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Kitabı oku: «Le stragi delle Filipine», sayfa 15

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Piú d’uno infatti di quei rettili, attirato dal rumore che producevano i cavalli, si mostravano presso il terreno, ma Hang-Tu ed i suoi compagni si affrettavano a salutarlo con una tempesta di palle, le quali, qualche volta riuscivano offensive, malgrado le scaglie impenetrabili che corazzavano quei mostri.

Ma pareva che anche altri ospiti pure pericolosi si celassero fra le piante e fra gli acquitrini, poiché dall’alto del sentiero il drappello aveva veduto contorcersi anche numerosi serpenti, per lo piú lunghi boa e pitoni, rettili che in quelle isole dell’arcipelago Filippino raggiungono dimensioni esagerate, essendosene uccisi di quelli che misuravano perfino ventisei o vent’otto piedi, ossia piú di nove metri.

Quei serpenti non sono velenosi, ma come fu detto, posseggono una tale forza da stritolare fra le loro viscose spire non solo gli uomini piú robusti, ma perfino dei cavalli e dei buoi.

Durante tutta la prima giornata il drappello continuò ad inoltrarsi in quella vallata, sparando colpi di fucile per tenere lontani quei numerosissimi rettili, e verso il tramonto s’accampava in una seconda vallata molto piú ampia della prima, ingombra bensí di piante, ma priva di paludi e quindi anche di coccodrilli.

Essendo tutti stanchissimi, dopo una parca cena s’affrettarono a coricarsi sopra ad alcuni fasci di fresche erbe, al riparo d’una fronzuta felce. Avevano però radunata una catasta di legna secca per mantenere acceso il fuoco durante la notte e scelti gli uomini di guardia, non per tema degli spagnuoli, ma dei serpenti che non dovevano mancare anche in quella seconda vallata.

La notte pareva che dovesse trascorrere tranquilla, poiché fino al penultimo quarto di guardia nessun allarme aveva svegliato gli uomini. Verso l’alba però, Hang-Tu e Romero, che riposavano l’uno accanto all’altro, venivano bruscamente svegliati da una vigorosa scossa, seguíta da una voce che pareva atterrita:

– Non mandate nessun grido, od è perduta!…

I due capi, stupiti e spaventati, avendo subito compreso che si trattava di Than-Kiú, non essendovi con loro nessun’altra donna, si erano prontamente alzati coi fucili in mano, ma senza pronunciare una parola.

Dinanzi a loro, nascosto dietro il tronco della felce, stava un tagalo, l’ultimo del quarto di guardia. Il povero indigeno era grigiastro, ossia pallidissimo ed i suoi occhi manifestavano un terrore impassibile a descriversi.

– Che cos’hai?… – chiese Hang-Tu, con un filo di voce.

– Capo, balbettò il tagalo, battendo i denti – Than-Kiú da un momento all’altro può venire stritolata.

– Da chi?… – chiesero Romero ed Hang, con angoscia.

– Da un pitone che le si è aggomitolato vicino, forse per godersi il tepore del fuoco.

Romero aveva fatto atto di slanciarsi verso la giovane chinese, ma Hang-Tu lo aveva trattenuto, dicendogli:

– Non commettiamo imprudenze; vediamo prima.

Tenendo in mano i fucili armati i due capi fecero il giro della grande felce e gettarono uno sguardo su Than-Kiú.

La giovanetta dormiva profondamente, avvolta nel suo ampio mantello di seta bianca, col capo appoggiato ad un braccio, il quale serviva come di guanciale. Accanto a lei, a tre o quattro passi dal fuoco, i cui tizzoni stavano per spegnersi, Hang e Romero videro arrotolato un enorme serpente, un pitone che doveva misurare almeno otto metri di lunghezza e grosso quanto la coscia d’un uomo.

La testa dell’immondo rettile si era dolcemente appoggiata su un lembo del mantello della giovane, sicché se essa si fosse svegliata, avrebbe pure interrotto il sonno del pericoloso vicino.

La posizione del Fiore delle Perle era spaventosa. Al primo movimento che avesse fatto, il rettile non avrebbe tardato ad avvolgerla fra le sue potenti spire e stritolarla.

Hang e Romero si erano fermati, entrambi pallidissimi ed indecisi. Fare fuoco non osavano, poiché le palle potevano colpire la giovanetta ed avvicinandosi temevano di svegliare il pitone e precipitare la catastrofe.

D’altronde bisognava affrettarsi, poiché l’alba stava per spuntare ed i cavalli potevano, da un istante all’altro, alzarsi rumorosamente.

– Hang, che cosa facciamo? – chiese Romero, con terribile ansietà.

– Lascia il fucile e impugna la sciabola, mentre io sfodero la catana, – rispose il chinese, che aveva conservato il suo sangue freddo. – Le armi da taglio sono migliori e piú sicure contro quei rettili.

– Lo assaliamo?…

– Sí, ma non facciamo rumore. Finché Than-Kiú rimane coricata non può venire presa fra le spire del pitone, ma se si sveglia e si alza, allora è perduta. Avanti e silenzio.

Impugnando uno la sciabola e uno la catana, s’avanzarono silenziosamente, in punta di piedi, cogli sguardi fissi sul serpente, pronti a scagliarsi su di lui.

Già non distavano che quattro o cinque passi, quando uno dei cavalli fece udire un nitrito sonoro.

Il rettile, svegliato bruscamente, alzò la testa, ma nel fare quella mossa, colle sue ruvide squame, urtò il bel viso di Than-Kiú.

Un grido era sfuggito ad Hang, vedendo che la giovane stava per alzarsi:

– Non muoverti!…

Poi i due uomini si erano scagliati innanzi, colle armi alzate.

Il pitone, avvedutosi del pericolo, aveva svolte precipitosamente le spire e si era raddrizzato piú di mezzo, mandando sibili di rabbia. Vedendo presso di sé la chinese, vi si precipitò sopra cercando di stringerla fra le potenti anella, ma Than-Kiú, quantunque si sentisse urtare dalle scaglie del rettile, non si era mossa. La valorosa giovane, al pari di Hang, sapeva che finché rimaneva a terra aveva la possibilità di sfuggire alla morte.

Hang e Romero con un ultimo balzo furono addosso al mostro. Questi, con una rapida mossa sfuggí al colpo di catana del primo e cercò di avvolgere fra le spire il meticcio, passandogli la coda fra le gambe per fargli perdere l’equilibrio, ma aveva trovato degli avversari degni di lui.

Romero, con un salto si era sottratto a quel colpo di coda ed aveva risposto con una sciabolata, ma la lama, forse mal diretta, era rimbalzata sulle scaglie del rettile. Hang-Tu però si era slanciato in soccorso dell’amico, scagliando sulla testa del pitone un tal colpo di catana, da fracassargliela.

La lotta non era tuttavia ancora finita. Quantunque cosí mutilato e sanguinante, il mostro cercava ancora di assalire e di stritolare i suoi avversari. Si dibatteva con furore avvolgendo e svolgendo le spire e balzando ora a destra ora a sinistra, ma altri avversarii accorrevano.

I meticci ed il tagalo, svegliatisi, avevano afferrato i fucili, e mentre gli uni strappavano Than-Kiú, due o tre altri avevano scaricate le armi e le palle non erano andate perdute.

La sciabola di Romero e la catana del chinese terminarono di uccidere il formidabile rettile in piú pezzi.

– Per Buddha e Fo!… – esclamò Hang, asciugando l’arma insanguinata. – Se non ci affrettiamo a lasciare queste vallate, finiremo per lasciare le ossa.

– Than-Kiú, – disse Romero, avvicinandosi alla giovane chinese, – quanto ho tremato per te! Fanciulla, sei una valorosa e nessun’altra donna avrebbe resistito a simile prova senza morire di spavento.

– Than-Kiú non voleva morire e non si mosse, – rispose la giovane chinese. – Grazie del tuo soccorso, mio signore.

– A cavallo, – comandò Hang. – sospiro il momento di lasciare queste selvagge vallate.

Il drappello si rimise in sella e lasciò frettolosamente quell’accampamento che per poco non diventava fatale al gentile Fiore delle Perle ed ai due capi dell’insurrezione.

Tutto quel giorno ed anche il seguente, salvo brevi fermate per prendere un po’ di riposo e allestire i pasti, Hang-Tu ed i suoi compagni marciarono fra monti e valli, e verso il mezzodí del terzo, un meticcio che li aveva preceduti per cercare un passaggio in mezzo una gola, ritornava al galoppo annunciando la vicinanza del mare.

Tutti s’affrettarono ad attraversare la gola e giunti all’estremità s’arrestarono, spingendo lontano gli sguardi.

Capitolo XXV. IL «PADEWAKAN» DI HANG-KAI

A sei o sette miglia, l’azzurra superficie del mare scintillava sotto i raggi del sole, rinchiusa fra la rocciosa costa formata dagli ultimi declivi delle montagne ed una penisola appariva verso l’ovest, la quale terminava in due branche abbastanza allargate.

Alcuni punti biancastri, forse delle vele, si scorgevano qua e là, mentre verso l’est, la costa, che s’abbassava gradatamente, si vedeva tagliata da due corsi d’acqua che si svolgevano, fra il verde pallido delle piantagioni e il verde cupo delle foreste, come due grandi nastri d’argento.

Hang-Tu e Romero avevano subito concentrata tutta la loro attenzione su quella penisola e precisamente verso la branca piú vicina, sulla quale si scorgeva un gruppo di punti biancastri, mentre piú oltre, guardando piú attentamente, si vedevano dei punti nerastri galleggianti al largo.

– Cavite!… – esclamarono entrambi.

– Sí, Cavite è di fronte a noi, – confermarono gli uomini della piccola banda.

– E quei punti neri sono le navi che l’assediano, – aggiunse Hang.

– E quella massa bianca che spicca all’estremità della seconda penisola, è il forte che difende la baia di Manilla, – aggiunse Romero.

– Guarda, Romero, – disse Hang, che aveva voltato le spalle al mare. – Vedi tu Imus, che sorge laggiú presso il fiume?…

– Sí, e piú oltre scorgo anche Las Pinas.

– Taci!…

Una lontana detonazione era echeggiata sul mare e si era ripercossa, con un lungo fragore, fra le vallate delle montagne.

– Il cannone, – disse Hang.

– La flotta che riprende il bombardamento contro Cavite, – rispose Romero.

– Buon segno.

– Perché, Hang?

– Ciò indica che la piazza resiste sempre.

– Non lo dubitavo.

– Ed io avevo il timore che il Polavieja l’avesse costretta ad arrendersi, assalendola dalla parte di terra.

– Hang, – disse Than-Kiú, che si era spinta piú innanzi, fino al lembo estremo di una rupe. – scorgo alcune case presso la spiaggia, dietro a quella linea di scogliere.

– Andremo a trovare quegli abitanti. Probabilmente sarà un villaggio di pescatori malesi e quegli arditi marinai non avranno alcuna difficoltà a sbarcarci a Cavite.

– Ma la flotta?

– La inganneremo. Di notte una barca può passare senza venire scoperta.

– Avviciniamoci a quelle case con precauzione però, – disse Romero. – Gli spagnuoli possono averci lasciati alcuni soldati per sorvegliare gli abitanti.

– Si vedrebbero dalle tende, mentre non ne scorgo alcuna. Ripartiamo, amici; sono impaziente di avere notizie sui progressi dell’insurrezione.

Risalirono a cavallo e si rimisero in cammino scendendo gli ultimi contrafforti delle montagne, ma essendo i declivi assai rapidi impiegarono molto tempo e non giunsero a quel piccolo villaggio che un’ora prima del tramonto.

Si componeva di un gruppetto di otto o dieci casupole appena abitabili, costruite con pochi pali e foglie di palma.

La gioia di Hang-Tu e di Romero fu grande, quando appresero che era un posto d’insorti incaricato di mantenere le comunicazione fra la penisola di Cavite e la costa, per rifornire di armi e di munizioni la piazza assediata. Era comandata da un uomo già ben conosciuto dai due capi dell’insurrezione, dal meticcio chinese Hang-Kai, un capo che fin dal principio dell’insurrezione si era acquistata una bella fama pel suo coraggio da leone.

Hang-Kai, condottili nella sua capanna, li mise subito al corrente delle notizie della guerra che si combatteva attorno alla vasta baia di Manilla.

Gl’insorti di Cavite resistevano sempre malgrado il bombardamento della flotta; anzi il 14 marzo avevano respinte vittoriosamente le truppe spagnuole comandate dal colonnello Salcede, che avevano tentato di assalirli dalla parte della penisola. La piazza era ben fornita di munizioni e difesa da grandi trinceramenti, che gli obici delle cannoniere non riuscivano a distruggere.

Anche Malabon, quantunque continuamente bombardata, non aveva ceduto, e del pari resistevano gl’insorti di Noveleta, di Rosario e di Bulacan, sebbene questi ultimi fossero stretti da vicino dalle truppe del generale Jaramillo.

Cattive nuove invece erano giunte da Paranaque, dove l’insurrezione era stata vinta. Si diceva che molte bande si erano sciolte per ottenere l’indulto assieme alle loro famiglie e che anche le bande di Marion Duque, fuggite dopo la rotta di Salitran, si erano pure disperse, non avendo trovato aderenti fra gli abitanti dei paesi che avevano attraversato.

Si diceva inoltre che il generale Lachambre aveva ripresa la marcia per assalire Binacayan, Noveleta e Cavite, le sole località tenute dagl’insorti nella provincia di Cavite.

Tutte quelle notizie erano in generale migliori di quanto Romero ed Hang s’aspettavano. Disgraziatamente, Hang-Kai ne aveva aggiunta un’ultima per loro gravissima; da quattro giorni, la flotta spagnuola, accortasi che gli assediati di Cavite, tenevano relazioni cogli abitanti delle vicine coste e che da quelli ricevevano soccorsi di munizioni e d’armi, aveva stretto il blocco, rendendo impossibile un approdo dinanzi alla città.

Hang-Tu e Romero si erano guardati in viso con inquietudine. Quella stretta vigilanza della flotta, scombussolava interamente i loro progetti.

– Vediamo, – disse Hang-Tu, dopo alcuni istanti di silenzio. – Credi assolutamente impossibile deludere la vigilanza delle cannoniere?… con una piccola barca che abbia le vele dipinte di nero?…

– Verreste presi e colati a fondo, – rispose Hang-Kai. – Ho tentato due notti di seguito di attraversare lo stretto per sbarcare a Cavite alcune casse di munizioni ed ho dovuto ritornarmene sotto il fuoco della squadra.

– Ciò è grave, – disse Hang-Tu. – Cavite era la nostra meta.

– Credo che la vostra presenza sarebbe piú utile altrove, – continuò Hang-Kai. – Qui l’insurrezione non potrà durare a lungo e compiangeremo presto la sorte che toccherà ai difensori di Cavite e di Noveleta.

– Che cosa vuoi dire?

– Che le due città non tarderebbero a cadere.

– E che cosa ci consiglieresti di fare? – chiese Romero.

– Di recarvi presso le coste orientali e settentrionali della baia. Il centro dell’insurrezione non è piú al sud di Manilla, ma a Bulacan e a Malabon. Là, anche vinti, potreste continuare la campagna, mentre a Cavite non vi rimarrebbe piú nessuno scampo.

– Forse hai ragione, Hang-Kai, – disse il chinese, – ma Cavite è vicina, mentre Malabon e Bulacan sono lontane.

– Non si tratta che di attraversare la baia.

– Ma vi è la flotta.

– Si può tenersi al largo dalle punte estreme della penisola e passare inosservati.

– Ma anche dinanzi a Malabon vi è una squadra di cannoniere.

– Non lo credo e poi la via di terra è ancora libera e sbarcando ad otto o dieci miglia dalla cittadella, si potrebbe raggiungerla senza correre pericolo. Aggiungi inoltre che Manilla non è che a poche miglia e vincendo a Malabon si potrebbe portare la guerra sotto le mura della capitale.

– Credo che tu abbia ragione, – disse Romero.

Hang-Tu alzò gli occhi guardandolo, come se avesse voluto leggere il pensiero del meticcio, ma tosto li riabbassò dicendo:

– Sí, Manilla non è che a due passi e là batte il cuore della Spagna, ma avrei preferito andare a difendere Cavite.

Poi aveva girato lentamente gli occhi su Than-Kiú, che stava seduta in un angolo della capanna. La fanciulla si era lentamente alzata ed era diventata pallidissima: pareva che il solo nome di Manilla fosse bastato per produrre su di lei una penosa impressione, una vera angoscia. Romero di nulla si era accorto, poiché aveva ripreso il discorso con Hang-Kai, dicendo:

– Quando credi che potremmo partire?…

– Questa notte, dopo il tramonto della luna. Il vento che soffia dal sud spingerà dei vapori attraverso la baia e l’oscurità sarà completa.

– Hai una solida barca?…

– Ho un padewakan macassarese, che fila come una rondine marina anche quando il vento non è forte. È armato con due grosse spingarde e montato da arditi marinai.

– Romero, – disse Hang-Tu, – sei deciso a recarti a Malabon?…

– Dipenderà dal blocco, – rispose il meticcio, – ma credo ora, Hang-Tu, che sia meglio abbandonare Cavite alla sua sorte.

– Tanto piú che forse dai capi sareste male ricevuti, – aggiunse Hang-Kai. – Andrea Bonifacio ed Aguinaldo si disputano il comando supremo delle bande.

– Abbiamo udito parlare dei dissensi di quei due capi, – disse il chinese. – Orsú, è deciso: la causa dell’insurrezione ci chiama a Malabon piuttosto che a Cavite e ci andremo. La patria, innanzi a tutto.

– Allora possiamo prepararci a partire, – disse Hang-Kai, alzandosi. – Prima che il padewakan sia qui, saranno necessarie due ore e allora la luna si sarà nascosta dietro le montagne.

– Dove hai il veliero? – chiese Romero.

– Nascosto alla foce d’un fiumicello, per sottrarlo alle ricerche degli spagnuoli. Verrò ad imbarcarvi qui.

Il meticcio era uscito a rapidi passi, chiamando alcuni de’ suoi uomini ed erasi allontanato verso l’ovest, seguendo le sinuosità della spiaggia.

Anche Hang-Tu e Romero, erano usciti dirigendosi verso la riva, seguiti a breve distanza da Than-Kiú.

La notte era calata da qualche ora e come aveva previsto Hang-Kai, prometteva di diventare molto oscura. Il vento del sud, che soffiava fresco, aveva spinto sopra l’ampia baia di Manilla grandi strati di vapore, i quali diventavano rapidamente densi, coprendo la luna e le stelle.

Verso l’ovest, ossia in direzione della penisola di Cavite, si vedevano parecchi punti luminosi che si riflettevano sulla cupa superficie del mare con vaghi tremolii, bianchi gli uni e rossi e verdi gli altri. Dovevano essere i fanali di posizione della flottiglia spagnuola, bloccante la piazza degli insorti.

Formavano un grand’arco, le cui estremità toccavano la spiaggia di Cavite.

Di quando in quando, presso uno di quei lumi, si vedeva balenare un vivido lampo, seguito da una fragorosa detonazione. Era il cannone che faceva udire la sua possente voce.

Gli spagnuoli bombardavano la piazza anche di notte, per impedire agl’insorti di rialzare le trincee demolite durante il giorno dagli obici.

Altre volte invece, uno sprazzo di luce candida, abbagliante, rompeva improvvisamente le tenebre e scorreva rapidamente pel mare, illuminando per parecchie miglia, poi bruscamente si spegneva.

– Lo vedi, – disse Romero ad Hang-Tu. – La flotta veglia attentamente e proietta la luce elettrica a grandi distanza, per impedire qualsiasi sbarco.

– Lo vedo, – rispose il chinese, che pareva assai contrariato.

Poi soggiunse con un sospiro:

– Ecco un’altra catastrofe che si prepara. Anche Cavite ha i giorni contati.

– Ci rimarrà il cuore dell’isola, e là, su quei monti, si può ancora organizzare una lunga e disperata resistenza, Hang, – disse Romero.

– Ce lo dirà il destino, – mormorò il chinese.

I due capi dell’insurrezione si erano seduti uno accanto all’altro, seguendo distrattamente i fasci luminosi, che le navi bloccanti Cavite continuavano a proiettare sul mare e le linee di fuoco degli obici, che le cannoniere scagliavano contro le trincee degl’insorti. Anche Than-Kiú si era coricata presso di loro, ma i suoi occhi guardavano altrove, verso oriente, dove sulla linea fosca dell’orizzonte si vedeva brillare ad intervalli un punto luminoso indicante il faro di Manilla.

Verso le undici, quando già la luna e le stelle furono scomparse dietro le nubi accumulatesi sopra la baia e l’oscurità era diventata profondissima, il padewakan di Hang-Kai si ormeggiava dinanzi alla spiaggia.

– La notte è propizia, – disse il meticcio al chinese, sbarcando. – Il vento soffia forte e prima dell’alba noi saremo a Malabon. Affrettiamoci a prendere il largo.

Hang-Tu, Romero, la giovane chinese e la loro piccola banda salirono a bordo, portando con loro le armi, essendovi molte probabilità di doverle adoperare. Le funi furono tosto ritirate ed il piccolo veliero prese prontamente il largo spiegando tutte le vele.

Quel padewakan era una vera barca da corsa. Questi lesti velieri che si costruiscono nei cantieri di Macassar, e che sono molto usati in tutto l’arcipelago delle Filippine, somigliano ai prahos malesi, ma sono forse meglio resistenti ed anche piú rapidi. Pescano poco, sono lunghi dieci o dodici metri, ma hanno una superficie enorme di vele che permette loro di raggiungere delle velocità straordinarie, anche quando soffiano delle brezze leggere.

Veduti ad una certa distanza, assomigliano ad immensi farfalloni volteggianti sulla cima delle onde, poiché il loro scafo è cosí basso che non lo si può quasi vedere ad una distanza di due o tre miglia.

Hang-Kai, che doveva essere un abilissimo marinaio, per meglio ingannare le crociere spagnuole aveva fatto dipingere le gigantesche vele del suo padewakan di nero, onde non si potessero distinguere fra le tenebre, a stivare e perfezionare lo scafo, per poter affrontare impunemente i furiosi venti che soffiano su quell’arcipelago in certe epoche e sfuggire a quelle trombe marine chiamate baguyos, che imperversavano durante i due monsoni.

Per di piú le aveva equipaggiate con una ventina di malesi, marinai impareggiabili ed all’occorrenza valenti soldati, ed armato con due grosse spingarde per potere, nel caso, difendersi contro le cannoniere.

Il piccolo veliero si era gettato subito sotto la costa per tenersi piú lontano che poteva dalla penisola di Cavite, ma attendeva di aver oltrepassato il faro del forte per slanciarsi in mezzo alla baia e muovere direttamente al nord, passando dinanzi alla foce del Passig.

Hang-Kai sapeva che nelle acque della capitale piú nulla aveva da temere, fino nei pressi di Malabon.

Il padewakan filava rapido come una rondine marina, tenendosi a circa mezzo chilometro dalla spiaggia per evitare i bassifondi.

Aveva messo la prora verso la borgatella di Las Pinas, la cui lanterna si distingueva nettamente verso l’est.

Hang-Tu, Romero e Than-Kiú, appoggiati al coronamento di poppa, tenevano d’occhio i fanali della flottiglia spagnuola, i quali si spostavano, come se le cannoniere eseguissero delle perlustrazioni intorno alle due estreme punte della penisola. Di tratto in tratto un riflettore elettrico lanciava un grande sprazzo di luce dinanzi alle spiagge di Cavite, illuminando le trincee erette dagl’insorti, seguito poco dopo da un colpo di cannone.

Qualche volta invece la luce elettrica veniva proiettata sul mare facendo scintillare come flutti d’argento, le onde, ma lo sprazzo luminoso non giungeva fino al padewakan, il quale si teneva sempre presso la costa.

Alla mezzanotte, dopo tre o quattro bordate per evitare alcuni banchi di sabbia, il piccolo veliero si trovava all’altezza della seconda penisoletta, sulle cui estremità sorgeva il forte spagnuolo.

Alcuni lumi scintillavano ai piedi della fortezza e scorrevano rapidissimi. Parevano appartenere a torpediniere incrocianti presso le spiagge.

– Stiamo in guardia, – disse Hang-Kai ad Hang-Tu ed a Romero. – Quelle rapide barche sono montate da gente assai curiosa e poi posseggono certi terribili istrumenti, da far saltare in aria anche una grossa giunca.

– Temi che si spingano fin qui? – chiese Hang.

– Mi hanno inseguito piú volte al largo ed una notte sfuggii loro per un puro caso. Credevo ormai che il mio padewakan saltasse con tutti noi. Là!… Ve lo dissi io, che sono montati da marinai troppo curiosi.

Uno di quei lumi si era staccato dalla costa e si era spinto al largo, come se avesse intenzione di tagliare la via al piccolo veliero. Gli uomini che montavano quella torpediniera o barca a vapore che fosse, non dovevano però averlo ancora scorto, poiché navigava senza fanali. Probabilmente eseguiva una ricognizione a caso.

– Al largo!… – comandò Hang-Kai. – Quattro uomini, i migliori puntatori, alle spingarde.

Il veliero si allontanava rapido. Ma anche la torpediniera filava come una freccia e se avesse dovuto continuare la corsa non avrebbe tardato a raggiungerlo. Fortunatamente, dopo di aver percorso due miglia o tre, furono veduti i fanali virare di bordo e allontanarsi in direzione di Cavite.

– Il primo pericolo è passato, – disse Hang-Kai, respirando. – Attendiamo il secondo dinanzi a Malabon.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
310 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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