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Kitabı oku: «Le stragi delle Filipine», sayfa 2

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Non vi era nessun mobile, nemmeno una semplice sedia di bambú, ma invece negli angoli si vedevano degli enormi fasci d’armi: carabine indiane, fucili a retrocarica di provenienza europea e di varii sistemi, pistole e rivoltelle, sciabole, catane giapponesi taglienti come rasoi, parangs del Mindanao, pugnali, coltellacci, kriss e perfino delle spingarde di grosso calibro.

– Mi attenderai qui, – disse Hang-Tu a Romero.

– Una domanda, prima.

– Parla.

– Dove mi trovo?

– Nella sede delle due società segrete chinesi Giglio d’acqua e Lotus bianco.

– Ho udito parlare di queste potenti società.

– Sai che hanno abbracciata la causa dell’insurrezione?…

– Lo ignoravo.

– Te lo dico ora.

– Ma che cosa vogliono da me?…

– Esse rappresentano in Manilla l’insurrezione.

– Che cosa vuoi concludere?…

– Che devi giurare a loro fedeltà e poi…

– Continua, – disse il meticcio, vedendo che il chinese si era arrestato.

– Poi ti eleggeranno comandante delle forze degli insorti che guerreggiano nella provincia di Cavite.

– Io, capo?…

– Lo si vuole.

– E contro chi dovrò battermi?…

– Lo deciderà la sorte.

Il meticcio rialzò vivamente il capo, che aveva tenuto fino allora chino sul petto, e guardò il chinese, ma questi aveva un aspetto tranquillo e i suoi occhi nulla tradivano.

– Attendimi, – disse finalmente Hang-Tu, che aveva sopportato quell’esame, senza che un muscolo del suo volto giallastro trasalisse.

S’avvicinò ad una porta di legno di tek che si scorgeva all’estremità della sala sotterranea e battè tre colpi su di una lastra di metallo, un gong. Le vibrazioni argentine del disco non erano ancora cessate, che la porta si aprí, richiudendosi tosto, ma senza far rumore, dietro le spalle del chinese.

Romero era rimasto immobile in mezzo la sala, porgendo attento orecchio a vaghi rumori che provenivano dalla parte ove il suo compagno era scomparso. Pareva che dietro la robusta porta di tek, un grande numero di persone bisbigliassero.

Ad intervalli regolari echeggiava come un lontano fragore d’armi, ma subito si spegneva ed il bisbiglio misterioso tosto ricominciava.

Senza dubbio, nei sotterranei della casa, d’aspetto sinistro, si teneva una riunione numerosa, per discutere sui mezzi piú adatti per sopprimere le truppe spagnuole o si tramava qualche audace colpo di mano contro la popolazione bianca di Manilla, per strappare il formidabile baluardo ai dominatori.

Cinque minuti erano appena trascorsi, quando Hang-Tu rientrò dicendo:

– Vieni, Romero: i fratelli ti attendono.

Capitolo III. LE SOCIETÀ SEGRETE DEI CHINESI

Il meticcio, udendo quelle parole, aveva provato, senza sapere il perché, un fremito. Non aveva paura di affiliarsi a quelle misteriose sette importate dalla China e che ora avevano dato le loro ricchezze e le loro forze pel trionfo della libertà delle Filippine; non tremava per le terribili punizioni che infliggono agli uomini, anche lontanamente sospetti della loro fedeltà agli statuti sociali: non temeva le arti segrete di Hang-Tu per strappargli dal cuore la passione per Teresita, pure non si sentiva tranquillo varcando la porta che doveva metterlo in presenza dei membri delle potenti associazioni.

Sentiva vagamente che un pericolo misterioso lo circondava, ma senza sapere quale.

Attraversata la sala, il chinese lo introdusse in un nuovo corridoio che pareva scendesse ancora, poi lo fece passare sotto una strana vôlta formata da otto enormi clave sorrette da otto chinesi, da otto membri dell’associazione.

Subito due altri chinesi s’impadronirono di Romero, gli tolsero la casacca e la camicia gettandogli addosso un manto di seta bianca, ma che lasciavagli scoperta la spalla destra.

Perché la cerimonia dovesse essere completa, avrebbero dovuto sciogliergli la coda, come prescrivevano gli statuti sociali del Giglio d’acqua, del Lotus bianco e del Tien-Tai, ossia della Società del Cielo, della Terra e dell’uomo, come protesta del servaggio dei chinesi contro l’imposizione dei Mantsciuri conquistatori, ma essendo Romero un meticcio, questo particolare fu lasciato da parte avendo i capelli alla moda europea.

Ciò fatto, Hang-Tu introdusse l’amico in un’ampia sala dove si trovavano raccolti un centinaio e piú affiliati , parte chinesi, altri malesi, tagali e meticci, forse i capi piú influenti del partito insurrezionale di Manilla. Erano tutti armati di sciabole, o di catane o di parangs, le cui lame d’acciaio finissimo scintillavano vivamente, sotto la luce d’una mezza dozzina di grandi lanterne di talco.

Hang condusse il meticcio ad una estremità della sala dove sorgeva un piccolo padiglione detto dei Fiori Rossi, perché le tende che l’adornavano erano dipinte a peonie color del sangue, e preso un bacino di porcellana azzurra di Ming, ripieno d’acqua raccolta nel fiume chinese di Siam Ho, spruzzò replicatamente il neofita.

Tosto i cento uomini, che si trovavano colà radunati, si schierarono su due file, ed alzarono le armi formando come una vôlta d’acciaio.

Hang fece passare Romero sotto le lame fiammeggianti e minacciose, poi, giunto nel mezzo, lo fece inginocchiare su di un cuscino di seta cremisi, mentre otto spade si puntavano sulla spalla nuda del nuovo affiliato, facendo uscire alcune gocce di sangue.

– Sono morti i tuoi parenti? – gli chiese Hang, che funzionava da grande maestro.

– No, – rispose il meticcio, con sorpresa.

– Devi giurare che sono morti, – disse il chinese con voce solenne, – cosí vogliono i nostri statuti.

– Lo giuro.

– Ripetilo.

– Lo giuro.

Un lampo di gioia balenò negli occhi obliqui di Hang.

– Tu hai giurato, – gli disse, – questa formula significa che non puoi piú riconoscere alcun legame terrestre e che devi rinunciare a tutto per darti, corpo ed anima, alle nostre società che qui rappresentano l’indipendenza delle Filippine.

Il meticcio, udendo quelle parole, fece atto d’alzarsi, ma le punte delle otto spade l’obbligarono a rimanere in ginocchio. Aveva compreso che quella formula stava per costargli la perdita della fanciulla amata ed aveva pur compreso dove l’aveva tratto l’astuto chinese.

– Hang, – mormorò.

– Per l’indipendenza della patria, – rispose il chinese, che lo aveva ben capito.

Romero chiuse gli occhi e chinò il capo. La libertà della patria gli rubava l’affetto di Teresita.

Un affilato aveva intanto recato un vaso di porcellana color del cielo dopo la pioggia, contenente dell’avarak ed aveva mescolato alla forte bevanda alcune gocce di sangue raccolte sulla spalla del meticcio.

– Bevi, Romero Ruiz, – disse Hang, porgendogli la coppa.

Il neofita la vuotò senza pronunciare una parola. Ormai era in piena balía di quegli uomini; ormai aveva dato il cuore e l’anima all’associazione.

– Romero Ruiz – continuò il chinese rialzandolo, mentre le otto spade venivano ritirate. – Sei nostro ed hai giurato di difendere la libertà delle isole contro i nostri secolari oppressori.

– Sí, – rispose il meticcio, a voce bassa, – ma mi hai schiantata l’anima.

Hang-Tu finse di non udirlo e se lo fece sedere a fianco, su uno scanno coperto di seta rossa fiorata, poi, mentre i congiurati formavano dinanzi a loro un ampi semi-cerchio, disse:

– S’introducano i corrieri.

Un istante dopo due malesi, un chinese ed un meticcio entravano. Tutti quattro erano cenciosi, magrissimi e portavano in volto le tracce di lunghe sofferenze. Pareva che fossero giunti di recente dai campi degli insorti, poiché le loro vesti erano ancora imbrattate di fango.

Hang-Tu fece avvicinare il meticcio, chiedendogli:

– Da dove vieni?…

– Dalle rive dell’Imus, capo, – rispose il corriere.

– Che cosa fanno gli spagnuoli?

– Si sono accampati presso Dasmarinas e pare che puntino verso Salitran.

– Chi li comanda?…

– I generali Lachambre e Cornell.

– E poi?…

– Il generale Zabalà presta loro mano forte col mag…

– Basta, – lo interruppe Hang-Tu, con vivacità. – Conosco l’altro. I patriotti hanno fortificato Salitran?…

– Lo credono inespugnabile.

– Lo sforzo del maggiore sarà contro Salitran adunque?

– Sí, capo. Tutte le colonne convergono sull’Imus.

Hang, con un gesto, lo invitò a ritirarsi e fece avanzare il chinese.

– Tu vieni? – gli domandò.

– Da Franquero.

– È vero che quella fortezza è caduta nelle mani degli spagnuoli?

– Il generale Jaramille l’ha espugnata il 16 febbraio.

– Da tre giorni! – esclamò Hang, con doloroso stupore. – E gli insorti?…

– Si ritirano sui monti combattendo.

– Maledizione!… E Pamplona?…

– È pure caduta, capo, – disse uno dei due malesi avanzandosi. – È stata occupata dal colonnello Barranquer dopo un vivo bombardamento che ha costato la vita ad un centinaio dei nostri.

– Tristi notizie! – disse Hang, con un sospiro. – Ed a Bocoor che cosa si fa?…

– Continua il bombardamento da parte della squadra spagnuola, ma i patrioti resistono sempre, – disse il secondo malese.

– E Cavite Vieja?…

– Tiene sempre testa agli spagnuoli.

– Ma oggi si diceva a Binondo che le popolazioni del fiume Zarate erano state domate. È vero?…

– Sí, capo, – risposero i due malesi, – ma gli uomini validi sono fuggiti e andranno a rinforzare le nostre bande.

– Hang-Tu si alzò e volgendosi verso i congiurati che conservavano un religioso silenzio, malgrado quelle cattive notizie recate dai campi dell’insurrezione, disse:

– Amici, gli oppressori stanno per darci forse un colpo mortale. Mentre Cuba resiste vittoriosamente ai reggimenti del generale Veyler sacrificando i suoi piú valorosi figli per l’indipendenza, noi che avevamo cominciato l’insurrezione con tanti successi, stiamo per essere vinti.

«Le tigri delle isole, gli antropoidi, come ci chiamano sdegnosamente questi uomini dalla pelle bianca, non devono perire. Pensate che siamo sette milioni, mentre essi non sono che tremila e che nelle nostre vene scorre il sangue di tante valorose razze e dei piú celebri predatori dell’arcipelago.

«Guerra a morte contro questi oppressori, contro questi orgogliosi bianchi che ci gettano in viso il loro disprezzo.

«Trionfano oggi, ma essi tremano, perché sanno che le tigri delle isole sfidano impavide la morte. A Bataan, a Laguna, a Cavite, a Pampanga, a Bulacan, a Malabon, a Noveleta si resiste ancora e non cederemo dinanzi né ai fucili, né ai cannoni spagnuoli.

«Conquistino pure le nostre città, ma ci rimarranno le selve e le montagne. Meglio la libertà delle fiere lassú o nei profondi recessi delle boscaglie che la schiavitú qui.

«Organizziamoci, amici. Io vi ho condotto un uomo che darà del filo da torcere agli spagnuoli, un uomo che pel primo ha dato il segno dell’insurrezione, che conosce gli uomini bianchi meglio di me e di voi tutti uniti, che ha studiato nella lontana Europa e che è il primo martire della libertà.

«Ruiz Romero, io capo delle associazioni del Lotus Bianco e del Giglio d’acqua e gran maestro del Tien-Tai, capo supremo degli insorti di nazionalità chinese, ti nomino capo supremo degli insorti della provincia di Cavite.

«Giura che tu difenderai fino all’estremo le nostre fortezze contro le quali puntano tutte le forze della Spagna; giura che tu combatterai contro qualunque comandante spagnuolo fosse pure tuo amico, fosse pure tuo parente. Giuralo, Ruiz Romero: la patria lo vuole».

– Lo giuro, – rispose il meticcio, che si sentiva come affascinato dagli sguardi ardenti del chinese che in quel momento erano fissi nei suoi.

– Sta bene: domani partiremo per recarci a difendere Salitran prima di tutto. – Poi volgendosi verso uno dei congiurati, chiese: – È tutto pronto?…

– Tutto, capo.

– L’ora?…

– Alle quattro.

– Il luogo?…

– Dinanzi la casa di Fang.

– Sgombriamo prima che possano sorprenderci.

In pochi momenti la sala sotterranea si vuotò. Non rimasero che il meticcio e Hang-Tu.

– Sei soddisfatto, amico? – chiese questi.

– Temo che tu abbia troppa fidanza sulle mie forze, – rispose Romero.

– No: io ti conosco, gl’insorti tutti ti apprezzano e desideravano il nostro ritorno. Tu sei di quegli uomini che posseggono una energia straordinaria e che possono esercitare una influenza grandissima sulle masse dei combattenti. Io ti ho collocato al tuo vero posto.

– Senza uno scopo segreto, Hang?…

– Chissà! – rispose il chinese, mentre le sua fronte s’increspava.

– Tu mi hai fatto nominare capo degli insorti della provincia di Cavite per allontanarmi da Teresita, è vero?…

– La Perla di Manilla, come chiamano qui la fanciulla bianca, poteva produrre piú male col suo affetto che gli spagnuoli colle loro armi, – rispose il chinese con voce grave. – Un capo all’insurrezione mancava per riordinare le proprie forze e solamente tu potevi esserlo.

«Perderai il cuore della fanciulla, ma forse renderai la libertà alle isole. Vedi bene, questa vale l’altro».

Romero non rispose, ma sospirò a lungo.

– Ti comprendo, – rispose Hang, dopo alcuni istanti di silenzio. – La Perla di Manilla ti aveva stregato e tu soffri.

– Sí, soffro, – rispose il meticcio, quasi con rabbia. – L’amor della patria è grande, ma il cuor che sanguina è un martirio atroce, Hang.

«Io maledico il giorno in cui i miei occhi s’incontrarono con quelli di Teresita, Hang!… Io vorrei non averla mai veduta sul mio cammino, o vorrei avere la forza di soffocare la passione nata nel mio cuore, questa fiamma che divora e che nell’esilio non si è spenta.

«La patria, la libertà!… Io l’amo questa terra che dovrebbe ormai essere nostra e per la quale tutto ho perduto, tutto ho sacrificato, ma tu non potrai mai comprendere, Hang, quanto sia pur grande l’affetto mio per quella fanciulla figlia dei nemici nostri.

«Orsú, si compia il mio triste destino e non se ne parli piú. La patria chiede il mio sangue, la mia vita e sia!…»

– Tu mediti la morte, Romero? – disse Hang nella cui voce ci era una accento di commozione.

– Che t’importa?… Credi tu che io possa essere felice, anche se tu mi hai fatto creare capo degli insorti?…

– Le vicende della guerra spegneranno la tua passione, Romero.

– Mai, Hang. Il mio martirio non cesserà se non quando io cadrò, spento dalle palle degli spagnuoli.

– Tu che potresti un giorno diventare il capo supremo delle nostre isole?…

– Sí, ma il cuore sarebbe allora morto.

– Maledetta bianca!…

– Taci, Hang.

– L’odio, quanto odio suo padre.

– Taci!… Taci!…

– E sia: vieni.

Il meticcio gettò il mantello di seta bianca, riprendendo le sue vesti; poi entrambi lasciarono la sala, riattraversarono il salotto ed il corridoio ed uscirono sulla viuzza oscura che era già tornata deserta.

Il chinese gettò un rapido sguardo a destra ed a sinistra, poi si mise in cammino, seguíto dal meticcio che era ricaduto nei suoi tristi pensieri.

Giunto all’estremità della via lanciò un fischio modulato, ma breve. Due uomini che si tenevano celati nell’angolo oscuro d’una casa, si fecero innanzi.

– È libera la via? – chiese Hang.

– Non vi è una sola guardia fino al quai del Passig, – risposero i due congiurati.

Hang riprese il cammino con Romero, inoltrandosi nelle luride stradicciuole del quartiere malese, ed un quarto d’ora dopo si trovavano sul molo di Binondo.

Non vi era alcuna persona a quell’ora. Solamente dinanzi al quai si scorgevano degli uomini che vegliavano sul ponte di alcune giunche cinesi e di alcuni prahos malesi, che avevano le vele spiegate, come se quelle navicelle fossero pronte a prendere il largo.

– Sono le undici, – disse Hang, arrestandosi. – Vuoi essere libero?

– È necessario, – rispose Romero.

– Sei deciso di recarti dalla Perla di Manilla?…

– L’ho promesso.

– Sta in guardia, Romero.

– Sarò forte.

– Possono capitarti brutte sorprese.

– Sono preparato a tutto.

– Sarai tentato, Romero.

– Sarò fedele ai miei giuramenti.

– Alla patria? – disse Hang, con voce grave.

– Alla patria, – rispose il meticcio, con voce soffocata.

– Sei armato?

– Che cosa debbo temere?

– Chissà?… il destino è talvolta cosí strano, te lo dissi già.

– Non temo nessuno.

– Bada che suo padre è qui.

– Se mi assale, mi difenderò.

– Rammentati che devi vivere per l’indipendenza delle isole.

– Non mi farò uccidere.

– Addio; a domani dinanzi alla casa di Fang, se non ci rivedremo prima.

– Vuoi seguirmi, forse?…

Hang non rispose. Si era calato sulla fronte il grande cappello in forma di fungo e si era allontanato rapidamente dirigendosi verso una giunca, il cui equipaggio stava per ritirare le gomene che la tenevano legata al molo.

– Andiamo, – mormorò Romero, avvolgendosi in un manto dai vivaci colori, che fino allora aveva tenuto sul braccio. – La terribile lotta sta per cominciare o per finire.

Aprí con un colpo secco una di quelle lunghe ed affilate navaje che usano gli spagnuoli e se la passò nella cintola, dove già stava celata la rivoltella che lo aveva cosí ben servito contro i moros e s’avviò lentamente verso il ponte di Binondo, per entrare nella Ciudad.

Capitolo IV. TERESITA D’ALCAZAR

L’arcipelago delle Filippine, su cui si svolse la sanguinosa insurrezione del 1896—97, quasi contemporaneamente a quella non meno tremenda di Cuba, è uno dei piú splendidi possessi che la Spagna abbia salvato dallo sfacelo delle sue tante numerose colonie.

Si compone di piú di cinquecento isole, ma due sole sono grandissime: Luzon che è la principale, vasta quanto il doppio e piú della nostra Sicilia, e Mindanao, di cui buona parte è ancora indipendente. Altre sette sono pure di grandezza considerevole: Palavan, Samar, Panai, Mindoro, Leité, Negros e Zebú. Le altre minori sono Bohol, Marsbate, Mactan, Marinduque, Burias, Calmina, Bassilan, Catanduanes, Pelillo, Babuiane, ecc.

Magellano, il grande navigatore che pel primo compí il giro attorno al mondo, fu il primo ad approdare su quelle terre, il 16 marzo del 1521; ma non poté sottoporle al dominio della Spagna, essendo stato ucciso sull’isola di Mactan mentre combatteva in favore del re di Zebú.

Vent’anni piú tardi, Villalobos vi sbarcava pure chiamando quelle isole Filippine; ma difettando le sue navi di viveri, si vide pure costretto ad abbandonarle senza aver fondata nessuna colonia.

L’onore di sbarcare i primi uomini bianchi doveva spettare a Michele Lopez de Legaspi, colà giunto intorno al 1561; ma l’onore della conquista di Luzon doveva toccare al nipote Salacedo, il quale, con un coraggio inaudito, alla testa di soli duecentocinquanta uomini, riusciva a debellare i principi tagali, donando alla patria una delle piú floride colonie.

La sua salita fu rapida, sorprendente, malgrado le acri discordie scoppiate fra i maestrati ed i prelati prima, fra il clero secolare e gli ordini religiosi dopo, e fra le varie fanterie piú tardi. In poco volgere d’anni, mercé l’emigrazione dei chinesi, artefici valenti e mercanti abilissimi, Manilla poté diventare uno dei piú ricchi emporii di quei mari con immenso vantaggio delle finanze spagnuole, le quali traevano da quella colonia ricchezze non inferiori a quelle che traevano dal golfo del Messico.

La dura oppressione dei conquistatori da un lato e le mire ambiziose del vicino impero chinese, non tardarono però a provocare sanguinose insurrezioni che sconvolsero, a piú riprese, quelle ricche isole, mettendo in pericolo la sovranità ispanica.

Sfuggite miracolosamente alla spedizione chinese del bandito Limacon, che nel 1574, con sessantadue navi, duemila pirati e millecinquecento donne aveva tentato di sorprendere Manilla, nel 1603 scoppia la prima insurrezione entro le mura della capitale.

Trentacinquemila chinesi fra mercanti ed agricoltori, istigati da messi dell’imperatore del Celeste Impero, alzano il vessillo dell’insurrezione.

Una donna tagala, maritata ad un chinese, svela ad un sacerdote la congiura, ma i ribelli non indietreggiano e trucidano gli avamposti spagnuoli.

Gli abitanti di Manilla di razza bianca comprendono il pericolo e si armano. Soldati, sacerdoti, frati, donne, fanno argine all’insurrezione e dopo una lotta sanguinosa riescono a domarla colla morte di ventitremila nemici.

Nel 1639, i chinesi spiegano per la seconda volta il vessillo dell’insurrezione e in quarantamila assalgono gli spagnuoli, ma sono nuovamente disfatti e solo settemila sfuggono alla strage orribile.

Da quelle due ribellioni, soffocate nel sangue e tramandate di padre in figlio, è nato l’odio fra la razza gialla e la razza bianca, odio conservato con pari ferocia e costanza, attraverso quasi tre secoli. I maltrattamenti degli oppressori da una parte, le ladrerie dei collettori che raddoppiavano o triplicavano a loro esclusivo vantaggio le tasse gravanti sui malesi e sui tagali, ed altre insurrezioni qua e là scoppiate e ferocemente soffocate, diedero in breve ai chinesi altri formidabili alleati; la razza olivastra e quella rossastra, i discendenti dei piú rapaci predatori dell’arcipelago sululano e dei nativi, dei primi proprietari del suolo.

La fusione di queste tre razze di colore, un tempo rivali e che crearono quei vigorosi e intelligenti sangue-misti chiamati meticci, sognanti costituzioni liberali, preparò le insurrezioni di questo secolo.

Nel 1824, nella capitale echeggia il primo grido di libertà. La rivolta delle colonie spagnuole d’America aveva avuto il suo contraccolpo anche nel lontano arcipelago, ed alcuni ufficiali spagnuoli, unitamente ad alcuni negozianti, avevano preparato la rivolta.

Erano pochi, ma animosi e si sapevano spalleggiati dalle razze di colore, anelanti di vendicarsi.

I ribelli s’impadronirono d’una porta della città, assalirono il palazzo del governo e uccisero il viceré; ma i vincitori del mattino, alla sera venivano oppressi dalle truppe rimaste fedeli alla bandiera spagnuola e tradotti al patibolo o mandati in esilio.

Alcuni anni piú tardi, un secondo tentativo non ebbe miglior fortuna, ed i patriotti finirono quasi tutti sotto le palle delle truppe e della popolazione bianca.

Il sangue di quegli insorti non era stato però sparso inutilmente. Le tre razze di colore, stanche di promesse non mantenute, di riforme male concepite, insofferenti del secolare disprezzo dei conquistatori e dell’orgoglio castigliano, ed incoraggiati dai successi degli insorti cubani, verso la fine del 1896 ordirono la grande congiura che doveva scoppiare come un colpo di fulmine e sorprendere la Spagna, tanto piú che nessuna cosa l’aveva fatta sospettare.

Il primo colpo avrebbe dovuto riuscire mortale alla potenza spagnuola, senza la confessione d’una donna di colore. Non si trattava dell’organizzazione di poche bande armate, ma d’un colpo di mano entro le mura della capitale e che doveva costare la vita a tutta la popolazione bianca.

Romero Ruiz, uno dei piú ricchi piantatori di Luzon, un uomo di valore e di genio, laureatosi ingegnere in Europa, l’aveva organizzato e preparato, quantunque non s’ignorasse che amava una fanciulla bianca, la Perla di Manilla, figlia di uno dei piú valorosi ufficiali del presidio spagnuolo, aiutato da Hang-Tu, uno dei capi piú potenti e piú fieri della colonia chinese, gran maestro delle associazioni del Lotus bianco, del Giglio d’acqua e del Tien-Tai, ed uno dei piú ardenti partigiani della libertà delle isole.

La morte del generale Blancos, comandante supremo delle forze spagnuole, quantunque combattuta da Romero che non voleva inaugurare l’insurrezione con un assassinio, era stata decretata dal partito giallo.

Un malese al suo servizio doveva ucciderlo a tradimento, ma la comparsa di un certo numero di servi che avevano portate con loro le armi dei padroni, avevano destati i primi sospetti.

Le autorità spagnuole, avvertite della trama ordita da un canapaio prima, poi da un vecchia malese che aveva narrato ogni cosa al suo confessore, non si erano lasciate sorprendere.

Mentre il governatore faceva arrestare centinaia di congiurati, un impiegato superiore ed un avvocato armarono prontamente due squadroni di volontari i quali, colla loro fermezza, s’imposero alla popolazione di colore che stava per cominciare la lotta.

Il colpo era fallito prima che scoppiasse, Romero e Hang-Tu, protetti da amici, con una pronta fuga avevano avuto il tempo di lasciare la città, quando già era stata decretata la loro morte, riparando a Canton.

Ma mentre si fucilavano o si deportavano gli arrestati, la rivolta si era estesa fuori Manilla, nonostante lo scarso numero dei ribelli.

Il primo colpo era stato portato contro Calnacan, località distante due sole leghe dalla capitale, ma il drappello dei congiurati era stato subito respinto.

Formato per lo piú di malesi sanguinarii, aveva preso la rivincita sul monastero a cui apparteneva il frate che aveva accolta la delazione della vecchia malese. Uccisa la delatrice, applicata la pene del ling-chi al suo confessore e trucidati o annegati gli altri, si era sbandata per sollevare le popolazioni di Bulacan, Pampagan, Laguna, Nueva Ecija, Batangas e Cavite.

Pareva che le forze spagnuole del generale Blancos, messesi tosto in campagna, avrebbero dovuto soffocare subito quel primo moto insurrezionale, tanto piú che i capi erano stati o fucilati o deportati o costretti a cercare riparo all’estero, ma l’idea della libertà e l’odio secolare contro la razza spagnuola avevano messe profonde radici.

In pochi giorni quelle poche centinaia d’insorti erano diventate migliaia. La rivolta avvampò come un incendio intorno a Manilla, facendo il suo centro in Cavite Vieja ed in Bulacan.

Gl’insorti che trovavano nei municipii dei preziosi alleati e nella gendarmeria, la cui riforma aveva aperto l’adito ai meticci ed agli indigeni, dei valorosi compagni, non fuggivano piú ma combattevano con ferocia.

Lotte sanguinose erano già avvenute negli ultimi mesi del 1896 e verso la metà del febbraio 1897, ed atrocità inaudite erano state commesse d’ambo le parti, quando deludendo le crociere della flotta spagnuola e sfidando la fucilazione a cui erano stati condannati dal consiglio di guerra, presieduto dal maggiore d’Alcazar, ricomparvero i due primi campioni della sommossa: Ruiz Romero e Hang-Tu. . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Il meticcio, lasciato il chinese sul molo di Binondo, s’avanzava lentamente verso il ponte, col viso mezzo nascosto nell’ampio mantello infioccato e la destra sul manico della lunga ed affilata navaja.

Era triste e cupo. Quel colloquio che un giorno avrebbe ardentemente desiderato, non gli sorrideva in quella notte in cui stava per partire e combattere forse contro il padre della fanciulla amata e contro i compatriotti di lei. Quale amore disgraziato era il suo, lottante per la libertà della terra natia ed i palpiti del cuore!… Che tenebroso avvenire gli si preparava senza le piú lontane speranze d’un sorriso, d’un raggio di luce!

Quand’anche l’insurrezione avesse trionfato; quand’anche gli odiati oppressori venissero vinti, chi avrebbe dato a lui la fanciulla che amava?… Avrebbe il padre di lei, fiero nemico dei ribelli, il piú orgoglioso dei castigliani, accordato il perdono al condannato a morte, al capo forse piú possente dell’insurrezione?… O non avrebbe, per la libertà delle isole, infranto anche l’affetto della Perla di Manilla che pur, sino allora, aveva resistito a tutto?… Avrebbe ella avuto il coraggio di volere bene al nemico piú formidabile della sovranità spagnuola, su quelle terre del Grand’Oceano?…

– È triste, è triste, – ripeteva Romero , seguendo il filo dei suoi dolorosi pensieri. – La patria m’infrangerà l’anima e farà di me il piú infelice degli uomini, ma Romero Ruiz non tradirà il vessillo dell’insurrezione, per quanti martirii possa costare al suo povero cuore. D’altronde la morte la cercherò e presto tutto sarà finito; tale doveva essere il destino mio. Cerchiamo di essere forti in questo colloquio che forse sarà l’ultimo. Povera Teresita!… Meglio sarebbe stato che i nostri sguardi mai si fossero incontrati.

Soffocò un sospiro ed affrettò il passo. Al palazzo di città suonavano le undici e doveva percorrere parecchie vie prima di giungere all’abitazione del maggiore d’Alcazar.

All’estremità del ponte, dinanzi alla porta della Ciudad, vegliavano due sentinelle, essendo state raddoppiate le guardie dopo i primi moti insurrezionali i quali potevano avere un contraccolpo anche nella capitale, dove numerosissimi erano ancora i tagali, i chinesi ed i meticci, ma Romero passò risolutamente dinanzi a loro, certo di non venire riconosciuto, specialmente con quell’oscurità.

Non poté però sfuggire ad una interrogazione dei due soldati.

– Dove vi recate a quest’ora? – gli fu chiesto.

– Dal maggiore D’Alcazar, – rispose il meticcio risolutamente.

– Siete atteso?

– Sí, ed ho fretta.

– Passate.

Il meticcio entrò nella Ciudad con passo affrettato, ma prima di voltare l’angolo delle prime case si guardò alle spalle per accertarsi che non era seguito. Tranquillizzato da quel lato, s’inoltrò attraverso una serie di vie piuttosto strette, ma fiancheggiate da grandi edifizii d’aspetto severo, quasi tetro.

La Ciudad è la città militare dove risiedono le truppe e la popolazione bianca, anzi la popolazione veramente spagnuola.

È una vera fortezza, cinta di bastioni giganteschi ed angolosi, difesi da ampi fossati, ma male tenuti, piú pieni di liquido fangoso che d’acqua e coperti di piante palustri, con sei sole porte e muniti di ponti levatoi ed un forte d’aspetto minaccioso: quello di San Giacomo.

Le vie della città hanno un aspetto assolutamente malinconico, niente attraente per gli europei che sono di nazione spagnuola, quantunque siano per lo piú larghe, dritte, ombreggiate di piante coperte di erbe che nessuno si cura di estirpare.

Quei palazzoni dalle nere muraglie, screpolati dai violenti terremoti del 1645, 1796, 1852, 1860, 1864 e quello ultimo del 1879, quelle immense e numerose chiese, quei monasteri pure numerosissimi, producono un’impressione triste.

Le casette ad un solo piano, colle loro logge adorne di fiori, fabbricate ultimamente per meglio resistere alle furiose scosse di terremoti, dànno però ora, ad una parte della fortezza, un carattere un po’ civettuolo.

Romero, che conosceva a menadito la città, avendovi soggiornato a lungo, dopo aver attraversato parecchie vie, tenendosi prudentemente addosso ai muri per non incappare in qualche guardia notturna, pochi minuti prima della mezzanotte giungeva dinanzi ad un edificio maestoso, che aveva piú l’apparenza d’una fortezza che d’un palazzo, colle mura annerite ed al pari delle altre screpolate per le convulsioni del suolo, spalleggiato da un ampio giardino difeso da alte muraglie merlate, ma in parecchi luoghi diroccate.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
310 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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