanzi due coccodrilli aveva scaricato l’arma fra le mascelle aperte del primo fracassandogli il palato, poi estratta rapidamente la catana, con un coraggio disperato si era scagliato contro il secondo, tempestandolo di colpi cosí terribili, da costringerlo alla fuga.
Romero intanto e gli altri tutti, scesi precipitosamente di sella, si erano gettati contro i cinque altri, i quali ormai avevano assalito il cavallo del chinese, stritolandogli la testa e le gambe.
Scaricarono le armi, poi impugnati i fucili per la canna, si misero a percuotere furiosamente i musi dei superstiti, per costringere quei ributtanti e feroci mostri a rientrare nella macchia.
Un meticcio, vedendo che uno di essi, invece di retrocedere cercava di gettarsi addosso agli altri cavalli, lo inseguí sparandogli contro una fucilata, ma la palla rimbalzò sulle grosse scaglie senz’altro risultato che di irritare maggiormente il rettile, il quale rispose con un colpo di coda.
Il meticcio che si trovava proprio dietro, colpito in pieno petto, fu scaraventato sei passi lontano.
Hang-Tu, che aveva veduto ogni cosa, si era precipitato in soccorso del disgraziato, ma ormai era troppo tardi. Il meticcio era morto sul colpo. La potente coda del mostro gli aveva sfondato il petto, fracassandogli le costole e perfino la spina dorsale.
Il rettile, vedendosi dinanzi quel secondo avversario, cercò d’investirlo, ma Romero ed i suoi compagni, che erano riusciti a fugare gli altri, furono lesti ad accorrere e con tre o quattro fucilate ben dirette lo abbatterono.
– Grazie, Romero, – disse Hang-Tu, porgendo la mano al meticcio. – Grazie compagni.
– Sei ferito? – chiese Than-Kiú che era ancora pallidissima.
– No, – rispose Hang, – ma se non avessi avuta la mia fedele catana, credo che gli uomini gialli non avrebbero piú avuto contare sul loro capo.
– E quel povero uomo?…
– Non ci rimane che seppellirlo.
– Ecco un altro valoroso perduto – disse Romero. – Tutti finiscono cosí, in questa disgraziata campagna.
– Capo, – disse in quel momento un tagalo, che si era avanzato vero il banco di sabbia. – Non è prudente fermarci qui. Vedo le piante acquatiche muoversi in diversi luoghi e temo che vi siamo altri coccodrilli.
– E stanno per assalirci, – aggiunse un meticcio.
– Prendiamo il nostro povero compagno onde non serva di pasto a quegli schifosi sauriani e affrettiamoci a cercare un altro passaggio, – rispose Hang.
– Ma il tuo cavallo è perduto, – disse Than-Kiú.
– Mi resta quello del morto.
Afferrò il cadavere del meticcio e abbandonò precipitosamente il banco di sabbia, dirigendosi verso la parte opposta della valle, dove sperava di trovare, sul fianco della montagna, un passaggio migliore.
Si ritrovavano in buon punto, poiché altri dieci o dodici coccodrilli erano usciti dal macchione di piante acquatiche, scagliandosi sul cavallo del chinese che stava spirando sul banco di sabbia.
Qualcuno dei piú arditi cercò d’inseguire i cavalieri, ma alcuni colpi di fucile li costrinsero ad arrestarsi.
Giunti ai piedi della montagna, su di un terreno scoperto e roccioso, i cavalieri sostarono per dare sepoltura al povero meticcio, poi s’allontanarono frettolosamente, ansiosi di abbandonare quell’umida valle, non volendo passare la notte con quei vicini cosí pericolosi e probabilmente molto affamati.
Hang-Tu, che era salito dietro a Than-Kiú, aveva raccomandato ai compagni di tenere le armi pronte, avendo scorto, in mezzo alle piante acquatiche, altri gruppi di sauriani. Pareva che in quel luogo si fossero rifugiati tutti i rettili della vallata dello Zapatè, tanto erano numerosi.
Il drappello ora s’avanzava tenendosi proprio sotto il fianco della montagna, che talvolta era tagliato a picco, il passaggio si abbassava a livello dei terreni paludosi, serpeggiando fra le piante acquatiche ed i coccodrilli vi si potevano radunare.