Kitabı oku: «Le stragi delle Filipine», sayfa 4
Capitolo VI. I MISTERI DI THAN-KIÚ
Quella casupola sepolta in mezzo alla foresta che serviva di rifugio agli insorti provenienti dai campi delle provincie meridionali, recanti notizie dei congiurati di Manilla, era una vera catapecchia, colle pareti di tronchi d’albero sconnesse, col tetto crollante, ma circondata da quattro o cinque felci colossali che la celavano completamente.
Anche passando vicino al macchione, nessuno di certo avrebbe potuto supporne l’esistenza; poteva quindi sfuggire anche alle indagini degli spagnuoli, i quali d’altronde non si occupavano delle bande e degli insorti.
Udendo avvicinarsi i cavalli, un uomo era uscito tenendo in mano un vecchio moschettone. Non era né un tagalo, né un chinese, un malese, ma uno di quei brutti abitanti dell’interno delle isole chiamati igoroti o negritos eta, veri pigmei, poiché di rado superano l’altezza di un metro e quaranta centimetri, coi capelli lanosi come quelli dei negri, il viso corto, le pinne del naso allargate, le labbra grosse, gli occhi piccoli, il corpo esile, le spalle curve e la pelle nerastra, fuligginosa.
Questi strani esseri, che per la loro tinta e pei loro lineamenti si staccano completamente dai tagali, sono veri selvaggi che errano sui monti e fra i boschi dell’interno senza fabbricarsi ricoveri, nutrendosi di radici, di miele, di frutta, o di selvaggina quando riescono ad abbatterne qualche capo.
Vedendo Than-Kiú ed i due malesi che doveva aver riconosciuti quantunque l’oscurità fosse intensa sotto le grandi felci, abbassò il moschetto e si tirò da un lato per lasciar entrare la giovane chinese ed il meticcio.
L’interno della casupola non valeva meglio dell’esterno. Era uno stanzone ingombro di armi da fuoco e da taglio e di alcuni mucchi di foglie secche che dovevano servire da letti, ed ammobiliato con una rozza tavola ed alcune scranne di bambú, forse costruite dal negrito. Un ramo resinoso, che spandeva piú fumo che luce, cacciato in un crepaccio del suolo, lo illuminava, ma cosí scarsamente che gli angoli rimanevano immersi nell’oscurità.
Il meticcio, stanco delle vicende della notte e dalle fatiche, si era lasciato cadere su di una scranna, mentre la giovane chinese si era appoggiata alla tavola senza sbarazzarsi né del cappello né del mantello. Aveva voltato le spalle alla luce della torcia, ma spiava ogni minimo movimento di Romero e sembrava che si tenesse pronta ad ogni suo cenno.
Pareva però che il meticcio si fosse completamente dimenticato della sua compagna di viaggio e che la lunga veglia lo avesse vinto poiché non si era piú mosso.
Il ramo resinoso si era spento e l’oscurità aveva invaso bruscamente l’interno della capanna, ma né l’uno, né l’altro avevano pronunciato una sola sillaba.
Due volte i malesi che si erano messi di guardia dinanzi alla porta della capanna, erano entrati per chiedere forse degli ordini o per accendere una nuova torcia, ma Than-Kiú, con un gesto silenzioso, li aveva rimandati, poi aveva ripresa la sua immobilità. Si sarebbe detto che temeva di turbare il riposo del meticcio o di distrarlo dai suoi pensieri, ignorando ella se dormisse o se meditasse.
Ad un tratto Than-Kiú si scosse, lasciando cadere bruscamente il mantello di seta che l’avvolgeva. Romero aveva pronunciato un nome:
– Teresita!…
Gli era sfuggito quel nome mentre dormiva e sognava della bruna fanciulla?… È probabile.
Than-Kiú aveva alzato lentamente il capo che fino allora aveva tenuto chino sul seno, ed un sospiro le era uscito dalle labbra, ma era cosí lieve che nessuno avrebbe potuto udirlo. Le sue braccia però, che teneva strette al petto, provarono un tremito tradito da un leggero tintinnio metallico, prodotto forse da alcuni braccialetti o da alcuni gioielli che portava ai polsi.
Tornò però ad irrigidirsi, ma tenendo gli sguardi sempre fissi sul meticcio, il quale a poco a poco si era appoggiato alla parete, come se ormai il sonno lo avesse completamente vinto.
Intanto le tenebre lentamente si diradavano. Spuntava l’alba e dalla porta rimasta aperta cominciava ad entrare un po’ di luce pallida, che rapidamente si tingeva di riflessi color di rosa d’una infinita dolcezza. Anche attraverso ai tronchi sconnessi delle pareti, altri sprazzi di luce entravano, mentre l’aria s’infiltrava piú fresca e profumata dall’olezzo degli aranci che crescevano in mezzo alla macchia.
Al di fuori, fra i rami degli alberi, una coppia di cyrtostomus, piccoli uccelli dai colori brillanti a riflessi metallici, simili a trochilidi americani, cinguettavano allegramente, salutando la imminente comparsa del sole.
D’improvviso Romero alzò il capo, come se si fosse bruscamente svegliato, rialzando con una mano i bruni riccioli che gli scendevano sulla fronte. Rimase un momento immobile come trasognato, poi si alzò di scatto, col piú vivo stupore dipinto sul viso.
Than-Kiú gli stava dinanzi, ancora appoggiata alla tavola, ma aveva lasciato cadere anche il cappello e mostrava il suo viso, che durante tutta la notte aveva tenuto costantemente coperto.
Il Fiore delle Perle, pur appartenendo ad un’altra razza, poteva ben gareggiare per bellezza colla Perla di Manilla e produrre una viva impressione anche sul cuore di Romero.
Quella giovanetta, nata all’ombra delle pagode del Celeste Impero e trasportata, chissà in seguito a quali vicende, sotto il dolce clima delle isole ispaniche, era forse una delle piú belle e delle piú perfette creature nate dall’incrocio della razza mongola con quella mantsciura. Era piú alta di Teresita, mirabilmente sviluppata, dalla pelle candida, senza quei riflessi leggermente giallastri che si scorgono sui volti delle donne chinesi delle provincie meridionali, anzi d’una tinta quasi alabastrina, ma con certe sfumature indefinite che solo si scorgono sull’avorio.
I suoi occhi, lievemente inclinati, d’un nero intenso e che avevano una espressione dolce e malinconica, quasi triste, erano velati da superbe ciglia brune e fitte; il suo naso non era depresso come quello delle donne di razza tartara; le sue labbra rosse, sottili, mostravano denti piccoli come granelli di riso, e d’una bianchezza delicata.
Aveva i capelli nerissimi, con certi riflessi metallici che facevano spiccare maggiormente la bianchezza marmorea della pelle, raccolti intorno a tre spilli d’oro terminanti in tre grosse perle; il corpo racchiuso entro una casacca di seta azzurra a fiori di vivaci colori, stretta alla cintura da una larga fascia rossa ricamata in oro; calzoncini ampi, pure di seta, ma bianca ad arabeschi gialli, ed i piedi piccoli come una foglia di rosa, per usare una espressione chinese, nascosti entro scarpine di broccato a punta rialzata e colla suola di feltro bianco.
Non portava gioielli né agli orecchi, né al collo. Solamente ai polsi aveva alcuni cerchietti d’oro sormontati tutti da una perla di notevole valore.
La giovane chinese, poiché doveva essere molto giovane, forse al pari della Perla di Manilla, non si era mossa. I suoi occhi però, sotto le folte ciglia che quasi li nascondevano, non si erano staccati dal meticcio.
– Than-Kiú, sei tu?… – chiese Romero.
– Sí, mio signore, – rispose la chinese, con voce dolce.
– Hai vegliato, mentre io dormivo?…
– Sí, mio signore.
– Invece di riposare?…
– Than-Kiú non aveva sonno.
– Strana fanciulla!… – mormorò Romero.
– Noi amiamo sognare cogli occhi aperti.
– E sognavi del tuo paese forse, delle cupole dorate od a scaglie dorate di ramarro della tua lontana città natia, o delle albe del tuo Celeste Impero?
– Forse. Sognavi anche tu.
– Io?…
– Sí, mio signore.
– Ah!… È vero, sognavo battaglie.
– E perle, – disse Than-Kiú, socchiudendo gli occhi.
– Sí, anche questo è vero, – rispose Romero, con un sospiro. – Sognavo della Perla di Manilla.
Udendo queste parole, un leggero rossore si diffuse sul viso alabastrino della giovane chinese, ma si dileguò subito.
In quel momento entravano i due malesi portando su un vecchio vassoio alcune chicchere di thè fumante, che deposero sulla tavola unitamente ad alcune focacce di frumento.
Than-Kiú offrí graziosamente una tazza della profumata bevanda a Romero, scusandosi di non potergli dare, almeno pel momento, di meglio; bagnò appena le sue vermiglie labbra in un’altra, poi volgendosi verso i due malesi che parevano attendessero di venire interrogati, chiese loro se l’igoroto era tornato.
Avuta una risposta negativa, la bianca fronte della giovane chinese si corrugò, mentre i suoi begli occhi tradivano una viva inquietudine.
– La cosa può diventare grave, – mormorò.
– Temi che l’abbiano ucciso? – chiese Romero.
Than-Kiú non rispose. Si era gettata sulle spalle l’ampio mantello di seta bianca, si era messa sul capo il suo grazioso Manilla ed aveva preso la sua piccola carabina, una splendida arma colla canna rabescata ed il calcio intarsiato di madreperla.
– Dove vai? – chiese Romero.
– Mi attenderai qui, mio signore.
– Mentre tu vai forse ad affrontare un pericolo?… Oh!… mai, Than-Kiú.
– Tu non sai dove si trovano gli spagnuoli e non conosci questa foresta, – rispose la giovane chinese. – Mi preme accertare una cosa.
– Quale?…
– Te lo dirò piú tardi, mio signore.
– Io voglio seguirti.
– No, è l’ordine del capo delle società segrete, – disse Than-Kiú, con fermezza incrollabile. – Tu devi obbedire, mio signore.
«D’altronde la mia assenza sarà breve, spero».
Fece cenno ad un malese di seguirla ed escí senza aggiungere sillaba.
Romero aveva fatto alcuni passi come se volesse seguirla, ma l’altro malese gli aveva sbarrato il passo dicendo:
– No, padrone. Bisogna obbedire a Than-Kiú.
– Ma chi è quella fanciulla?… Forse comanderà piú di me, nominato capo supremo degli insorti della provincia di Cavite? – chiese Romero, con stupore.
– Per ora devi obbedire, padrone.
– Ma chi è adunque quella fanciulla?…
– Than-Kiú.
– Lo so che si chiama cosí, ma da dove viene, chi sono i suoi genitori?…
– Lo ignoriamo tutti, ma sappiamo che tutti le obbediscono.
– Io non l’ho mai veduta prima d’ora.
– Forse t’inganni, padrone, poiché ella ti conosceva prima di ieri sera e l’ho udita io parlare sovente di te.
– Ma dove?…
– A Manilla, e piú tardi nel campo degl’insorti.
– Conosceva me?…
– Sí, padrone.
– È strana!… Non mi ricordo d’averla incontrata nelle vie della Ciudad. Una fanciulla chinese cosí graziosa, non può sfuggire inosservata. È molto tempo che abita a Manilla?…
– Non lo so.
– Dove si trovava, prima che scoppiasse l’insurrezione?…
– Non lo ricordo.
– O meglio non vuoi dirmelo —
– Può essere, – rispose il malese, con un sorriso malizioso. Poi per tagliar corto quel dialogo uscí, mettendosi di guardia alla porta della capanna.
Da una bisaccia che gli pendeva dal fianco aveva estratto un pizzico di siri, miscuglio formato di noci d’arecchie ridotte in polvere, di una piccola dose di succo concentrato dell’amaro e astringente gambir e di un po’ di calce viva, l’aveva avviluppato accuratamente in un pezzetto di foglia di betel e si era messo a masticare, con visibile soddisfazione, quella piccola pallottola, lanciando di quando in quando getti di saliva rossastra che pareva mescolata a sangue.
Romero, conoscendo la cocciutaggine dei malesi, si era seduto dinanzi alla casupola, aspettando pazientemente il ritorno della giovane chinese.
Le ore però trascorrevano, ma nessuno tornava, nemmeno il negrito che doveva aver lasciata la capanna prima dell’alba. Il meticcio, le cui inquietudini aumentavano, temendo che qualche disgrazia fosse toccata alla valorosa Than-Kiú, aveva piú volte proposto al malese di andarla a cercare, ma questi si era limitato a rispondere che la chinese non era donna da lasciarsi sorprendere dagli spagnuoli.
Erano circa le due pomeridiane, quando gli acuti sensi del malese percepirono qualche cosa. S’alzò rapidamente afferrando il fucile che teneva a portata delle mani, ma poco dopo tornò a sedersi, dicendo:
– Tornano.
Romero respirò. L’eroica fanciulla che esponeva per lui, con un sangue freddo straordinario ed un’audacia incredibile per una donna, la vita, cominciava a destare nel suo cuore un’ammirazione che poteva diventare pericolosa per la Perla di Manilla.
Poco dopo Than-Kiú giungeva dinanzi alla capanna, seguita dal malese e dal brutto negrito. Pareva che avesse fatto una semplice passeggiata, poiché le sue vesti non erano punto disordinate; solamente il suo volto latteo era diventato leggermente roseo. Dai suoi sguardi però traspariva una viva ansietà.
– Finalmente! – esclamò Romero, senza nascondere la gioia che provava nel rivederla. – Tu mi hai fatto provare molte angosce, fanciulla.
Than-Kiú sorrise, mentre nei suoi occhi neri brillava un rapido lampo. Prese il meticcio per una mano e trattolo nella capanna, disse, ma con un accento che tradiva una profonda inquietudine:
– Hang-Tu corre un grave pericolo.
– Lui!… – esclamò Romero. – Come le sai tu?…
– Le truppe spagnuole accampate nella provincia, si ripiegano precipitosamente su Manilla.
– Tanto meglio; ci lasceranno il passo libero per giungere a Salitran.
– Non è Salitran che bisogna salvare ora, ma Hang-Tu, mio signore.
– Non ti comprendo.
– Oggi gli insorti tentano un colpo di mano entro le mura della capitale, per costringere il generale Polavieja a sospendere l’investimento di Cavite, la quale non è abbastanza fortificata per resistergli, e per lasciare a te il tempo di rendere Salitran inespugnabile.
– E chi tenterà il colpo?
– Hang-Tu.
– Per uccidere tutti gli spagnuoli di Manilla?… Disgraziato! Mi ucciderà Teresita!…
– Lui!… No, mio signore.
– Se non lui i suoi malesi ed i suoi chinesi od i tagali. Quando quegli uomini sono scatenati, diventano tigri assetate di sangue al pari dei juramentados e non risparmiano né donne, né fanciulli.
– Hang-Tu la proteggerà, – disse Than-Kiú, ma con voce sorda.
– Voglio tornare a Manilla.
– Volevo proportelo, quantunque il mio cuore si ribelli.
– Perché, Than-Kiú?…
La giovane chinese fece un gesto negativo col capo, poi riprese con voce lenta:
– Ciò riguarda il Fiore della Perle e non la Perla di Manilla.
– Che cosa vuoi dire, strana fanciulla?
– Partiamo, mio signore, Hang-Tu ignora che gli spagnuoli, avvertiti del colpo di mano da qualche traditore, accorrono in aiuto della capitale. Se non se ne accorgeranno, tutti quei prodi saranno schiacciati ed io non voglio che Hang muoia.
– Lo ami forse?
– Sí… ma come un fratello.
Poi, dopo un sospiro, aggiunse con voce triste:
– Tu non comprenderai forse mai il Fiore delle Perle.
Uscí rapidamente dalla capanna senza spiegarsi di piú, salí sul cavallo che il negrito teneva per la briglia e lo lanciò ventre a terra attraverso il bosco, gridando:
– Seguitemi o sarà troppo tardi!
Romero ed i malesi balzarono in arcione e si lanciarono sulle sue tracce, spronando i corsieri.
Than-Kiú galoppava sempre, ma non teneva una via dritta. Ora abbandonava il bosco spingendo il cavallo in mezzo alla campagna coltivata, ora vi rientrava per poi uscirne di nuovo. Forse sapeva ormai dove si erano accampati gli spagnuoli e con quei giri li evitava per non venire arrestata.
Tre ore dopo i quattro cavalieri giungevano a poche centinaia di passi dalle massicce mura della Ciudad.
Than-Kiú, aveva con una violenta strappata, arrestato il destriero. Alcuni spari erano echeggiati al di là dei bastioni, seguiti dalle grida furiose di:
– Viva i tagalos!… Morte agli spagnuoli!…
La giovane era diventata pallidissima, come se tutto il sangue le fosse ritornato al cuore.
– Troppo tardi? – chiese Romero, che l’aveva raggiunta.
– Sí, – rispose ella con voce soffocata, guardandolo fisso.
– Andiamo a morire coi fratelli, – disse il meticcio, con voce risoluta. – Avanti!… Viva la libertà!…
– Sí, andiamo a morire, – mormorò il Fiore delle Perle con un sospiro. – La mia felicità doveva avere le durata d’un fiore reciso dalla pianta!
Capitolo VII. LA CONGIURA DI MANILLA
Il colpo di mano ordito dalle società segrete chinesi, spalleggiate dagl’indigeni manillesi, dai meticci e dai fieri malesi, era stato tentato nel momento in cui Romero e Than-Kiú giungevano presso i bastioni della capitale.
Quell’ardita mossa aveva per iscopo, come aveva detto la giovane chinese, di impedire al generale Polavieja, comandante supremo delle truppe spagnuole operanti contro gl’insorti accampati al sud della capitale, di assalire Cavite che era il quartiere generale dell’insurrezione e la cui caduta poteva scoraggiare e avvilire le bande dei patriotti.
Hang-Tu, il valoroso chinese, era stato l’anima della congiura. Sapendo di poter contare sui gendarmi di razza indigena che anelavano l’istante di rivolgere le armi contro i loro superiori per gittarsi di poi nella campagna e raggiungere le bande insorte di Bulacan a di Cavite, nel pomeriggio del 25 febbraio 1897, aveva dato convegno ai congiurati nei dintorni della caserma, per poi rovesciarli nella vie della Ciudad, approfittando del momento in cui la popolazione bianca si trovava nelle sue abitazioni a digerire tranquillamente il pasto serale.
I ribelli non erano numerosi, ma bene armati e risoluti a tutto. Erano circa trecento, reclutati fra i piú robusti tagali di Binondo e Santa Cruz, e fra i piú arditi chinesi del porto; ma sapevano di poter contare sulla numerose colonie di gente di colore, abitanti nei sobborghi e soprattutto sui malesi, gente valorosa e indifferente alla morte.
Erano circa le 6, quando i congiurati, che fino allora si erano accontentati di passeggiare dinanzi al quartiere dei gendarmi tagalos non ostante l’intenso calore che regnava nelle vie della capitale, ad un segnale di Hang-Tu, che era allora giunto armato d’un fucile a retrocarica e di rivoltella, scortato da alcuni capi insorti delle società segrete del Lotus bianco e del Giglio d’acqua, si rovesciarono confusamente verso il grande fabbricato, urlando:
– Morte agli spagnuoli!… Viva la libertà!…
Hang-Tu, che li guidava, con un colpo di fucile aveva freddato la sentinella spagnuola, che si trovava dinanzi alla garretta, ancora prima che quel disgraziato soldato avesse avuto il tempo di dare l’allarme.
A quel primo sparo, altri ne tennero dietro, ma piú collo scopo d’intimorire la popolazione che di fare, almeno pel momento, della vittime.
I carabinieri tagalos, udendo quelle detonazioni, avevano dato di piglio alle armi e si erano affacciati alle finestre, gridando pure:
– Morte agli spagnuoli!… Viva l’indipendenza della isole!
Il tenente di picchetto Rodriguez, il solo ufficiale che in quel momento si trovava nel quartiere, si era slanciato verso la porta seguito da un sergente e da un caporale, spagnuoli, sperando di giungere in tempo per barricarla, ma una scarica li aveva stesi al suolo senza vita.
Il primo colpo era riuscito. I ribelli irruppero nella caserma saccheggiando il magazzino della armi e della munizioni e rinforzati dai carabinieri tagali che avevano abbracciata la loro causa, attraversarono correndo il ponte, urlando sempre:
– Morte agli spagnuoli!… Viva i tagalos!… Viva l’indipendenza!…
La loro mossa era stata cosí rapida, che nessuno aveva osato arrestarli.
Le guardie stesse del ponte erano fuggite precipitosamente al loro avvicinarsi, per non venire fatte inutilmente a pezzi.
Occorrevano delle armi per fornire gli abitanti dei quartieri chinesi, tagali e malesi, che ne erano quasi sprovvisti; ma Hang-Tu sapeva che ve ne erano nella caserma della guardie civiche di Binondo e guidava gl’insorti verso quella parte.
Sapeva già d’incontrare una seria resistenza, ma contava sull’audacia dei congiurati e sulla numerosa popolazione del sobborgo.
L’assalto alla caserma era stato dato con vigore. Gl’insorti, guidati dal chinese e dai capi delle società segrete, aprirono un fuoco violento contro il quartiere, e contro la robusta porta che era stata prontamente chiusa e barricata.
Sarebbe stato necessario qualche pezzo d’artiglieria per ottenere qualche risultato, ma il tempo mancava per disarmare i prahos malesi ancorati lungo la calata. Le truppe della Ciudad potevano giungere da un istante all’altro e prendere i ribelli fra due fuochi.
Mentre riusciva vana la fucilata dei congiurati, cominciava a menar strage quella delle guardie civiche. Quei soldati, nascosti dietro le finestre, rispondevano con una grandine fitta di proiettili e senza esporsi ad alcun pericolo.
Già parecchi insorti erano caduti, fra i quali qualche capo delle società segrete.
Anche Hang-Tu, che combatteva arditamente alla testa dei suoi chinesi e dei gendarmi, incoraggiandoli colle parole e coll’esempio, aveva avuto l’ampio cappello di fibre di rotang attraversato da una palla, mentre un’altra, colpendolo di rimbalzo, gli aveva tracciato un solco sanguinoso sulla fronte.
La partita era perduta. La guardia civica, invece di arrendersi, come avevano sperato gl’insorti, si preparava ad assalirli e per di piú sul ponte del Passig, si vedevano accorrere grossi drappelli di cacciatori.
Bisognava pensare a salvarsi o prepararsi a morire vendendo cara la vita.
Hang-Tu, furioso per quella ostinata resistenza, tre volte aveva tentato di dar fuco alla porta del quartiere gettandovi contro dei fasci di legna infiammata, ma era stato costretto a retrocedere. Stava per mettersi alla testa di un gruppo di animosi per tentare di dare la scalata alle finestre, quando si udirono alcuni insorti, forse i meno risoluti, gridare:
– I cacciatori!… Fuggite!…
I ribelli, udendo quelle grida e vedendo la guardia civica irrompere dalla porta che era stata rapidamente aperta e lanciarsi sulla via colle baionette calate, si sbandarono.
Intorno ad Hang-Tu non erano rimasti che sessanta o settanta uomini, per lo piú carabinieri e pochi chinesi con una mezza dozzina di malesi.
– A me, amici!… – urlò il capo delle società segrete. – Mostriamo agli spagnuoli ed ai vili che fuggono, come sanno morire gli insorti.
Non erano piú in grado di tener testa alle guardie civiche che stavano per caricarli.
Continuando la fucilata, si ritirarono nella vicina via dell’Assuncion che poteva, in caso di disfatta, offrire un rifugio attraverso il sobborgo del Tondo e si arrestarono sull’angolo, organizzando una disperata resistenza.
Sfondarono rapidamente alcuni negozi e colle mobilie che si trovavano dentro improvvisarono una barricata abbastanza solida.
Hang-Tu stava disponendo i suoi fedeli dietro a quei ripari, quando dall’opposta estremità della via scorse quattro cavalli bianchi di spuma, montati da tre uomini e da una fanciulla che aveva un grande mantello bianco svolazzante, avanzarsi di gran galoppo.
Credendoli spagnoli, aveva già dato il comando di aprire fuoco su di loro, quando li riconobbe. Un vivo stupore si dipinse sul suo viso.
– Romero!… – gridò.
– Sí, Hang-Tu. – rispose il meticcio, che essendo innanzi a tutti, lo aveva raggiunto. – Sono io, e vengo a morire per l’indipendenza di Luzon.
– Disgraziato!… ed io che credevo di salvarti!…
– Silenzio, amico!… Qui si tratta di battersi bene e non di parlare.
Era sceso da cavallo e si era lanciato sulla barricata col fucile in mano, gridando con voce tuonante
– Coraggio fratelli!… Ci battiamo per la libertà!…
Than-Kiú era pure giunta ed aveva messo piede a terra. Hang-Tu le era corso incontro. Il volto di quell’uomo, che era rimasto impassibile dinanzi alla morte, tradiva in quell’istante una mortale angoscia.
– Anche tu qui, Than-Kiú! – balbettò egli.
– L’ho seguíto, – rispose la chinese con voce tranquilla.
– Ma qui si muore, mia povera Than-Kiú!
Un pallido sorriso sfiorò le labbra della giovane.
– Che importa, – disse. – Sarà piú felice il Fiore delle Perle che la Perla di Manilla.
– Ma questo ritorno… mentre ti credevo in via per Salitran?…
– Venivamo a dirti che le truppe accampate nelle provincie accorrevano per soffocare l’insurrezione della capitale. Siamo giunti troppo tardi, ma cosí voleva il destino.
– Ed hai voluto seguire Romero?
– Sí, Hang.
Il chinese si terse alcune gocce di freddo sudore che gli bagnavano la fronte.
– Povera Than-Kiú! – mormorò. – Confidiamo nel nostro valore e prepariamoci a morire da forti.
– Non temo la morte, Hang, – rispose la giovane con energia. – Se le fredde ali del genio delle tombe mi toccassero, cadrò a fianco di lui e sarà la mia ultima felicità.
– Si compia la volontà del tien (cielo), – disse il chinese con rassegnazione.
Intanto le fucilate rombavano furiose fra le due fila di case. Le guardie civiche, che erano comandate dal colonnello Fierro, avevano preso posizione di fronte all’imboccatura della via, tirando contro la barricata, mentre le piú audaci cercavano di avvicinarsi di soppiatto, tenendosi presso le muraglie delle abitazioni.
Gl’insorti però, quantunque fossero tre volte meno numerosi, resistevano tenacemente, respingendo i primi tentativi d’assalto con scariche nutrite.
Romero, che in quel momento pareva avesse dimenticato tutto, perfino la Perla di Manilla, sfidava intrepidamente la morte. Ritto su di un banco, con gli occhi sfavillanti d’audacia, pieno d’entusiasmo, faceva fuoco quasi senza interruzione, gridando:
– Viva la libertà!… Coraggio amici!… Il sangue dei martiri non va perduto.
Accanto a lui, mezza riparata da un enorme rotolo di canapi, si era collocata Than-Kiú. La valorosa fanciulla conservava una calma ammirabile, un sangue freddo da muovere ad invidia i soldati piú agguerriti. Puntava senza precipitazione la sua piccola carabina, mirava senza che le sue piccole e delicate mani tremassero e faceva fuoco soltanto quando era certa del colpo. Pareva che scegliesse con cura estrema i nemici, i nemici che cercavano di abbattere il meticcio, Hang-Tu si era collocato all’estremità opposta della barricata ed al pari di Romero sfidava, sorridendo, i colpi degli avversari, senza prendersi la briga di ripararsi.
La resistenza di quel drappello minacciava di prolungarsi molto tempo. Parecchi gendarmi ed alcuni chinesi erano caduti e giacevano, sanguinanti, fra i mobili fracassati della barricata, ma gli altri non arretravano e tenevano in iscacco le guardie.
Il colonnello Fierro aveva tentato già due volte di superare l’ostacolo e di sloggiare i difensori a colpi di baionetta, ma al terzo tentativo era caduto in mezzo alla via con due palle nel petto ed era spirato sul posto.
Ad un tratto alcuni insorti che si erano spinti verso l’angolo opposto della via, per cercare dei soccorsi, tornarono precipitosamente verso la barricata, gridando:
– I cacciatori!… Si salvi chi può!…
Hang-Tu, udendo quelle grida, si era precipitato giú dalla barricata mandando un urlo di fiera ferita. In due salti raggiunse Than-Kiú, la sollevò fra le robuste braccia come fosse una bambina e la posò su uno dei quattro cavalli che un malese teneva per le briglie.
– Va’, fuggi, – le disse.
– Mai, – rispose la fanciulla.
– Fra pochi minuti nessuno di noi sarà vivo
– E morrò anch’io
– Non lo voglio, Than-Kiú!
– Allora fuggiamo tutti. Il sobborgo del Tondo non è ancora stato occupato.
Hang-Tu esitava. Abbandonare quella barricata cosí ostinatamente difesa e già bagnata del sangue di tanti compagni gli sembrava una vigliaccheria, ma non voleva che la fanciulla morisse.
In quel momento, all’estremità opposta della via, si udirono le trombe dei cacciatori che suonavano la carica. Un ritardo di pochi istanti poteva diventare fatale ai difensori.
– In ritirata!… – tuonò Hang-Tu.
I ribelli, udendo la voce del capo si ripiegarono confusamente, mentre le guardie civiche irrompevano nella via mandando urla di vittoria.
Romero scaricò un’ultima volta il fucile in mezzo agli assalitori che si avanzavano come una fiumana, poi balzò sul suo cavallo, mentre Hang-Tu faceva altrettanto, prendendone uno che gli era stato condotto dinanzi dai due malesi.
I ribelli, che erano rimasti in cinquanta, si slanciarono dietro ai loro capi, i quali fuggivano attraverso le vie del sobborgo di Tondo, facendo alcune scariche contro i cacciatori che s’avanzavano a passo di corsa.
– Dove andiamo? – chiese Romero ad Hang-Tu.
– Se non incontriamo ostacoli, cercheremo di giungere nei quartieri chinesi e malesi per sollevarli.
– Temo che sia troppo tardi, Hang. Odo delle detonazioni echeggiare in quella direzione e mi pare che si estendano.
– Se non potremo giungere colà, ci getteremo nella campagna.
La ritirata dei ribelli si eseguiva in fretta e con disordine. I carabinieri tagalos seguivano di corsa i cavalli, pur fuggendo, di quando in quando, rispondevano al fuoco di quei disgraziati. La paura cominciava ad invadere anche i piú risoluti.
Erano cosí giunti presso la chiesa del Tondo, vasto edificio dalle solide pareti, quando all’estremità del sobborgo si videro apparire alcuni soldati. Era uno dei drappelli che il colonnello Zimènes aveva lanciati nei sobborghi, onde tenere in freno le popolazioni di colore che potevano unirsi agli insorti.
Ancora una volta i fuggiaschi stavano per venire presi fra due fuochi.
– Hang-Tu, – disse Romero, arrestando il cavallo. – Prepariamoci a morire.
– Io sí, ma tu no, – rispose il chinese, la cui fronte si era abbuiata. – Ti affido Than-Kiú: salvala, mentre io proteggo la tua fuga.
– La salverai tu, ma non io.
– Non accetterebbe.
– Allora morremo tutti.
– O cercheremo di salvarla entrambi. Ormai la partita è perduta. Poi rizzandosi sulle staffe tuonò:
– Amici, ogni resistenza è inutile: salvatevi!… Ci ritroveremo a Salitran!…
Cacciò gli sproni nel ventre del cavallo e caricò disperatamente il drappello spagnuolo colla rivoltella nella sinistra e una pesante sciabola giapponese nella destra, una di quelle armi dalla lama larga e pesante, somiglianti a giganteschi rasoi e che chiamansi catane.
Romero, Than-Kiú ed uno dei due malesi l’avevano seguito.
I carabinieri tagalos ed i pochi malesi e chinesi sfuggiti alla morte, si erano subito sbandati gettandosi nelle vie laterali; ma il gruppo maggiore, meno fortunato, aveva urtato contro una colonna di cacciatori ed aveva dovuto retrocedere precipitosamente, riparando nella chiesa del Tondo.
Nessuno di quei disgraziati doveva salvarsi, poiché assaliti da tutte le parti, dopo una breve ma disperata resistenza, doverono arrendersi in numero di trenta per venire piú tardi fucilati o esiliati alle Caroline.
Intanto Hang-Tu ed i suoi compagni, sfuggiti miracolosamente incolumi alla prima scarica del drappello, erano riusciti ad aprirsi un varco attraverso ai soldati e prendere il largo.