Kitabı oku: «L'arte di far debiti», sayfa 2
– Per continuare il mio piccolo commercio, rispose quegli sorridendo.
– Già… cʼintendiamo…! il commercio dei piccoli puff! E tu briccone hai voluto incominciare da me…
– Dal mio primo maestro… dallʼuomo, a cui debbo quelle prime nozioni…
– Con quegli abiti indosso, con quel redingot cascante e sbottonato, con quegli scarponi da montanaro, a Parigi non riuscirai a nulla. Io ti ho detto più volte che il primo anello della interminabile catena dei puff vuol essere battuto nella bottega di un sarto… Pensa dunque ad abbigliarti un poʼ meglio… ovvero… senti, briccone! pensiamo un poco…! voglio fare anchʼio qualche piccolo sacrifizio per un fratello… Gli abiti non mi costano nulla; i tailleurs delle loro maestà gli imperatori dʼAstria e del gran Mogol mi hanno fornito la guardaroba a prezzo… di affezione. – Vuoi tu approfittare di un abito completo da soirée che ha implorato questa mattina gli onori della mia anticamera…?
– Unʼabito da soirée! – rispose con una smorfia sardonica il mio piccolo puffista– ma ti pare?.. questi non sono istromenti da par mio… Io lavoro assai meglio col mio rèdingot sdruscito e i miei grossi scarponi!
Io mi sentii umiliato da quella risposta, e da quel fare derisorio – e collo sguardo sollecitavo una spiegazione.
– Tu devi sapere, – rispose lʼamico indovinando la mia curiosità – tu devi sapere che io ho già trovato a Parigi la mia vittima– intendiamoci – la mia piccola vittima!– un vecchio usuraio romagnolo, il quale, dopo aver servito per ventidue anni il governo del papa in qualità di secondino, e poi in qualità di custode delle carceri ad Ancona, essendo riuscito a metter assieme coʼ suoi risparmii un capitale di circa quattordicimila lire, è venuto a Parigi tutto solo onde intraprendere qualche speculazione sicura. Tu non puoi immaginare quando taccagno e sordido colui sia. Da circa ventʼanni porta in capo un cilindro rossiccio chʼegli dice aver ereditato da suo zio – la sua marsina è rasa come il mento dʼun canonico, sudicia e cascante come una vecchia ragnatela piovuta dal camino. – Non puoi credere quanto io fossi desolato lʼaltro ieri nel dovermi presentare a lui con questo rèdingot che ai tuoi occhi apparisce cosi modesto! Quante storie ho dovuto contargli… quante favole, perchè il mio lusso non lʼadombrasse! Memore delle tue lezioni, io so che il segreto del mio successo deve consistere nel gareggiare di pitoccheria, di sordidezza con quello sporco animale!
– Mio bravo e degno scolaro!… Ma sentiamo cosa hai fatto… e cosa intendi fare?
– Lʼaltro giorno, per esempio, lʼho invitato a pranzo…
– Cattivo principio!.. Un avaro profitta volentieri dei pranzi altrui, ma al tempo stesso concepisce il massimo disprezzo per chi usa la cortesia di invitarlo… Per ogni boccone chʼegli inghiotte, non può che ripetere in cuor suo: questo imbecille mi fa le spese della giornata… si può essere più bestia?.. dar da mangiare ad un altro!
– Io sapeva che il mio romagnolo avrebbe avuto questo pensiero… Ma io aveva preparato il mio piano… io mi era preposto di regalargli un tal pranzo, che egli, quel miserabile taccagno, avesse a rimanere sorpreso deʼmiei talenti economici!
– Briccone!.. Sentiamo… un poco…
– Lo condussi ad un piccolo restaurant nella contrada della Fontaine Moliere– un restaurant molto celebre a Parigi dove si pranza per sedici soldi… Tu certo non conosci quel luogo…
– Ci sono stato qualche volta… nei giorni più secchi… ma non me ne sovvengo… – Il mio romagnolo cominciò a far le meraviglie che in una città quale Parigi si potesse per la modica somma di sedici soldi avere un pranzo di due piatti, minestra, piccolo giardinetto, un bicchiere di vino od una bottiglia di birra, e pane a discrezione… Sopratutto egli rimase colpito del pane a discrezione!.. – Vedi, io gli diceva mettendomi a tavola, quando mi permetto uno di questi pranzi di lusso, non dimentico mai di indossare il mio grande rèdingot da quattordici saccoccie? Io non esco mai dal restaurant senza portar meco una provvigione di pane che mi basti per tutta la settimana. Di tal modo questo pranzo, che rappresenta un valore nominativo di sedici soldi, non viene a costarmi che sedici centesimi! – Il mio romagnolo, in udirmi, spalancò una bocca da ippopotamo… Da quella foce bavosa io vidi colare ad un tempo la sorpresa e lʼammirazione. Più tardi, mangiando, si venne a ragionare dei varii restaurants di Parigi, ove si danno pranzi al massimo buon mercato – promisi di condurlo il giorno seguente in una gargotte dove al prezzo di sedici soldi avremmo mangiato lautamente tutti e due. A tale annunzio il mio uomo divenne pallido dalla commozione – mi stese la mano come non aveva mai fatto, e col pianto sugli occhi, come chi violentemente reagisca contro la propria natura: – buon amico, mi disse, voi permetterete… non vorrete farmi il torto… domani… cosi alla buona… insomma io vi invito… a pranzo al restaurant… che ora avete nominato… a patto… come voi dicevate… che la spesa non oltrepassi gli otto soldi… per bocca!.. »
Il racconto del mio piccolo puffista mi destava il più vivo interesse. Non avrei mai immaginato che a Parigi esistessero delle gargottes cotanto economiche da fornire un pranzo per otto soldi. Io già cominciava a comprendere il piano strategico del mio povero allievo; ma pure, ondʼessere informato di tutto, lo pregai di continuare la sua storia.
«Per dirtela in brevi parole – proseguì lʼamico – allʼindomani, verso le ore quattro, io mi recai in compagnia del mio splendido anfitrione nella gargotte du Chat-gris in via dei Mathurins. – Scendemmo una diecina di gradini – ci trovammo in una camera oscura, tutta ingombra di piccoli tavoli che attendevano dei commensali. – Su quei tavoli erano schierate delle catinelle ricolme di pane affettato – quel pane non aveva colore – ciascuna fetta rappresentava una specialità del prodotto. – Noi sedemmo ad uno dei tavoli collʼaria di due epuloni decaduti – Il mio romagnolo mi faceva notare che la sala era più che decente, che dalle casseruole lontane esalava un profumo squisito, che infine tutto era pel meglio nel migliore dei restaurants possibili.
«Frattanto entravano degli altri commensali. – Il padrone della gargotte andava in giro a complimentare i suoi clienti, distinguendo di una particolare attenzione alcuni individui della specie più vorace, i quali, a giudicarne dallo sguardo, minacciavano dʼinghiottire per antipasto i cucchiari e le forchette di stagno. – Quando tutti i posti furono occupati, il direttore dello stabilimento diede lʼannunzio del pasto. – Unʼenorme caldaia di brodo fu portata nel mezzo della sala; gli abituati della gargotte accorsero intorno a quella colle loro zuppiere, e una donna di circa sessantanni, montata sovra una seggiola, diede principio alla solenne distribuzione del brodo. – Questa distribuzione si operava con un sistema tuttʼaffatto parigino. – La grande prètresse della cerimonia tuffava nella caldaia una lunga canna da clistero, e dopo averla riempita di quellʼonda senza, nome, la schizzava, a discrezione degli affamati, nelle ampie scodelle che stavano in giro. – Il mio romagnolo si levò in piedi come gli altri – io balzai dietro lui, e, raccolta la nostra porzione di liquido, tornammo a sedere presso la tavola per ruminare tranquillamente e a tutto piacere la nostra zuppa. Dopo quel pasto, venne servita una frittura di color tetro, bituminosa e salata, una frittura alla quale i più nobili visceri di tutto il regno animalesco avevano portato il loro tributo. – Quella frittura era abbondantissima – ragione per cui il mio romagnolo la trovò eccellente!
«Durante quel pasto, cominciarono le intimità, le confidenze reciproche. Lʼamico mi pose al fatto dei suoi piccoli segreti che in parte io già conosceva, si fece a discutere meco i suoi piani, mi chiese dei consigli… Era il varco a cui io lo attendeva… Un uomo che domanda consigli sul modo dʼimpiegare i suoi capitali… è una vittima che si offre spontanea, è un piccione che vuoi essere spiumato ad ogni costo.
« – II consiglio chʼio vi posso dare – gli risposi trangugiando un morsello di frittura che forse il giorno innanzi era un turacciolo di bottiglia – il consiglio che io vi posso dare è quello di non accingervi in questo dannato paese a veruna speculazione, quando non siate ben certo che al termine di un mese ogni vostro quattrino debba moltiplicarsi nelle proporzioni che che ora sto per descrivervi.
«Ciò detto, io mi levai di tasca un portafogli, e colla matita gli dimostrai a tutto rigore di cifre qualmente da un sol quattrino si possa, in sedici giorni ricavare lʼinteresse di 325 lire, e in un mese di oltre un milione, a patto che il prodotto di questo prodotto vada ogni giorno raddoppiando.
«Il mio uomo era stordito dalla logica dei miei calcoli – egli fissava le cifre collʼocchio del basilisco – il suo collo si era allungato di due spanne. Malgrado la fiera tensione di tutte le membra, di tutti i sensi, il mio romagnolo non sapeva capacitarsi.
«Io dovetti spiegargli il mio sistema col denaro alla mano.
«Vedete, gli dissi, questo è un centesimo: se nel termine di 24 ore voi riuscite a raddoppiarlo, domani questo rappresenterà necessariamente il valore di due. Or bene, come avete raddoppiato lʼuno, colla medesima facilità, voi otterrete che per lʼindomani si raddoppi anche il due– eccovi quattro centesimi, che il dì seguente diverranno otto, poi sedici, poi trentadue, poi sessantaquattro, e via via…
«Provatevi a tirare innanzi con questo metodo, e al termine di due anni, il vostro quattrino avrà prodotto una tal cifra di milioni da imbarazzare tutti i calcoli umani.
«Io non posso descriverti lʼeffetto di questo mio piano… puffistico!
«Ti basti sapere che il mio romagnolo, dopo aver pagato quel lauto pranzo di otto soldi per cadauno, volle anche costringermi ad accettare un caffè da cinque centesimi. Quellʼuomo è mio!.. Non mi lascia più… Ieri mattina è venuto a svegliarmi alle ore cinque… Ha voluto mostrarmi una parte deʼ suoi capitali – un portafoglio contenente dodici mila franchi in biglietti di banca, e una cinta di cuoio imbottita di napoleoni doppi…
«Due giorni ancora… e se il diavolo non ci mette la coda… la vittima farà spontaneamente la rassegna dei suoi beni nelle mani del tuo umile ed indegno scolaro… del tuo piccolo puffista!..»
Questa istoria dellʼamico mi diverti infinitamente, ed io non ho cessato mai di applaudire a me stesso dʼaver contribuito in quel giorno, col mio obolo da cinque franchi, ad agevolargli la riuscita di quellʼameno colpo puffistico. Due settimane dopo, il mio piccolo allievo era divenuto socio e amministratore del romagnolo taccagno – il quale, dopo avergli confidato tutto il suo patrimonio, lo aveva spinto a partire per le Antille onde intraprendervi con sollecitudine la coltivazione del cafè-sucrè. Il mio piccolo allievo era riuscito a persuadere la sua vittima, che mettendo i semi del caffè comune ad ammollirsi per ventiquattro ore in una infusione di melassa, questi semi avrebbero prodotto un caffè perfettamente raddolcito e tale da potersi servire senza zucchero.
Il romagnolo sta ancora attendendo i dispacci che gli annunzino dalle Antille i primi risultati di questa grandiosa non meno che immaginosa speculazione!
CAPITOLO IV
La corda sensibile
Tutto sta a trovare la corda sensibile. Il puff è come lʼamore. – Volete farvi amare da una donna? – Convien toccare e solleticare la sua corda sensibile. – Il medesimo processo si tiene per spremere lʼoro da una vittima.
Lʼaneddoto che più sopra ho riferito spiega in parte il meraviglioso segreto. La corda sensibile del vecchio romagnolo era lʼavarizia, e il mio piccolo allievo, fingendosi avaro a sua volta, raggiunse il suo nobile intento.
Studiate attentamente le tendenze e le passioni della vostra vittima, e innanzi tutto abbiate sempre in mente che la vanità costituisce il principale elemento del carattere umano. – Da questa verità fisiologica emerge necessariamente che lʼadulazione vuol riputarsi uno degli ausiliari più efficaci e potenti per bene iniziare e condurre a buon fine una operazione puffistica.
A Firenze, anni sono, io piantai uno splendido puff ad un ricco banchiere, il quale aveva la debolezza di credersi poeta. Nulla più detestabile deʼ suoi versi. Egli si piccava di improvvisare sonetti a rime obbligate, e una volta lanciato nella carriera, non vi era più modo di arrestarlo. Quellʼuomo era il terrore dei circoli – quandʼegli apriva lo scartafaccio per leggere le sue interminabili pappolate – quandʼegli, annunziandosi invasato dallʼestro, domandava enfaticamente delle rime, il vuoto si faceva intorno a lui e gli sfortunati chʼerano costretti ad ascoltarlo, si contorcevano sulle seggiole come i gatti a temporale imminente. – Orbene: io mi ebbi il coraggio di rimanere parecchie notti da solo a solo con lui a proporgli dei temi e delle rime e ad ascoltare le sue narcotiche stramberie. Quellʼuomo in brevissimo tempo prese ad adorarmi. Quandʼegli declamava i suoi versi, io spalancava certi occhiacci da mettere il brivido ai morti; io mi asciugava la fronte ad ogni tratto, io piangeva, sospirava, io balzava tratto tratto dalla seggiola e mi faceva a percorrere la sala come un invasato. Una volta questa commedia durò dalle sei della sera fino alle quattro del mattino. Il banchiere era spossato dalla lunga declamazione: dal mio canto io insisteva perchè mi compiacesse di un ultimo sonetto. – No! non è possibile… La mia vena è inaridita… le muse mi abbandonano…! rispondeva il banchiere fissando le rime con occhio torbido e sonnolento. – Come mai? questa sera vi siete stancato di buonʼora, gli dissi levando di tasca lʼorologio: si è appena finito di pranzare…! – Sono le quattro del mattino! rispose il banchiere ingenuamente, dopo aver consultato il suo cilindro dʼoro sfavillante di brillanti. – Le quattro del mattino! gridai io, balzando in piedi colla espressione del più vivo disappunto – possibile!.. ma io sono dunque rovinato!.. Ah! banchiere… il cuore me lo diceva che un giorno o lʼaltro, in grazia dei vostri versi, avrei commesso qualche storditaggine!.. Figuratevi che si tratta… – Ebbene: si tratta?.. domanda ansiosamente il mio uomo spaventato dal mio atteggiamento – si tratta? – Via! non vi allarmate, signor poeta! soggiungo io con voce più calma – il piacere che mi hanno dato i vostri versi, le emozioni di questa dolce e troppo breve serata valgon bene il sacrifizio di diecimila franchi… Cosa sono finalmente, per un mio pari diecimila franchi?.. Una bagatella… una inezia… Dʼaltronde non è detto che siano perduti… – Ma signore… se credete che io possa… – Non vi incomodate, banchiere… non datevi pena per questo incidente… Si trattava di un amico… voi sapete… di quel Lord Midletton, al quale due sere sono ho prestato una piccola somma sul giuoco… Non ho mai conosciuto un giuocatore più sfortunato di Lord Midletton… tanto è vero che in poche settimane di soggiorno a Firenze egli si è dissestato… Orbene, questa notte alle undici agli doveva partire per Londra e si era contenuto che io mi recassi da lui per ritirare la mia piccola somma. Vi confesso che in questo momento quel denaro non mi avrebbe dato incomodo… Il mio corrispondente di Bruxelles è in ritardo… ed è questa la prima volta che, per favorire un amico, mi accade di trovarmi in imbarazzo… Ma è probabile, anzi probabilissimo che lord Midletton abbia incaricato qualcuno di trasmettermi la somma… Domattina farò delle indagini, e nel caso… – E nel caso che queste indagini riuscissero a nulla, soggiunse la mia vittima collʼaccento solenne del banchiere danaroso, io voglio ben sperare che non dimenticherete esistere a Firenze un poeta eccezionale, nel cui scrigno vi è sempre un fondo di cinquecentomila franchi per far onore agli impegni della banca e per favorire qualche amico. – Spero che non ci sia questo bisogno, risposi, ma nel caso che lord Midletton mi avesse dimenticato io mi guarderò bene dal ricorrere ad altri che a voi. Ma badate che io sono più esigente di quello che voi forse immaginate. Io non mi ridurrò mai ad accettare il vostro grazioso prestito se con quello non mi accordate il favore che più volte vi ho dimandato, di pubblicare per le stampe il vostro immortale poema sulla Trasmigrazione delle anime, che io ritengo la più meravigliosa opera uscita dal cervello umano.
Il banchiere sorrise come un ebete, e stendendomi la mano, con voce soffocata dalla beatitudine mi disse: – non mi tentate… non fatemi violenza… non imponete dei patti impossibili… Io posso bene affidare qualche miliajo di lire ad un galantuomo pari vostro – ma gettare le mie perle nel fango? – via! questo sarebbe troppo! Non vi sono che due uomini nellʼetà presente che possano comprendere la mia Trasmigrazione– questi due uomini siamo io e voi!
Allʼindomani verso le quattro, scrissi una lettera al banchiere per fargli capire che io era assai ben disposto ad accogliere i dieci mila franchi a titolo di prestito, ma al tempo stesso io insistevo per la pubblicazione del poema.
Il banchiere mi inviò tosto i dieci mila franchi in tanti biglietti della banca francese e con quelli il manoscritto della Trasmigrazione che egli mi dedicava collʼepigrafe: allʼuno dei due.
Io chiusi la Trasmigrazione delle anime nella valigia, e dopo ventiquattro ore trasmigrai corpo ed anima per regioni ignote.
Troppo lungo sarebbe il narrarvi i grandi e molteplici risultati che io ottenni solleticando la corda sensibile di diversi individui. – Gli esempi che ho riferiti in questo e nel capitolo precedente, aʼ miei lettori perspicaci, dimostreranno lʼimportanza e lʼefficacia del mio metodo.
CAPITOLO V
Dellʼordine del puff
La prima vittima del puffista che vuol slanciarsi nella brillante carriera senza incontrare ostacoli, senza incorrere nei lacci che insidiano ordinariamente i primi passi di tutte le carriere umane, vuol essere il sarto.
Una volta che siate riuscito a puffare un sarto, una volta che abbiate indossato, senza pagarlo, un abito completo da gentiluomo alla moda, eccovi padrone del campo, eccovi sollevato di un tratto nelle più alte e fortunose regioni del puff.
Io prevedo le vostre objezioni. – Voi mi direte che il vestiario non basta – ci vogliono, a completarlo, degli accessorj che il sarto non può fornire – le lingerie, la scarpe, il cappello…
Objezioni da principiante! – È forse detto che a puffare il calzolajo ed il fabbricatore di cappelli si richiegga un sistema particolare, che non sia quello da usarsi col sarto?3
Vi è un Dio per i puffisti. – Io credo anzi che nello stabilire le grandi e immutabili leggi dellʼordine universale, Iddio abbia più che altro pensato alle vaste e molteplici complicazioni che nel seno della umanità dovevono insorgere a causa del puff.
Eppure questo Dio, nel creare gli uomini a sua imagine e similitudine, ha fatto una eccezione pel sarto, e si è compiaciuto, nella sua infinita bontà e sapienza, di dare a questa prima, indispensabile vittima del puffista, degli istinti particolari di caponaggine.
Vi parrà un paradosso la definizione che io sto per darvi: – il sarto è un animale creato da Dio per lasciarsi puffare daʼ suoi proprii abiti.4
Ah! voi credete dunque che il sarto vi faccia credito pei vostri begli occhi, pei vostri baffi inannelati e profumati? Vi ingannate a partito. Se il sarto non ardisce presentarvi il conto, se il sarto non vi importuna, non vi molesta per ottenere il pagamento, tutto ciò proviene dalla grande stima, dal grande rispetto che egli professa per gli abiti che aveste da lui. Più questi abiti saranno ricchi e costosi, e più imporranno al vostro sarto. – Voi non lo avete pagato, non lo pagherete mai – che importa? – Il sarto vedendovi passare col paletot che egli stesso vi ha fornito, non potrà a meno di levarsi il cappello e di inchinarsi fino a terra. Come gli sta bene quel paletot! pensa egli – un paletot da quattrocento franchi…! queste robe non le portano che i grandi signori… Anche lui senza dubbio è un grande signore!
Cosi ragiona il vostro sarto. – Il giorno in cui le maniche del vostro paletot comincieranno a spiumarsi, il giorno in cui i vostri pantaloni avran perduto la primitiva freschezza – tenetevi ben in guardia! Il sarto a sua volta comincierà a diffidare, e per poco che voi non lo abbiate prevenuto, egli sarebbe ben capace di presentarvi la nota! – Non permettete mai che le cose giungano a tale estremo. Quando il sarto ha cessato di sorridervi dolcemente, quando neʼ suoi inchini si palesa qualche stento, quando i suoi occhi sembrano accusare di sbieco lo sdencio delle vostre stoffe, non vi resta tempo da perdere. – Bisogna andargli incontro, bisogna sorprenderlo, commettergli delle nuove vesti che importino la doppia, la tripla somma di quelle che indossate. Il giorno in cui vi avrà rivestito, il sarto vi ridonerà la sua stima e non avrete più nulla a temere da lui.
Colpita la prima vittima, le altre cadono da sè ai vostri piedi. Un uomo elegantemente e riccamente vestito diviene pufffista senza volerlo – egli non ha più bisogno di organizzare i suoi puff; egli li trova belli e fatti ad ogni passo del suo cammino, nella sua anticamera, a fianco del letto.
Puffato il sarto, puffato il calzolajo, puffato il cappellaio, puffata la guantaia, convien darsi premura di puffare un orefice, il quale fornisca a prezzo di puff una bella catena dʼoro per lʼorologio, quattro o cinque anelli e tutti quei ninnoli che figurano cosi bene sul gilet di un puffista come su quello di uno strappadenti. Lʼorefice sarà più duro degli altri – conviene abordarlo con qualche cautela e combatterlo collʼastuzia. Non sarà male che prima di passare a ciò che, in linguaggio puffistico, si chiama la consumazione dellʼatto, procacciate di conciliarvelo frequentando il suo negozio in qualità di dilettante. Un pò di erudizione in materia di pietre preziose potrà assai favorirvi nel puffare un orefice.
Eccovi completo – oramai, per procedere nella grande carriera, non vi resta che a procacciarvi un alloggio – il quale alloggio dovrà essere quindi innanzi il punto centrale delle vostre operazioni – il roccolo di quelle infinite varietà di merli che Dio ha creato a bella posta per farsi spiumare dal puffista.
Intendete fissare dimora per alcun tempo in una città? – In tal caso vi consiglio ad uscire dallʼalbergo per prendere in affitto un grandioso appartamento. Badate però che lʼalbergo rappresenta il transito più sicuro per giungere ad un appartamento sulle ali del puff. Quanto più ingente sarà il puff che voi saprete piantare nellʼalbergo, tanto più facile vi riuscirà lʼimpossessarvi del primo piano di un palazzo senza compromettere la vostra dignità di puffista. – Voi avete quanto si domanda perchè un albergatore si lasci puffare da voi. Non dimenticate gli accessorii, che sono quattro o cinque valigie nuove, piene o vuote non importa, ma tali che col loro peso facciano bestemmiare i facchini della ferrovia e i mozzi dellʼalbergo. Se le valigie, per un capriccio del caso, sono piene di mattoni, non obliate di chiuderle con una ventina di lucchetti. Oltre alle valigie è necessario che nel vostro equipaggio figurino dei forzierini misteriosi, quattro o cinque ombrelli legati a fascio, due o tre bastoni dal pomo brillante; alle quali cose potreste anche aggiungere, per maggior effetto, un pappagallo ed un piccolo pincio. Non sarà male se appena entrato nelle stanze dellʼalbergo, vi darete premura di sciogliere due o tre borse da viaggio, per lasciare in mostra sul tavolo qualcuno dei vostri oggetti di toletta. – Io mi ricordo che a Milano, allʼalbergo della Ville, una volta mi accadde di produrre una sensazione incredibile, poichè i camerieri, annunziando al padrone il mio arrivo, gli avevano detto che da una borsa da viaggio io aveva cavati fuori quattordici, tra spazzole, spazzoletti e spazzolini. – Possa quel buono ed onestissimo albergatore della Ville serbare eterna memoria delle mie quattordici spazzole, come io, nel regno dei beati ove sarò fra poco, non scorderò mai che gli sono tuttavia debitore di tremila ottantotto lire e venticinque centesimi. – In ogni modo, entrando in un albergo (ed è inutile avvertire che questo albergo deve essere necessariamente il più rinomato della città) conviene che il puffista spari il suo gran colpo. – Questo gran colpo potrebbe consistere nella straordinaria larghezza delle mancie distribuite al bromista ed agli scaricatori delle valigie – o meglio ancora (ma questo stratagemma non può riuscire che ad un puffista di altissima levatura) nellʼordinare al padrone istesso dellʼalbergo di rimunerare col proprio denaro le persone che vi hanno servito. Neʼ miei tempi migliori, mi accadde una volta, scendendo alla stazione di Firenze, di trovarmi faccia a faccia con un mascalzone il quale ebbe la temerità di ricordarmi un miserabile puff di duecento cinquanta lire che io gli avevo piantato sei anni prima. Io non teneva nel mio portamonete che la nota dei miei puff– figuratevi qual imbarazzo, e quale pericolo! Quel mascalzone mi avea abordato con famigliarità cosi plebea, che io non poteva esimermi dal pagarlo, a meno di subire una pubblica vergogna e di screditarmi al cospetto dellʼuniverso. – Ridotto a mal passo, feci avvicinare quattro vetture da piazza, una per me, lʼaltra pel mio pappagallo, la terza per un mio domestico negro, la quarta per i miei dodici bauli, E fatto salire nella mia carrozza il vile aggressore, ordinai che il convoglio si dirigesse allʼalbergo della Luna. Al rumore delle quattro carrozze, tutti i camerieri uscirono in massa nel cortile, e il padrone, venuto fuori cogli altri, si sprofondava nellʼinchinarmi. Io diedi agio a tutti quanti di ebetizzarsi completamente alla vista delle mie dodici valigie, del mio pappagallo e dello schiavo nero – poi, quando tempo mi parve, abordai il padrone con piglio risoluto, e parlandogli in quella lingua cosmopolita che è sempre di massimo effetto: – monsieur, gli dissi, oreste vous un poco di monneta piccola? Quanto le abbisogna, signore? due… tre franchi?.. comandi! —Mi abbisogna moneta piccola… tanto come cinquecento franchi… in tanti piccoli pezzi di napollion dʼoro! – Lʼalbergatore numerò ancora una volta i miei bauli, diede una occhiata al mio pappagallo ed al mio negro, e quando ricorse al cassetto del banco e venne a me per portarmi i venticinque marenghi —adesso a te bon omo!– dissi al birbone che mi stava a lato per rinfacciarmi il mio puff—a te duecento franchi e cinquanta per tua bona familia che mi aver salvata la vita, e non dir niente a persone se non voler bastonar.
Lʼassassino vedendo quellʼoro, spiccò due salti dalla consolazione e corse via che pareva invasato. Dopo ciò, pagai lautamente i bromisti e salii col corteggio delle mie valigie, agli appartamenti superiori. In quel momento un organetto era venuto a fermarsi sotto le finestre dellʼalbergo. Mi affacciai ai balcone, e gettando un marengo nel piattello del suonatore —io vi prego dʼaller vous en!… gli gridai dallʼalto, —domani si tornar, altro donar!…
Quel povero suonatore, che forse nella giornata non avea raccolto un quattrino, si fece allora a ringraziarmi con tali parole e tali gesti, che la gente si agglomerò nella via – e, chi è? chi non è? donde è venuto? – in meno di quattro ore io divenni il soggetto di tutte le conversazioni di Firenze. Quel marengo gettato al suonatore mi valse la gloria di avere, in due mesi, piantato nella futura capitale del Regno un puff di quarantacinque mila lire pochi centesimi.
– Chi cercano? domanda la signora della casa, presentandosi – lo studente B… rispondono ad una voce i due calzolaj. – Partito jeri sera per Cremona. – Diamine! Io doveva portargli questo stivale… – E anchʼio…! – I due Crispini spalancano tanto dʼocchi. – Quando tornerà il signor B…? – Dio sa quando! forse mai, rispondo la signora; ha compiuto i suoi studii, ha ottenuto la laurea, non occorre chʼegli torni.
– Ma io…! – Ma io! – esclamano allʼunissono le due vittime, sollevando lo stivale. Non ha lasciato il destro? – Non ha lasciato il sinistro?.. – Io ne so nulla, dice la signora, che ha già indovinata la strana burletta perpetrata dal suo arguto inquilino; ciò che io so, è chʼegli è partito con un bel pajo di stivaletti nuovi, così nitidi e lucenti che abbagliavano a vederli. – Finalmente anche, i due malcapitati calzolaj compresero ciò che era forza comprendere.
– Col mio stivale destro… disse lʼuno.
– Col mio stivale sinistro… soggiunse lʼaltro.
– Si può ancora formare il pajo.
– Verissimo… Non ci resta che ad accoppiarli… È quello appunto che ha fatto il nostro birbo committente. – I due calzolaj eran stati minchionati così bene, che passato il primo bruciore, risero insieme più volte della mala ventura loro occorsa.
Quantunque assai noto, perchè più recente, merita di passare ai posteri il brillante episodio puffistico dal quale ebbe origine il motto: el gha gamba bonna; motto che a Milano suol ripetersi ogni volta che sia in gioco la strategia di qualche matricolato furbacchione. Anche in questo caso la vittima fu un calzolajo. Un giovanotto decentemente vestito entra in una bottega sulla corsia del Broletto e domanda un pajo di stivaletti. – Veda un poco se questi gli vanno! disse il padrone di bottega. – Lʼaltro, si prova a calzarli, si leva dal sedile, divincola il piede, fa qualche passo… ottimamente! non cʼè che dire. – Dʼun tratto balza nella bottega, uno sconosciuto, si slancia contro il giovane dagli stivaletti, gli applica alla guancia un sonorissimo schiaffo, e via di corsa. – Aspetta che ti acconcio io per le feste! grida lo schiaffeggiato, uscendo furioso dalla bottega e dandosi ad inseguire lo sconosciuto. Il calzolajo ed i fattorini accorrono in sulla porta per vedere come la vada a finire. – I due fanno a chi più corre, e allo svolto di una contrada scompariscono. – Lo raggiungerà! lo raggiungerà! esclama il dabben calzolajo; quel briccone corre lesto, ma anche lʼaltro è di buona gamba! – Infatti i due sozii corsero tanto e con lena siffatta, che nessuno ebbe più nuova di loro nè degli stivaletti elegantissimi che lʼun dʼessi si era procacciati con quellʼaudace stratagemma.
«Pregiatissimo Signore,
«Al capezzale della mia povera vecchia madre morente, ho ricevuto la vostra lettera, che mi ricorda un sacro dovere. Appena avrò un poʼ di testa… per esaminare… per confrontare… ecc. ecc… appena la santa donna, che mi vuol sempre vicino, sarà uscita di pericolo, io correrò da voi per regolare le partite. Frattanto, credete ai sensi ecc.»
Vostro devotissimoD. B. Una lettera quasi identica spedì a quella medesima epoca il nostro puffista esordiente agli altri suoi creditori. Questi non osarono rinnovare le istanze, e attesero con animo tranquillo. Ma un bel giorno, lʼamico D. B. abbandonò insalutato hospite la città dove avea vissuto lautamente per un anno; probabilmente la povera santa vecchia era guarita, ma i creditori non ebbero motivo di rallegrarsene.
Prima di ricorrere alla rettorica esacerbante delle insolenze, un abile e prudente puffista deve aver esaurite tutte le pratiche ammollienti. Lʼimpressione più istantanea e più naturale che deve prodursi nellʼanimo cavalieresco di un puffista al vedersi dinanzi la nota impertinente di un creditore, è quella di un olimpico stupore. Un personaggio alto locato, che si atteggia da principe, da barone, da marchese, che si fa chiamare sua eccellenza il sig. commendatore ecc. ecc., non può a meno, di atteggiarsi a meraviglia al vedere che un miserabile subalterno osa importunarlo per una inezia. Mille, duemille, ventimille lire, non rappresentano infatti, per un principe russo, per un ammiraglio peruviano, altrettante cifre impercettibili? Qual vʼè somma tanto ingente che passando pel lambicco aritmetico di un debitore insolvibile, non si pareggi ad uno zero?
– Tiens! Tiens! esclamava un francese puffista (sono famosi!) ogni, volta che un creditore commetteva lʼirriverenza di presentargli una nota. E quel monosillabo, profferito con accento di sorpresa, saldava la partita.
Ordinariamente, nel rispondere alle sollecitazioni dei fornitori più impertinenti, i grandi puffisti si appigliano al seguente formulario:
«Pregiatissimo Signore,
«Ho lʼonore di informarvi che la nota da Voi speditami in data… ecc. ecc. lʼho trasmessa oggi stesso al mio amministratore, perchè più sollecitamente che per lui si possa, come di ragione, provveda al pareggio. Tanto; per vostra norma, e mi dico
«Barone di Puffardara ecc. ecc.» Naturalmente, il creditore si consola e lascia passare una quindicina di giorni prima di ripetere lʼattacco. La risposta che i baroni di Puffardara sogliono contrapporre alla seconda richiesta, è scritta su per giù in questi termini:
«Con mia somma meraviglia vengo ad apprendere dalla S. V. che il mio amministratore non ha finora provveduto a mettersi in regola con voi. Mi piace attribuire ad un obblìo questa irregolarità di condotta del mio uomo dʼaffari, anzichè sospettare in lui una negligenza colpevole. Questa sera lo farò chiamare nel mio gabinetto, e in ogni caso, gli ricorderò i suoi doveri. Aggradisca ecc. ecc.»
Ecco unʼaltra dilazione spontanea, ottenuta con quattro linee di scritto. È raro il caso che un barone di Puffardara debba replicare ad una terza lettera della vittima. Quando ciò avviene, la frase dellʼesordio è sempre questa: «Ho dato al mio amministratore una buona lavata di testa per la sua colpevole trascuranza ed ho minacciato di licenziarlo se entro la settimana ecc. ecc.» Entro la settimana, il barone si licenzia dalla città nelle ore mestissime del crepuscolo – abbandonando ai numerosi clienti la cura di amministrare i suoi puff a tutto loro agio.
Le frasi ad effetto, che intontiscono chi legge, rare volte falliscono allʼintento. Recherò un solo esempio. Anni sono, quando io conduceva a Milano la vita sbrigliata dello scapolo, un giovane poeta e romanziere, dotato di molto accume puffistico mi pregò lo presentassi ad un sarto acciò questi gli fornisse un abbigliamento completo da pagarsi in rate mensili. Gli abiti in men di tre giorni furono allestiti e consegnati, ma i mesi trascorsero, trascorse lʼanno, e il poeta romanziere, assorto nella sue divine fantasticherie, sdruscì le stoffe prima di averle pagate. Naturalmente, il sarto gli scrive. Il poeta, che per caso è anche gentiluomo, risponde, e siccome la cortesia delle risposte non è mai avvalorata di qualche spicciolo, lʼepistolario si prolunga per parecchi mesi. Un giorno il dabben sarto si reca da me. Veda un poco, mi dice, che razza di istorie mi vien contando quel signor poeta da Lei raccomandato! Così parlando, mi presenta una lettera. Nelle prime linee, lʼamico faceva le sue scuse, parlava di gravi e urgenti impegni pei quali aveva dovuto sprovvedersi di ogni suo avere, chiedeva nuove proroghe al pagamento. Ciò che aveva colpito il sarto – ed io pure, lo confesso, ne rimasi colpito – era la chiusa della lettera – «Io vi ho esposti, concludeva lʼamico poeta, con schiettezza da galantuomo le tristi condizioni nelle quali verso attualmente; ma se questo non bastasse ad impetrarmi grazia, se fosse intento vostro di continuare a vessarmi con visite e con scritti impertinenti, allora sarò costretto a rammentavi che voi siete sarto, e che, una volta accettata la missione di sarto, avete lʼobbligo di vestire lʼumanità.» Non vi par questo uno di quei motti sublimi di insensatezza che sfidano la dialettica più ardita, che ottundono il cervello più arguto? Io mi dichiarai incapace di confutare lʼamico, e il povero sarto non osò per alcun tempo riprendere i suoi attacchi contro un uomo sì fortemente trincierato negli argomenti del diritto naturale.