Kitabı oku: «Le stragi delle Filipine», sayfa 3
Nessun filo di luce trapelava attraverso le persiane delle numerosissime finestre e nemmeno dinanzi al grandioso portone vegliava alcuna sentinella.
Romero gettò all’interno un lungo sguardo, poi rassicurato di essere affatto solo, seguí le mura del giardino finché si trovò dinanzi ad un piccolo padiglione di pietra, sormontato da un terrazzo coperto di grandi vasi di fiori.
Qualche sprazzo di luce filtrava attraverso le persiane del pianterreno le quali erano cosí basse che un uomo di media statura avrebbe potuto aprirle.
– M’aspetta, – mormorò. – Povera Teresita!…
S’avvicinò ad una finestra, e dopo una breve esitazione batté, colle nocche delle dita, alcuni colpi.
Un istante dopo la porticina del padiglione s’apriva senza far rumore ed il meticcio entrava in un elegante salotto colle tende di percallo azzurro, adorno di grandi vasi di porcellana chinese o giapponese e contenenti delle piante rare, i cui fiori spandevano all’intorno dei profumi acuti, tanto cari alle donne spagnuole.
Una lampada pure chinese, velata di pizzi, lasciava cadere una pallida luce, la quale si rifletteva sui tavolini chinesi laccati e sulle poltroncine di bambú pure incrostate di lacca e di scagliette di madreperla, che ammobiliavano la stanza.
Teresita, vestita d’un semplice accappatoio bianco a ricami, ma che faceva spiccare doppiamente la sua bruna carnagione ed i suoi occhi neri, con una rapida mossa aveva preso Romero per una mano traendolo sotto la lampada, mentre Manuelita, la sua fida donna, una bellissima ragazza tagala, dagli occhioni dolci, quantunque leggermente obliqui, s’affrettava a chiudere la porta.
– Grazie, Romero, – disse la fanciulla, con voce rotta. – Avevo dubitato per un istante che tu venissi, ma vedo che mi ero ingannata e che ti avevo giudicato male.
– Hai dubitato, – disse il meticcio, – e perché, Teresita?…
– E me lo chiedi?… Temevo che tu ormai avessi dimenticato la figlia di colui che si è mostrato cosí spietato verso di te.
– Io non odio tuo padre.
– Lui!… che ti ha condannato a morte, che ha distrutto le tue ricchezze, che ti ha reso povero ed infelice e che ti ha costretto a riparare in terra straniera?…
– Un soldato deve compiere il proprio dovere, Teresita. Un altro qualunque, al suo posto, avrebbe fatto altrettanto contro di me, che mi ero schierato fra i nemici della tua patria.
– Ma lui ti odia, Romero, – disse la fanciulla, con uno scroscio di pianto.
– Lo so, Teresita, – rispose il meticcio, con voce cupa, – pure io non l’odio. In lui io non vedo che un nemico dell’indipendenza delle isole, e null’altro. A lui ho perdonato tutto, il suo disprezzo verso di me, perché nelle mie vene non scorre il sangue puro della razza bianca, il male che mi ha fatto e anche le inenarrabili torture del mio cuore.
– Sí, le tue torture!… Quanto devi aver sofferto nelle terre dell’esilio, mio Romero!
– Sí, ma per te, Teresita.
– Ah!… Non mi avevi dimenticata adunque, – diss’ella, sorridendo attraverso le lagrime.
– No, avevo portato con me l’affetto della Perla di Manilla. Ma quante angosce, Teresita!… Ti avevo sempre dinanzi agli occhi, sai!… Mi pareva anche laggiú, sulle spiagge degli uomini gialli, di udire sempre la tua voce a ripetermi quelle parole da te pronunciate la notte prima del colpo di mano, che doveva dare a noi insorti la capitale «Te o la morte!…». Io anelavo di ritornare qui per rivederti, fosse pure per un solo istante, mi fosse pure costata la vita…
Romero si era bruscamente interrotto, come se si fosse spaventato di aver detto tanto.
– Parlo in questo modo, – diss’egli con amarezza, – mentre invece tutto dovrebbe finire fra noi.
– Romero!… – esclamò Teresita, con un singhiozzo. – Non parlare cosí, gran Dio!…
– Sí, tutto deve finire, mia Teresita. La patria sta fra noi.
– La patria!…
– Sí, perché io domani diverrò uno dei piú implacabili nemici della tua razza e tu non mi potrai piú voler bene.
– T’inganni, Romero.
– No, Teresita. Non si può amare un nemico della propria patria, ed io sto per diventarlo. Fra poche ore forse io ucciderò i tuoi fratelli, forse io lotterò contro lo stesso tuo padre.
– Non è possibile, Romero!… – esclamò la fanciulla con accento straziante. – No, tu non partirai, tu non andrai a lottare nei campi degli insorti, tu non esporrai il tuo corpo ai colpi dei miei compatriotti…
– È l’indipendenza di queste isole che mi chiama, è la patria.
– Ma quegli uomini saranno tutti uccisi un giorno, mio Romero, ed io non voglio che tu muoia. Essi credono di vincere la Spagna, essi s’illudono di cacciare i miei compatriotti in mare e s’ingannano. La mia patria è troppo forte e troppo fiera per rinunciare alla lotta.
– Ma anche l’insurrezione è potente, Teresita, e lotterà finché avrà un solo uomo ed una sola carica di polvere.
– Ma tu non sei uomo di colore come sono quasi tutti gli insorti. Nelle tue vene scorrono pure delle gocce del sangue dei bianchi, di sangue spagnuolo.
– È vero ed è per questo che i tuoi compatriotti mi chiamano sdegnosamente meticcio, ed è per questo che tuo padre si frappone fra noi due come se il sangue tagalo di mia madre non fosse pari di quello degli uomini d’Europa. No!… Il meticcio non può amare la donna bianca; è uno schiavo, un lebbroso.
– Romero! – esclamò Teresita, – non parlare cosí. Che importa se i miei orgogliosi compatriotti ti chiamano meticcio, quando io ti voglio bene?
– Ma tuo padre?… – chiese Romero che, era in preda ad una viva eccitazione.
– Tu hai salvato la vita a sua figlia.
– Ed in compenso sarebbe felice di potermi far fucilare come ribelle, – rispose il meticcio, con amarezza.
Teresita si era lasciata cadere su di una sedia col viso nascosto fra le mani e piangeva in silenzio, soffocando i singhiozzi che le sollevavano il seno. Il meticcio colle braccia incrociate sul petto, la fronte increspata, s’era messo a passeggiare pel salotto, mentre Manuelita, immobile come una statua di bronzo, vegliava alla porta che metteva sul giardino.
– Parti?… – chiese ad un tratto la fanciulla, rialzandosi e tergendosi le lagrime.
– All’alba, – rispose Romero.
– Sei deciso?…
– Ho giurato, Teresita.
– E… non tornerai piú?… – chiese ella, tornando a scoppiare in singhiozzi.
– Forse un giorno, se la morte mi avrà risparmiato.
– Ma io non voglio che tu muoia, Romero! – esclamò Teresita posando il bruno capo sul robusto petto di lui.
– La mia morte sarebbe forse un bene per entrambi. A quale scopo continuare questo infelice affetto, quando non vi è alcuna speranza di realizzare il dolce sogno vagheggiato?… La guerra scaverà fra noi un abisso che non si colmerà piú mai, mia Teresita.
– E ti rechi?…
– A difendere Salitran.
– A Salitran!… – esclamò la fanciulla, indietreggiando vivamente. – Tu vai a combattere contro mio padre!…
– Tuo padre sarà dinanzi a Salitran!… Hang-Tu vede un triste disegno nel tuo cuore!
– Chi è codesto Hang-Tu, Romero?…
– Un uomo che forse ha la piú grande anima di patriota, ma che forse sarà fatale al nostro affetto, Teresita. Mi hanno fatto giurare di difendere Salitran perché essi sapevano che dovevo lottare contro tuo padre. Io sono un disgraziato, maledetto dal destino!…
– E tu non rinuncerai a lottare contro mio padre?…
– Non lo posso piú, Teresita
– Ah!… Tu me lo ucciderai, Romero.
– No, te lo giuro. Io tutto ho perdonato a lui.
– Ma lui?… Ho paura… ho un triste presentimento, amico mio, – disse la giovinetta con voce rotta dal pianto.
– Se cosí fosse… se m’uccidesse… si compia pure il mio destino.
– Ma io ti voglio bene, Romero!…
– Ed io, credi che non voglia bene alla Perla di Manilla?… Forse che sarei qui venuto mentre i miei compatriotti, questa i stessa notte forse, muoiono per la libertà?… Credi tu che non sarei corso ai loro campi per battermi al loro fianco?… No, tu non saprai mai, Teresita, quanto abbia sofferto per te questo mio povero cuore e quanto…
Romero si era bruscamente interrotto. Al di fuori della strada, era echeggiato un fischio breve, ma modulato e che egli ben conosceva. Impallidí, poi fece un gesto di stupore.
– Hang-Tu!… – mormorò. – È un segnale d’allarme.
Si liberò dolcemente dalle braccia della giovanetta e s’avvicinò alla finestra, aprendo silenziosamente le persiane.
Un uomo avvolto in un grande serapé a vivaci colori e col capo nascosto da un ampio cappello di fibre di rotang simile a quello usato dai chinesi, stava fermo in mezzo alla via, col viso volto verso le muraglie del giardino.
– Sei tu, Hang? – chiese il meticcio.
– Sí, – rispose il chinese. – Fuggi o ti arresteranno. Gli spagnuoli hanno saputo che noi siamo sbarcati e se non ti affretti, non lascerai piú la Ciudad.
– Attendimi.
Il meticcio rinchiuse la persiana e nel volgersi si sentí stringere le mani da Teresita.
– Ti cercano! – esclamò ella, con terrore.
– Sí, ma non mi prenderanno, – rispose Romero, alzando fieramente il capo. – Ho delle armi e mi difenderò.
– E tu parti?…
– Se rimango possono uccidermi e bisogna che oggi viva per la libertà delle isole… e per te.
– Ah!… Mi vorrai sempre bene?
– Sí, Teresita, e chissà che un giorno la fatalità non si stanchi di perseguitarci.
Un secondo fischio risuonò sotto le finestre.
– Va’, parti mio valoroso, – disse la giovanetta. – Io non voglio che i miei compatriotti ti uccidano. Ah! quanto dolore in questa separazione e forse… non ti rivedrò piú!
Un nuovo scroscio di pianto le soffocò la voce. Il meticcio la baciò in fronte, poi mentre la giovane si abbandonava fra le braccia di Manuelita, riaprí la persiana, scavalcò il davanzale e si slanciò nella via dicendo ad Hang:
– Eccomi!… Appartengo ora all’insurrezione!…
Capitolo V. IL «FIORE DELLE PERLE»
Hang-tu si era messo rapidamente in cammino senza aver rivolto all’amico una parola. Pareva in preda ad una viva inquietudine e pur affrettando il passo, volgeva la testa da tutte le parti, come se temesse di veder sbucare improvvisamente dei nemici.
Invece di seguire le mura del giardino, si era gettato in mezzo ad un dedalo di viuzze che un tempo dovevano essere fiancheggiate da grandi case, ma che ora si trovavano ingombre di rottami, di muraglie screpolate, di colonne semi-crollanti, tristi avanzi delle scosse tremende del suolo vulcanico e delle ire dell’Albay, un vulcano quasi sempre eruttante lave e fiamme.
Romero, assorto nei suoi pensieri, lo seguiva macchinalmente, senza curarsi di sapere dove lo conducesse, né di conoscere il motivo di quella rapida marcia che somigliava ad una fuga precipitosa, ma dopo alcuni minuti, vedendo che Hang-Tu non accennava ad arrestarsi, anzi che raddoppiava sempre piú il passo, ad un certo momento si arrestò, dicendo:
– Ma dove andiamo?… Questa non è la via che conduce al ponte di Binondo.
– Ti salvo, – rispose il chinese.
– Ma se nessuno mi ha veduto entrare nella Ciudad?…
– Cosa importa?… So che tutti gli alguazil hanno mandato guardie nei sobborghi e che alle sentinelle hanno dato ordine di non lasciar uscire dalla città alcun mulatto, senza averlo diligentemente esaminato.
– Qualcuno ci ha scoperti adunque?…
– I traditori non mancano mai.
– Ma dove andiamo ora?…
– Ti faccio guadagnare la campagna. Prima dell’alba sarai ben lontano da Manilla.
– Ma se mi hai detto che non si può uscire dalla Ciudad?…
– Uscirai egualmente.
– È per questo che sei venuto a troncare il mio colloquio con Teresita?
– Per questo e forse per altro, – rispose Hang-Tu, con un sorriso strano. – Eccoci dinanzi ai bastioni…
– Ma se salto giú mi spezzeranno le gambe.
Invece di rispondere, il chinese mandò il suo solito fischio. Un altro, quasi simile, tosto vi rispose.
– I miei uomini sono puntuali, – disse Hang.
S’arrampicò lentamente sulla scarpa e si trovò dinanzi a due chinesi che parevano fossero scaturiti da terra. Quei due uomini tenevano in mano una lunga fune a nodi e dalle loro spalle pendevano due fucili.
– È tutto pronto? – chiese Hang.
– Sí, capo.
– Li avete veduti?…
– Si sono avvicinati pochi minuti or sono al fossato.
– Hanno i cavalli?
– Quattro e tutti di buona razza.
– Than-Kiú è brava ed intelligente, – disse Hang, con voce leggermente commossa.
A Romero parve che soffocasse a metà un profondo sospiro, ma non vi fece caso. Sapeva che Hang aveva talvolta delle bizzarrie inesplicabili.
Ad un cenno del capo delle società segrete, i due chinesi calarono la corda nel fossato del bastione che s’apriva sei metri piú sotto, ingombro di piante acquatiche e di fango.
– Addio, – disse Hang, abbracciando il meticcio, mentre la sua voce pareva che diventasse maggiormente commossa. – Se le palle dei nemici uccideranno uno di noi, ci rivedremo un giorno nell’altra vita.
– Addio!… – esclamò Romero, stupito. – Ma non vieni tu?
– No, Romero; ma se la morte mi risparmierà, spero di raggiungerti presto sulle trincee di Salitran e di combattere al tuo fianco per l’indipendenza delle isole.
– Ma perché non fuggi con me, mentre ti si cerca?…
– Altri avvenimenti stanno per scoppiare e le mia presenza in Manilla è necessaria.
– Ma quali?…
– Lo so io forse?… Il caso può preparare delle sorprese che io ignoro e che non posso prevedere. Va’, Romero: al di là del fossato troverai due uomini ed una guida sicura, fedele… forse troppo fedele… Veglierà su di te, ma tu veglia su di lei.
– Chi è quella guida?
– Lo saprai fra poco. Addio, o meglio arrivederci presto dinanzi a Salitran.
I due capi dell’insurrezione si abbracciarono un’ultima volta, poi il meticcio si aggrappò alla fune a nodi che i due chinesi tenevano con mani sicure, e scese rapidamente nel fossato.
Avendo, le radici delle piante acquatiche, formato come un reticolato attraverso al fango, gli riuscí facile raggiungere la riva opposta senza bagnarsi.
S’arrestò un momento e guardò verso la cima dell’enorme bastione, giganteggiante nelle tenebre. Proprio sull’orlo egli vide Hang-Tu immobile come una statua di granito, coll’ampio cappello abbassato sul viso e le braccia incrociate. Pareva che il capo degli uomini gialli fosse immerso in profondi pensieri e che non si ricordasse piú del grave pericolo che correva standosene lassú, a cosí breve distanza dai posti di guardia.
Romero gli fece un saluto colla mano, ma senza che Hang rispondesse o si scuotesse da quella immobilità.
Salí la scarpa erbosa, tenendosi curvo per non farsi scorgere dai soldati che potevano vegliare nell’angolo del bastione, dove s’ergevano delle casematte, e raggiunse la via esterna di circonvallazione, gettandosi prontamente in mezzo ai gruppi d’alberi.
– Qui, Romero Ruiz, – disse una voce.
Il meticcio si volse e scorse quattro cavalli che si tenevano immobili sotto la fosca ombra d’un tamarindo colossale. Tre erano montati, ma il quarto aveva la sella vuota.
– Siete voi gli uomini mandati da Hang-Tu? – chiese Romero
– Sí.
Il meticcio gettò uno sguardo sui suoi compagni di viaggio. Due erano robusti giovani malesi, dalle membra massicce ed il corpo tarchiato, ma il terzo pareva piú un fanciullo che un uomo. Essendo però avvolto in un ampio mantello di seta bianca a fiori ed a disegni, che gli copriva buona parte del viso ed avendo in capo un cappello di paglia di Manilla a grandi tese e adorno d’una piuma, non si poteva vedere che fosse, né quale età potesse avere, ma Romero pel momento non si occupò di quel misterioso compagno, che pareva volesse serbare l’incognito.
Salí sul cavallo che uno dei due malesi teneva per la briglia, un vigoroso destriero che doveva correre come il vento, colla testa leggera, il ventre stretto ed i garretti solidi, probabilmente un animale derivato da un incrocio di sangue arabo e spagnuolo, e diede il segnale della partenza.
Il fanciullo si mise alla testa, i due malesi alla retroguardia ed il piccolo drappello partí di galoppo, tenendosi sotto l’ombra degli alberi.
Romero, sempre assorto ne’ suoi pensieri, non si curava della via che battevano. Sapendo però che gli spagnuoli avevano disposto intorno alla capitale numerosi drappelli di soldati, per impedire qualsiasi colpo di mano da parte degli insorti, aveva messo davanti alla propria sella un fucile a retrocarica di ultimo modello, che aveva trovato sospeso all’arcione e si era cinto una cartucciera ben fornita che gli aveva dato uno dei due malesi.
I quattro cavalli galopparono dieci minuti tenendosi a breve distanza dalla via che gira intorno alla città, poi la guida si spinse attraverso a campi coltivati raggiungendo il margine d’un bosco di banani dalle foglie gigantesche.
S’arrestò un momento ascoltando con profondo raccoglimento, scambiò alcune rapide parole coi due malesi, poi fece cenno di avanzare.
Uno dei due giovanotti passò all’avanguardia tenendo il fucile fra le mani e la guida si mise a fianco di Romero, come se volesse proteggerlo da qualche improvviso assalto e fargli scudo col proprio corpo.
Solo allora Romero s’accorse che le vesti di quel fanciullo – tale almeno lo credeva ancora – tramandavano un delicato profumo di lillà! Quell’odore, assolutamente incompatibile per un uomo, fosse pure per un giovanetto che si esponeva audacemente ai pericoli della guerra, lo stupí.
– Ma chi sei tu? – chiese. – Un fanciullo od una donna?…
– Than-Kiú, mio signore, – rispose la guida, ma con una voce cosí dolce, cosí armoniosa, che pareva il gorgheggio di uno di quei gentili usignoli ai quali i chinesi han dato il nome di cantatori di Mongolia.
– Than-Kiú! – esclamò Romero. – Questo è un nome di donna e se non m’inganno, nella lingua dei Celestiali significa Fiore delle Perle.
– Sí, mio signore, – rispose la guida, con maggiore dolcezza.
– Allora sei una fanciulla.
– Del Celeste Impero, mio signore.
– Ma chi ti ha incaricato di venire con me?
– Hang-Tu.
– Ma quell’uomo è pazzo!
– Perché, mio signore?
– Esporre una fanciulla agli orrori della guerra!
– Non temo la guerra.
– Tu non sai che cosa sia.
– Ho udito il cannone rombare a Malaban e ultimamente a Dasmarinas.
– Tu! – esclamò il meticcio, che cadeva di sorpresa in sorpresa.
– Io, mio signore.
– E tu hai adoperato il fucile?…
– Sí, contro gli spagnuoli.
– Strana creatura!…
– Vendicavo mio fratello.
– Chi era tuo fratello?…
La giovane chinese non rispose e chinò il capo sul petto, ma dopo alcuni istanti disse:
– Forse sta per morire.
– Si trova nella mani degli spagnuoli?…
– Non ancora, – rispose Than-Kiú, dopo una breve esitazione, – ma può venire preso da un istante all’altro.
– E tu vieni con me a combattere gli spagnuoli a Salitran?
– Sí.
– Qualche imperioso motivo ti costringe a recarti in quella città?
– Mi hanno detto di guardarti colà ed io obbedisco.
– Conosci la via?
– Meglio di qualunque altro forse.
– Una fanciulla!…
– So dove si trovano le avanguardie dei nemici e forse meglio di tutti. Ti hanno affidato a me, ed io ti condurrò a Salitran, mio signore, dove ti presenterò ai capi degli insorti.
– E ti conoscono?…
– E mi obbediranno anche.
– Ma chi sei tu adunque?…
– Than-Kiú, – rispose la fanciulla.
Poi senza aggiungere altro spronò il cavallo e si addentrò nel bosco, seguendo un sentieruzzo appena visibile e dove l’oscurità era cosí profonda, da non potersi quasi distinguere i tronchi degli alberi che lo fiancheggiavano.
Romero l’aveva seguita assieme ai due malesi che gli si erano messi alle spalle. Non vedevano quasi piú la fanciulla, ma il delicato profumo dei lillà che esalavano le vesti della strana creatura e che si espandeva come un’onda in mezzo alle tenebre, bastava per guidarlo.
Egli la seguiva come fosse attratto da una forza misteriosa, da una volontà potente contro la quale non avrebbe forse potuto resistere e seguendola pensava a lei. Chi poteva essere quella donna, che Hang-Tu gli aveva messo al fianco per guidarlo, attraverso alle molte insidie dei nemici, fino a Salitran?… E perché una donna invece di un uomo che avrebbe potuto essergli di maggiore aiuto, nel momento del pericolo?… Quali occulte mire avevano deciso il potente capo delle società segrete a dargli quella compagna? Vaghi timori cominciavano ad infiltrarsi nel suo animo e pensava ora a tutte quelle parole oscure, inesplicabili, che il chinese aveva pronunciato piú volte il giorno innanzi e quella sera istessa, nel momento della separazione.
Che cosa meditava quell’uomo dal cuore e dagli sguardi impenetrabili?… Il pensiero del meticcio, cosí meditando, si rivolgeva a Teresita e senza sapere il perché, si sentiva invadere da profonde inquietudini. Aveva paura di qualche tenebrosa trama a danno della fanciulla bianca che aveva abbandonata a Manilla.
Quel timore a poco a poco divenne cosí intenso, cosí tormentoso, da non poterlo piú vincere. Sentiva per istinto che qualche cosa di tremendo doveva accadere nella capitale mentre si cercava di allontanarlo.
– Than-Kiú!… – esclamò.
La fanciulla che continuava ad inoltrarsi nel bosco, udendo la voce del meticcio s’arrestò, dicendo:
– Che cosa desidera il mio signore?…
– Rivolgerti una domanda.
– Sono la schiava del mio signore, che può chiedermi tutto.
– Sapresti dirmi perché Hang-Tu è rimasto a Manilla?…
– Forse.
– Hai udito parlare della Perla di Manilla?…
La fanciulla non rispose.
– Mi hai udito?…
– Sí, mio signore, – rispose Than-Kiú, con un accento nel quale si sentiva come una vibrazione triste.
– La conosci?…
– Il Fiore delle Perle può aver udito parlare della Perla di Manilla, ma le perle del mio paese non hanno voce.
– Che cosa vuoi dire? – chiese Romero, con stupore.
Invece di rispondere alla domanda, Than-Kiú arrestò il proprio cavallo dicendo:
– Taci: ascolta!…
Attraverso la foresta si udiva allora come un lontano rimbombo, che rapidamente s’avvicinava. Pareva che un grosso numero di pesanti animali galoppasse in mezzo o ai margini di quell’enorme agglomerato di piante, dirigendosi verso la capitale delle Filippine.
– Gli spagnuoli? – chiese Romero.
– Sí, – rispose Than-Kiú, con un tono di voce che tradiva una viva inquietudine.
– Qualche squadrone di cavalleggeri che ritorna?…
– Di certo, ma vorrei sapere perché corrono verso la capitale, mentre gl’insorti si battono a Bulacan, a Cavite, a Salitran ed a Malaban.
– Che temano un colpo di mano sulla Ciudad?…
– Lo ignoro, – rispose la giovane chinese, ma con un certo imbarazzo che non isfuggí al meticcio.
– O lo sai? – chiese questi.
– Taci, mio signore, o ci faremo prendere.
Con un agilità sorprendente era balzata a terra, ed aveva fatto sdraiare il suo cavallo sotto le ampie foglie d’un gruppo di sagu, avvolgendo la testa dell’animale in una ricca gualdrappa infioccata, che aveva tolta dall’arcione.
I due malesi ed il meticcio fecero altrettanto e si nascosero dietro i quattro cavalli coi fucili in mano.
Il fragore s’avvicinava sempre. Ormai non si poteva piú ingannarsi: un grosso gruppo di cavalli, forse uno squadrone galoppava attraverso la foresta movendo verso la capitale.
Di tratto in tratto si udivano anche i tintinnii delle sciabole dei cavalieri e dei comandi imperiosi.
Dieci minuti dopo i quattro insorti videro sfilare, a meno di cento passi, una lunga fila di cavalli montati da soldati spagnuoli, i quali tenevano in mano una lunga fila di moschetti come se temessero qualche improvvisa sorpresa.
Era uno squadrone del reggimento Luzon, in pieno assetto di guerra. Fortunatamente non s’accorse della presenza dei quattro ribelli e passò oltre scomparendo fra le tenebre.
Than-Kiú attese che si allontanasse, poi quando ogni rumore cessò fece rialzare il cavallo, balzò in arcione e si rimise in marcia, facendo cenno a Romero e ai due malesi di seguirla.
Pareva molto inquieta e preoccupata. Non rispondeva piú alle domande di Romero e di tratto in tratto si fermava per ascoltare.
Un quarto d’ora dopo un altro fragore simile al primo si udí, ma verso la riva del Passig. Pareva che un altro squadrone di cavalleggeri si dirigesse verso la capitale.
Than-Kiú si era nuovamente arrestata, interrogando i due malesi in una lingua che il meticcio non comprendeva, poi aveva ripreso le mosse, ma eccitando il suo cavallo. Aveva però preso un’altra direzione, come se volesse avvicinarsi al canale meridionale del Passig che va a finire verso Las Pinas.
La marcia continuò per un’altra mezz’ora sempre in mezzo al bosco, poi la giovane chinese tornò ad arrestarsi. Scese nuovamente di sella e si fermò dinanzi al proprio cavallo, incrociando le braccia sul seno, ma senza pronunciare sillaba.
– Che cosa vuoi? – chiese Romero.
– Bisogna arrestarci qui, mio signore, – rispose ella.
– Perché?
– Gli spagnuoli hanno chiuso tutti i passi. Ho scorto or ora i fuochi dei loro accampamenti.
– Ritorniamo a Manilla?…
Than-Kiú scosse il capo, dicendo:
– No: attenderemo la notte ventura.
– Nascosti qui?…
– Than-Kiú offrirà un ricovero al suo signore.
Prese il cavallo per la briglia, si cacciò in mezzo ad un macchione enorme di aranci, di borassi, di banani selvatici e di alberi gommiferi che colle loro smisurate foglie dovevano anche, in pieno meriggio, proiettare un’ombra assai cupa, e poco dopo s’arrestava dinanzi ad una casupola mezzo diroccata, dicendo:
– Ecco il rifugio degli insorti quando sono costretti ad arrestarsi. Il mio signore non correrà pericolo alcuno.