Kitabı oku: «L'innocente», sayfa 16
XXXIV.
Giuliana andava ricuperando le forze di giorno in giorno, con lentezza. La mia assiduità non veniva meno. Delle dichiarazioni fatte dal dottor Vebesti io anzi mi valevo per moltiplicare le mie vigilanze, per non lasciare che altri prendesse le mie veci, per resistere a mia madre e a mio fratello che mi consigliavano il riposo. Il mio corpo s’era oramai abituato alla dura disciplina e non si stancava quasi più. Tutta la mia vita era tra le pareti di quella stanza, nell’intimità di quell’alcova, nel cerchio in cui respirava la cara malata.
Avendo ella bisogno d’una calma assoluta, dovendo ella parlar poco per non stancarsi, io m’adoperavo ad allontanar dal suo letto anche le persone familiari. Quell’alcova dunque rimaneva segregata dal resto della casa. Per ore ed ore io e Giuliana rimanemmo soli. E poiché ella era tenuta dal male ed io ero intento al mio ufficio pietoso, talvolta ci avveniva di dimenticare la nostra sventura, di smarrire la nozione della realtà e di non serbare altra conscienza che quella del nostro immenso amore. Mi pareva talvolta che nulla più esistesse di là dalle cortine, tanta era l’intensione di tutto il mio essere verso la sofferente. Nulla veniva a ricordarmi la cosa tremenda. Io vedevo d’innanzi a me una sorella che soffriva e non avevo altra sollecitudine che di alleggerire la sua pena.
Non di rado questi veli d’oblio furono lacerati con violenza. Mia madre parlò di Raimondo. Le cortine si aprirono per lasciar passare l’intruso.
Lo portò mia madre sulle braccia. Ed io ero là. Sentii d’esser divenuto pallido, perché tutto il sangue m’affluì al cuore. Che provò Giuliana?
Io guardavo quel viso rossiccio, grosso come il pugno di un uomo, mezzo nascosto dalla cuffia trapunta; e con un’avversione feroce, che annullava nella mia anima qualunque altro sentimento, pensai: «Come farò a liberarmi di te? Perché non moristi soffocato?». Il mio odio non aveva ritegno; era istintivo, cieco, indomabile, quasi direi carnale; pareva infatti che avesse la sua sede nella mia carne, che sorgesse da tutte le mie fibre, da tutti i miei nervi, da tutte le mie vene. Nulla poteva reprimerlo, nulla poteva distruggerlo. Bastava la presenza dell’intruso, in qualunque ora, in qualunque congiuntura, perché dentro di me avvenisse una specie d’annullazione istantanea ed io fossi posseduto da un solo unico sentimento: dall’odio contro di lui.
Disse mia madre a Giuliana:
– Guarda, in pochi giorni, come è già mutato! Somiglia più a te che a Tullio; ma non molto a nessuno dei due. È ancóra troppo piccolo. Vedremo in seguito… Gli vuoi dare un bacio?
Ella accostò la fronte del bambino alle labbra dell’inferma. Che provò Giuliana?
Ma il bambino cominciò a piangere. Io ebbi la forza di dire a mia madre, senza acredine:
– Portalo via; ti prego. Giuliana ha bisogno di calma. Queste scosse le fanno molto male.
Mia madre uscì dall’alcova. I vagiti crescevano e mi davano pur sempre la stessa sensazione di laceramento doloroso e la voglia di correre a soffocarli per non udirli più. Li udimmo per qualche istante mentre si allontanavano. Quando alfine cessarono, il silenzio mi parve enorme; mi cadde sopra come un macigno, mi oppresse. Ma non m’indugiai in quella pena, perché sùbito pensai che Giuliana aveva bisogno di soccorso.
– Ah, Tullio, Tullio, non è possibile…
– Taci, taci, se tu mi ami, Giuliana. Taci; ti prego.
Io la supplicavo, con la voce, col gesto. Tutto il mio orgasmo ostile era caduto; e io non d’altro mi dolevo se non del dolore di lei, non altro temevo se non il danno recato all’inferma, l’urto ricevuto da quella vita così fragile.
– Se tu mi ami, non devi pensare a null’altro che a guarire. Vedi? Io non penso che a te, non soffro che per te. Bisogna che tu non ti tormenti; bisogna che tu ti abbandoni tutta alla mia tenerezza, per guarire».
Ella disse con la sua voce tremante e fievole:
– Ma chi sa quel che tu provi dentro! Povera anima!
– No, no, Giuliana, non ti tormentare! Io non soffro che per te, nel vederti soffrire. Io dimentico tutto, se tu sorridi. Se tu ti senti bene, io sono felice. Se tu mi ami, dunque, devi guarire, devi essere calma, ubbidiente, paziente. Quando sarai guarita, quando sarai più forte, allora… chi sa! Dio è buono.
Ella mormorò:
– Dio, abbi misericordia di noi.
«In che modo?» Io pensai: «Facendo morire l’intruso». Ambedue alzavamo dunque un augurio di morte, anch’ella dunque non vedeva altro scampo che nella distruzione del figliuolo. Non v’era altro scampo. E mi tornò alla memoria il breve dialogo che avevamo avuto in un tramonto lontano, sotto gli olmi; e mi tornò alla memoria la confessione dolorosa. «Ma ora ch’egli è nato, l’aborre ella ancóra? Può ella provare un’avversione sincera contro la carne della sua carne? Prega ella sinceramente Iddio perché si riprenda la sua creatura?» E mi tornò la folle speranza che mi era balenata in quella sera tragica: «Se entrasse in lei la suggestione del delitto e divenisse a poco a poco tanto forte da trascinarla!…». Non avevo io pensato per un attimo a un mal riuscito tentativo delittuoso, vedendo la levatrice stropicciare sul dorso e su le piante dei piedi il corpicciuolo paonazzo del bimbo tramortito? Era stato, anche quello, un pensiero folle. Certo Giuliana non avrebbe mai osato…
E io guardai le sue mani lungo il lenzuolo, prone, così pallide che soltanto le vene azzurre le distinguevano dal lino.
XXXV.
Uno strano rammarico mi pungeva, ora che l’inferma andava di giorno in giorno migliorando. Mi si moveva in fondo al cuore un vago rimpianto verso i tristi giorni grigi passati dentro l’alcova, mentre giungeva cupa dalle campagne autunnali la monotonia della pioggia. Quelle mattine, quelle sere, quelle notti, benché penose, avevano una loro grave dolcezza. La mia opera di carità mi pareva ogni giorno più bella. Un’abondanza d’amore m’inondava l’anima e sommergeva talvolta i pensieri oscuri, mi dava talvolta l’oblio della cosa tremenda, mi suscitava qualche illusione consolante, qualche sogno indefinito. Provavo io talvolta là dentro un sentimento simile a quello che si prova nell’ombra delle cappelle segrete: mi sentivo in un rifugio contro le violenze della vita, contro le occasioni del peccato. Mi pareva talvolta che le cortine leggere mi separassero da un abisso. M’assalivano repentine paure dell’ignoto. Ascoltavo nella notte il silenzio di tutta la casa intorno a me; e vedevo, con gli occhi dell’anima, in fondo a una stanza remota, al lume d’una lampada, la culla ove dormiva l’intruso, il diletto di mia madre, il mio erede. Mi scoteva un gran brivido di orrore; e rimanevo a lungo sbigottito sotto il balenio sinistro d’un solo pensiero. Le cortine mi separavano da un abisso.
Ma ora che Giuliana di giorno in giorno andava migliorando, venivano a mancare le ragioni dell’isolamento; e a poco a poco la comune vita domestica invadeva la stanza tranquilla. Mia madre, mio fratello, Maria, Natalia, Miss Edith entravano assai più spesso, si trattenevano assai più a lungo. Raimondo s’imponeva alla tenerezza materna. Non era più possibile né a me né a Giuliana evitarlo. Bisognava prodigargli i baci, sorridergli. Bisognava simulare e dissimulare con arte, patire tutte le più raffinate crudeltà del caso, lentamente perire.
Nutrito d’un latte sano e sostanziale, circondato d’infinite cure, Raimondo perdeva a poco a poco quel suo aspetto di cosa ributtante, incominciava a ingrossarsi, a sbiancarsi, a prendere forme più chiare, a tenere bene aperti i suoi occhi grigi. Ma tutti i suoi moti m’erano odiosi, dall’atto delle labbra intorno al capezzolo all’agitazione confusa delle piccole mani. Mai gli riconobbi una grazia, un vezzo; mai ebbi per lui un pensiero che non fosse ostile. Quando ero costretto a toccarlo, quando mia madre me lo porgeva perché io lo baciassi, provavo per tutta la pelle lo stesso raccapriccio che m’avrebbe dato il contatto d’un animale immondo. Tutte le fibre si ribellavano; e i miei sforzi erano disperati.
Ogni giorno mi recava un supplizio nuovo; e mia madre era il gran carnefice. Una volta, rientrando nella stanza all’improvviso e discostando le cortine dell’alcova, scorsi sul letto il bambino posato a fianco di Giuliana. Non c’era nessuno presente. Eravamo là riuniti noi tre soli. Il bambino, stretto nelle fasce bianche, dormiva tranquillo.
– L’ha lasciato qui la mamma – balbettò Giuliana.
Io fuggii come un pazzo.
Un’altra volta Cristina venne a chiamarmi. La seguii nella camera della culla. Mia madre stava là seduta tenendo su le ginocchia il bambino ignudo.
– Te l’ho voluto far vedere prima d’infasciarlo – ella mi disse. – Guarda!
Il bambino sentendosi libero agitava le gambe e le braccia, stravolgeva in qua e in là gli occhi, si ficcava le dita nella bocca sbavazzando. Ai polsi, ai malleoli, dietro le ginocchia, su gli inguini la carne si arrotondava in anelli, velata di cipria; sul ventre gonfio l’ombelico era ancóra sporgente, deforme, bianco di cipria. Le mani di mia madre palpavano con delizia le minute membra, mi mostravano a una a una tutte le particolarità, s’indugiavano su quella pelle nitida e liscia pel bagno recente. E pareva che il bambino ne godesse.
– Senti, senti com’è già sodo! – diceva ella, invitandomi a palparlo.
E bisognò ch’io lo toccassi.
– Senti come pesa!
E bisognò che io lo sollevassi, che io sentissi palpitare quel corpicciuolo tiepido e morbido tra le mie mani invase da un tremito che non era di tenerezza.
– Guarda!
E mia madre sorridendo strinse tra l’indice e il pollice le papille su quel petto delicato che chiudeva la vita tenace degli esseri malefici.
– Amore, amore, amore della nonna! – ella ripeteva, vellicando con un dito il mento del bambino che non sapeva ridere.
La cara testa grigia, che s’era già reclinata col medesimo atto su due culle benedette, ora un poco più canuta si reclinava inconsapevole sul figliuolo d’un altro, su un intruso. Mi pareva che ella non si fosse mostrata così tenera verso Maria, verso Natalia, verso le vere creature del mio sangue.
Ella stessa volle fasciarlo. Gli fece sul ventre il segno della croce.
– Non sei ancóra cristiano!
E volgendosi a me:
– Bisogna che fissiamo oramai il giorno del battesimo.
XXXVI.
Il dottor Jemma, cavaliere del Sacro Sepolcro di Gerusalemme, un bel vecchio gioviale, portò a Giuliana in dono matutino un mazzo di crisantemi bianchi.
– Oh, i fiori che io prediligo! – disse Giuliana. – Grazie.
Prese il mazzo, lo guardò a lungo insinuandovi le dita affilate: e una triste rispondenza correva tra il suo pallore e il pallore dei fiori autunnali. Erano crisantemi ampli come rose aperte, folti, grevi; avevano il colore delle carni malaticce, esangui, quasi disfatte, la bianchezza livida che copre le guance delle piccole mendicanti intirizzite dal gelo. Alcuni portavano lievissime venature violacee, altri pendevano un poco nel giallo, delicatamente.
– Tieni – ella mi disse. – Mettili nell’acqua.
Era di mattina; era di novembre; era di poco trascorso l’anniversario d’un giorno nefasto che quei fiori rammemoravano.
Che farò senza Euridice?…
Mi sonò nella memoria l’aria di Orfeo, mentre mettevo in un vaso i crisantemi bianchi. Si risollevarono nel mio spirito alcuni frammenti della scena singolare accaduta un anno innanzi; e rividi Giuliana in quella luce dorata e tepida, in quel profumo così molle, in mezzo a tutti quegli oggetti improntati di grazia feminile, dove il fantasma della melodia antica pareva mettere il palpito d’una vita segreta, spandere l’ombra d’un non so che mistero. – Avevano suscitato anche in lei qualche ricordo quei fiori?
Una mortale tristezza mi pesava su l’anima, una tristezza d’amante inconsolabile. L’Altro ricomparve. I suoi occhi erano grigi come quelli dell’intruso.
Il dottore mi disse, dall’alcova:
– Potete aprire la finestra. È bene che la stanza sia molto aerata, che entri molto sole.
– Oh, sì, sì, apri! – esclamò l’inferma.
Apersi. In quel punto entrò mia madre con la nutrice che portava su le braccia Raimondo. Io restai fra le tende, mi chinai sul davanzale, guardai la campagna. Udivo dietro di me le voci familiari.
Era sul finire di novembre, era già passata anche l’estate dei morti. Una grande chiarità vacua si spandeva su la campagna umida, sul lineamento nobile e pacato dei colli. Sembrava che per le cime degli oliveti indistinte vagasse un vapore argenteo. Qualche filo di fumo qua e là biancicava al sole. Ora sì ora no il vento portava un crepito di foglie labili. Il resto era silenzio e pace.
Io pensavo: «Perché ella cantava, quella mattina? Perché udendola provai quel turbamento, quell’ansietà? Ella mi pareva un’altra donna. Amava ella dunque colui? A quale stato del suo animo rispondeva quell’effusione insolita? Ella cantava, perché amava. Forse anche m’inganno. Ma non saprò mai il vero!». Non era più la torbida gelosia dei sensi ma un rammarico più alto, che mi si partiva dal centro dell’anima. Pensavo: «Quale ricordo ha ella di colui? Quante volte il ricordo l’ha punta? Il figlio è un legame vivente. Ella ritrova in Raimondo qualche cosa dell’uomo che l’ha posseduta: ella ritroverà somiglianze più certe. Non è possibile ch’ella dimentichi il padre di Raimondo. Forse ella lo ha sempre davanti agli occhi. Che proverebbe se lo sapesse condannato?».
E m’indugiai nell’imaginare i progressi della paralisi, nel formare dentro di me imagini di colui a similitudine di quelle che mi dava il ricordo del povero Spinelli. E me lo rappresentavo seduto su una gran poltrona di cuoio rosso, pallido d’un pallor terreo, con tutti i lineamenti della faccia irrigiditi, con la bocca dilatata e aperta, piena di saliva e d’un balbettio incomprensibile. E lo vedevo fare ad ogni tratto sempre il medesimo gesto per raccogliere in un fazzoletto quella saliva continua che gli colava dagli angoli della bocca…
– Tullio!
Era la voce di mia madre. Mi volsi, andai verso l’alcova.
Giuliana stava supina, molto abbattuta, silenziosa. Il dottore esaminava sul capo del bambino un principio di crosta lattea.
– Faremo dunque il battesimo dopo domani – disse mia madre: – Il dottore crede che Giuliana dovrà rimanere ancora qualche tempo a letto.
– Come la trovate, dottore? – domandai al vecchio, accennando l’inferma.
– Mi pare che ci sia un po’ di sosta nel miglioramento – rispose, scotendo la bella testa canuta. – La trovo debole, molto debole. Bisogna accrescere la nutrizione, fare qualche sforzo…
Giuliana interruppe, guardandomi con un sorriso stanchissimo:
– M’ha ascoltato il cuore.
– Ebbene? – io chiesi, volgendomi sùbito al vecchio.
Mi parve di vedergli passare su la fronte un’ombra.
– È un cuore sanissimo – rispose sùbito. – Non ha bisogno che di sangue… e di tranquillità. Su, su, animo! Come va l’appetito stamani?
L’anemica mosse le labbra a un atto quasi di disgusto. Fissava la finestra aperta, quel lembo di cielo delicato.
– È una giornata fredda, oggi? – domandò con una specie di timidezza, ritraendo le mani sotto le coperte.
E rabbrividì visibilmente.
XXXVII.
Il giorno dopo, io e Federico andammo a visitare Giovanni di Scòrdio. Era l’ultimo pomeriggio di novembre. Andammo a piedi, a traverso i campi arati.
Camminavamo in silenzio, pensosi. Il sole inclinava all’orizzonte, lento. Una polvere d’oro impalpabile fluttuava nell’aria quieta sul nostro capo. La terra umida aveva un color bruno vivace, un aspetto di possanza tranquilla, quasi direi una pacata consapevolezza della sua virtù. Dalle glebe saliva un fiato visibile, simile a quello spirante dalle narici dei buoi. Le cose bianche in quella luce mite assumevano una straordinaria bianchezza, una candidezza di neve. Una vacca di lontano, la camicia d’un agricoltore, un telo spaso, le mura d’una cascina risplendevano come in un plenilunio.
– Sei triste – mi disse Federico dolcemente.
– Sì, amico mio: molto triste. Dispero.
Seguì ancóra un lungo silenzio. Dalle fratte stormi d’uccelli si levavano frullando. Giungeva fioco lo scampanio d’una mandra lontana.
– Di che disperi? – mi chiese mio fratello, con la stessa benignità.
– Della salvezza di Giuliana, della mia salvezza.
Egli tacque; non proferì nessuna parola di consolazione. Forse il dolore lo stringeva, dentro.
– Ho un presentimento – soggiunsi. – Giuliana non si leverà.
Egli tacque. Passavamo per un sentiero alberato; e le foglie cadute stridevano sotto i nostri piedi; e, dove le foglie non erano, il suolo risonava come per cavità sotterranee, cupo.
– Quando ella sarà morta, – soggiunsi – io che farò?
Uno sgomento repentino m’assalse, una specie di pànico; e guardai mio fratello che taceva accigliato, mi guardai d’intorno per la muta desolazione di quell’ora diurna; e mai come in quell’ora sentii il vuoto spaventevole della vita.
– No, no, Tullio, – disse mio fratello – Giuliana non può morire.
Egli affermava una cosa vana, senza valore alcuno d’innanzi alla condanna del Destino. Eppure egli aveva pronunziato quelle parole con una semplicità che mi scosse, tanto mi parve straordinaria. Così talvolta i fanciulli pronunziano a un tratto parole inaspettate e gravi che ci colpiscono nel mezzo dell’anima; e pare che una voce fatidica parli per le loro labbra inconsapevoli.
– Leggi nel futuro? – gli domandai, senz’ombra d’ironia.
– No. Ma questo è il mio presentimento; e io ci credo.
Ancóra una volta mi venne dal buon fratello un lampo di confidenza; ancóra una volta per lui s’allargò un poco il duro cerchio che mi serrava il cuore. Il respiro fu breve. Nel resto del cammino egli mi parlò di Raimondo.
Come giungemmo in vicinanza del luogo ove abitava Giovanni di Scòrdio, egli scorse nel campo la figura alta del vecchio.
– Guarda! È là. Va seminando. Gli portiamo l’invito in un’ora solenne.
Ci appressammo. Io tremavo forte, dentro di me, come se mi accingessi a una profanazione. Andavo infatti a profanare una bella e grande cosa; andavo a chiedere la paternità spirituale di quel vecchio venerabile per un figliuolo adulterino.
– Guarda che figura! – esclamò Federico soffermandosi e indicando il seminatore. – Ha l’altezza d’un uomo, eppure sembra un gigante.
Ci soffermammo dietro un albero, sul limite del campo, a guardare. Intento all’opera, Giovanni non ci aveva ancóra veduti.
Egli avanzava pel campo dirittamente, con una lentezza misurata. Gli copriva il capo una berretta di lana verde e nera con due ali che scendevano lungo gli orecchi all’antica foggia frigia. Un sàccolo bianco gli pendeva dal collo per una striscia di cuoio, scendendogli davanti alla cintura pieno di grano. Con la manca egli teneva aperto il sàccolo, con la destra prendeva la semenza e la spargeva. Il suo gesto era largo, gagliardo e sapiente, moderato da un ritmo eguale. Il grano involandosi dal pugno brillava talvolta nell’aria come faville d’oro, e cadeva su le porche umide egualmente ripartito. Il seminatore avanzava con lentezza, affondando i piedi nudi nella terra cedevole, levando il capo nella santità della luce. Il suo gesto era largo, gagliardo e sapiente; tutta la sua persona era semplice, sacra e grandiosa.
Entrammo nel campo.
– Salute, Giovanni! – esclamò Federico, andando incontro al vecchio. – Sia benedetta la tua semenza. Sia benedetto il tuo pane futuro.
– Salute! – io ripetei.
Il vecchio tralasciò l’opera; si scoperse il capo.
– Copriti, Giovanni, se non vuoi che ci scopriamo – disse Federico.
Il vecchio si coprì, confuso, quasi timido, sorridendo. Domandò, umile:
– Perché tanto onore?
Io dissi, con una voce che mi sforzai di rendere ferma:
– Sono venuto a pregarti di tenere a battesimo il mio figliuolo.
Il vecchio mi guardò attonito, poi guardò mio fratello. La sua confusione crebbe. Egli mormorò:
– A me tanto onore!
– Che mi rispondi?
– Sono il tuo servo. Dio ti renda merito dell’onore che vuoi farmi oggi e Dio sia lodato per questa gioia che dà alla mia vecchiaia. Tutte le benedizioni del cielo scendano sul tuo figliuolo.
– Grazie, Giovanni.
E gli stesi la mano. E vidi che quei tristi occhi profondi s’inumidirono di tenerezza. Il cuore mi si gonfiò d’un’angoscia smisurata.
Il vecchio mi domandò:
– Come lo chiami?
– Raimondo.
– Come tuo padre, di felice memoria. Quello era un uomo! E voi gli somigliate.
Disse mio fratello:
– Sei solo a seminare il grano.
– Solo. Io lo getto e io lo ricopro.
E indicò l’erpice e il bidente che rilucevano su la terra bruna. D’intorno si vedevano i semi non anche ricoperti, i buoni germi delle spiche future.
Disse mio fratello:
– Continua dunque. Ti lasciamo alla tua opera. Tu verrai domattina alla Badiola. Addio, Giovanni. Sia benedetta la tua semenza.
Ambedue stringemmo quelle mani infaticabili, santificate dalla semenza che spargevano, dal bene che avevano sparso. Il vecchio fece l’atto d’accompagnarci verso la callaia. Ma si soffermò, esitante. Disse:
– Vi chiedo una grazia.
– Parla, Giovanni.
Egli apri il sacco che gli pendeva dal collo.
– Prendete un pugno di grano e gettatelo nel mio campo.
Io pel primo affondai la mano nel frumento, ne presi quanto potei, lo sparsi. Mio fratello m’imitò.
– Questo ora vi dico – soggiunse Giovanni di Scòrdio con la voce commossa, guardando la terra seminata. – Dio voglia che il mio figlioccio sia buono come il pane che nascerà da questa semenza. Così sia.