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IL NAUFRAGO – IL PRIGIONIERO
IL NAUFRAGO
I
Il mare, al buio, fu cattivo. Urlava
sotto gli schiocchi della folgore! Ora
qua e là brilla in rosa la sua bava.
Intorno a mucchi d’alga ora si dora
la bava sua lungi da lui. S’effonde
l’alito salso alla novella aurora.
Vengono e vanno in un sussurro l’onde.
Sembra che l’una dopo l’altra salga
per veder meglio. E chiede una, risponde
l’altra, spiando tra quei mucchi d’alga…
II
– Chi è? Non so. Chi sei? Che fai? Più nulla.
Dorme? Non so. Sì: non si muove. E il mare
perennemente avanti lui si culla.
Noi gli occhi aperti ti baciamo ignare.
Che guardi? Il vento ti spezzò la nave?
Il vento vano che, sì, è, né pare?
E tu chi sei? Noi, quasi miti schiave,
moviamo insieme, noi moriamo insieme
costì con un rammarichìo soave…
Siamo onde, onda che canta, onda che geme…
III
Tu guardi triste. E dunque tua forse era
la voce che parea maledicesse
nell’alta notte in mezzo alla bufera!
Noi siamo onde superbe, onde sommesse.
Onde, e non più. L’acqua del mare è tanta!
Siamo in un attimo, e non mai le stesse.
Ora io son quella che già là s’è franta.
E io già quella ch’ora là si frange.
L’onda che geme ora è lassù, che canta;
l’onda che ride, ai piedi tuoi già piange.
IV
Noi siamo quello che sei tu: non siamo.
L’ombre del moto siamo. E ci son onde
anche tra voi, figli del rosso Adamo?
Non sono. È il vento ch’agita, confonde,
mesce, alza, abbassa; è il vento che ci schiaccia
contro gli scogli e rotola alle sponde.
Pace! Pace! È tornata la bonaccia.
Pace! È tornata la serenità.
Tu dormi, e par che in sogno apra le braccia.
Onde! Onde! Onda che viene, onda che va…
LA MORTE DEL PAPA
I
«Oh! nonna! il Papa» uno gridò «sta male!»
un seggiolaio che da Montebono
salìa lungo Corsonna: «è sul giornale».
Andava all’Alpe, dove più non sono
che greggi erranti, e dove non si sente,
fuor che di foglie al vento, altro frastuono;
o il solitario scroscio del torrente
dopo un’acquata, o il conversar tranquillo,
presso le bianche nuvole, di gente,
che non si vede, intorno cui lo squillo
de’ campanacci va per le pratina
odorate di menta e di serpillo.
La vecchietta filava. A lei vicina
una sua pecorella da guadagno
strappava ciuffi d’erba pannocchina.
Essa filava all’ombra d’un castagno
centenario, e parlava alla sua recchia.
Infilato nel braccio era il cavagno.
E tra ch’ell’era dura un po’ d’orecchia,
e che il cielo echeggiava di cicale,
aspre dal sole, a mezzodì; la vecchia
«Chi?» disse. «Il Papa». «Il Papa, che?» «Sta male».
II
Alzò le braccia col cavagno e il fuso,
al cielo azzurro, e mormorò: «Madonna
del Carmine!» La recchia levò il muso.
«Siete d’età,» l’uomo riprese: «eh nonna?
Ma voi siete altra tiglia! A voi fa prode
l’aria di monte e l’acqua di Corsonna».
Ma la vecchina non sentì la lode.
Smerlucciò tra i castagni, quasi intorno
fosse, a qualch’ombra, l’angiolo custode.
Ell’era nata lo stesso anno e giorno!
E da vent’anni le diceva il cuore
che farebbero insieme anche il ritorno.
«O dunque c’è la diceria, che muore?»
«Più troppo!» Dunque non vedrebbe il rosso
delle fragole e il nero delle more!
«Addio ‘n salute!» «Addio». «L’uno pel fosso,
e l’altra prese per uno sgaruglio.
Avea le gambe flosce, il fiato grosso.
Tornava a casa. O Vergine di luglio!
o bianca nuviletta del Carmelo!
La recchia dietro lei qualche cespuglio
brucava, e poi stradava con un belo.
III
«Ta ta, Nina, ta ta». Come gagliardi
eran quei tre castagni suoi! Che mèsse!
che cimi! E la chioccetta era nei cardi!
Il suo figliolo quando vi cogliesse,
nella sera che accecano il metato,
sì, penserebbe a farle dir due mésse.
Buttar due lire uguanno non fa stato.
Uguanno è annata, se non è lo strino
che c’entri prima ch’abbiano animato.
La vecchietta era giunta al casalino;
ma non l’antico suo paiòl di rame
appese alla catena del camino.
Era avvilita, e non le facea fame!
Mise un lenzuolo bianco al sacconcello,
ma prima un poco ne rumò lo strame.
Poi si portò su l’uscio uno sgabello.
Sedé movendo ad or ad or la bocca.
Aspettò che venisse il suo gemello.
Sgranava qualche rappa nella cocca
del pannello, e chiamava Curre! Curre!
Poi, rinfilata nel pensier la rócca,
filava in mezzo alle montagne azzurre.
IV
Dan dan… dan dan… Passava un carbonaio
col suo muletto. «O Chiozza, se vedete
il Ciampa, il mi’ figliolo di Renaio,
ditegli, se non è per le faggete,
che non l’ho visto da non so mai quanto,
e che cammini. E ditel anco al prete.
Venga di quella via con l’olio santo».
«Servirò. Ma che avete? O che vi sente?»
«O Chiozza, è l’ora che par poco il tanto!»
«Che dite, nonna?» «Anzi non par più niente!»
«Coraggio!» «Più che vecchi, non si campa.
Da Roma il Papa ha da venire…» «O gente!»
«E voi sapete leggere?» «La stampa».
«Che scrivono?» «Che muore». «Ecco, tra poco
andrò con lui. Se lo vedete, il Ciampa,
il mi’ figliolo…» Ella parlava fioco,
l’altro ripiva. Le montagne in faccia
brillavano d’un grande orlo di fuoco.
Dan dan… Sul petto ella piegò le braccia.
Dovean sonare Avemarie dintorno.
Dan dan… dan dan… Era finita l’accia,
e pieno il fuso, e terminato il giorno.
V
Il giorno dopo il Ciampa (era ai vincigli
poco lontano) entrò senza picchiare
col più piccino dei suoi sottofigli.
La trovò che sfaceva col cucchiare
nel laveggino nero una brancata
di farina, in ginocchio al focolare.
«Ch’ha detto il Chiozza, ch’érite malata?»
«Oh! Gigi! Ahimè che tremo ho fatto! Provo
se mi fa bono un po’ di farinata».
«Più bono, o mamma, vi farebbe un ovo».
«Con l’ova abbiamo da comprare il sale».
«O dunque, mamma, cosa c’è di novo?»
«Forse, figliolo, c’è più ben che male».
«Dio v’ascolti». «O codesto rapacchiotto?»
«È il Gigino del mi’ pover Natale».
«Dio lo riposi. E in quanti sono?» «In otto».
«Polenta vi ci vuole ora e coraggio!»
«Su dunque, Nini: porgigli il ricotto».
Nelle sue frasche e’ lo tenea, di faggio,
verdi, col cimo in dentro e fuori il calcio:
un fardelletto bello come un maggio,
legato con un torchiettin di salcio.
VI
Ella guardò, mestando. «O che gli porti,
Nini, alla nonna? O che tu l’hai saputo
ch’io vado in pace, a ritrovare i morti?
Che glielo faccio a babbo, omo, un saluto?
Che gli dico del bimbo? Eh! gli vuol detto
ch’è savio, che dà retta, ch’è d’aiuto;
ch’ha il grembialino, ch’ha il rastellinetto,
che va colle sue genti alle faccende,
anco alla ruspa dopo fatto appietto;
e ch’abbada alle pecore, e contende
se vanno al danno, e poi che fa in Corsonna
le vetrici e le monda e le rivende.
Va colassù, va colassù la nonna,
con uno che ci sa; che può, se vuole,
anco portarla avanti alla Madonna.
Da lui si farà dire le parole
per benedire i figli de’ suoi figli
coi lor figlioli e colle lor figliole;
perché Dio vi protegga e vi consigli,
e abbiate ogni anno lo stabbiato e il frutto,
e lana e legna, e le fronde e i vincigli,
e la polenta d’ogni giorno, e tutto.»
VII
La fronte e gli occhi si spazzò col dosso
della mano. S’alzò. Prese in un godo
del soppianello due cucchiai di bosso.
Prese anche il suo ch’era attaccato al chiodo.
Staccò il laveggio, a stento, dall’uncino:
riempì tre pianette: il tutto a modo.
Poi prese il fior di latte: anche, a modino,
aprì le frasche, e giù, per non lo sfare,
lo sbacchiò sopra un borracciòl di lino.
E mangiarono avanti il focolare
in pace e amore, con di tanto in tanto
quattro parole, a cucchiaiate rare.
Il bimbo in terra era seduto accanto
alla bisnonna, e spesso dalle dita
di lei pigliava un suo bocconcin santo.
L’uscio era aperto. I fior di margherita
non aprivano ancora le corolle
di su le crepe della soglia erbita.
Brillava al sole ogni albero, ogni colle;
ma la casuccia si godeva ancora
l’ombra sua propria, piccola, ancor molle
della guazza caduta in su l’aurora.
VIII
«Sentite, Gigi. La recchietta voglio
che la meniate ora con voi nel branco.
È avvezza a qualche filo di trifoglio…
Un po’ di tela c’è tavìa nel banco.
Ho due lenzuola nove; anco un rotello,
da tanto tempo, ch’ha riperso il bianco.
Ci troverete qualche buon guarnello,
persino una sottana con la gala,
che mi son fatte, là per là, bel bello.
Faccio per dire che non son cicala
ch’ha un sol vestito, e quando è liso, muore.
Ma poi, sentite: penso a quella scala…
Ditelo, Gigi, con le vostre nuore,
che quell’andare su la scala in chiesa,
così legata, m’è una spina al cuore!
Almeno almeno, senza vostra spesa,
vuo’ per amor di Dio che mi mettiate
quella camicia nova ch’è lì stesa.
Io l’ho cucita, al sole della state;
io l’ho sbiancata, al lume della luna;
io l’ho tessuta, per le gran nevate;
filata, presso qualche vostra cuna».
IX
Il bimbo era lì fuori. Ella più presso
si fece al vecchio. «A Dio non si nasconde
quello che al prete, ed anche a voi confesso.
Ho fatto a volte un carico di fronde
in quel del Maso». «Un carichello!» «Ho colte
nel suo, prima dell’alba, le sue gronde».
«Altro che gronde, il pover Maso!» «A volte,
per due fagioli, m’allungavo all’orto.
Menavo a bere le mie bestie sciolte…»
«Ma il pover Maso…» «Il pover Maso è morto!
Fatemi dir due messe, una per Maso,
una per me…» «Si fanno dire accòrto».
Erano usciti. «Siete persuaso?»
«Sì». «La recchietta vuol menata a mano
su le prime». «Si sa». «Fatene caso».
«Addio, madre». «Addio Gigi… State sano.
Addio, Nina. O che beli? Io mi contento
d’ire con lui che sta così lontano!»
Ai monti sparsi d’un vapor d’argento
ella accennava con la mano arsita,
e foglie secche, mosse un po’ dal vento,
parean in aria le sue cinque dita.
X
Quel giorno un tuono rimbombò che scosse
l’alta montagna, e, terminato il tuono,
invïò l’acqua a gocce rade e grosse.
Ed un’acquata venne giù col suono
d’un gran passaggio con un grande struscio.
A sera il tempo era tornato al buono.
Il cielo aveva l’iridi del guscio
di madreperla. Stava lì tranquilla
nel suo lettino, con aperto l’uscio,
la vecchina, se udisse ora la squilla
del sagrestano, si vedesse alfine
venir l’ombrella color bianco e lilla,
salir di qua di là tante stelline,
salir cantando, con in mano un cero,
una fila di donne e di bambine.
E già scuriva. E sì, vedeva, in vero,
splender ora più fitte ora più rare
le luccioline avanti l’uscio nero.
Quante candele c’erano al sogliare!
Udiva, sì, cantare; ma lontane
erano ancora, colaggiù; cantare
cantare le ranelle con le rane.
XI
E levò gli occhi, e ravvisò la strada,
nel cielo azzurro, tra le stelle ardenti
bianca ma quasi molle di rugiada,
la tacita sul sonno delle genti
strada di Roma. Un tratto ne lucea
nel breve spazio in mezzo ai due battenti:
un sentieròlo con una macea,
lassù nel cielo: un pallido biancore
presso le stelle di Cassiopea.
Al capo della via, forse a quell’ore
prendea con le due mani il pastorale,
e si levava su forse il pastore.
Forse veniva tra un sussurro d’ale
d’angeli per l’azzurro cielo, e un coro
d’anime nel silenzio siderale.
E passando cantavano, V’adoro
ogni momento… sopra gli alti monti.
Ed egli aveva la sua mitria d’oro.
Splendean le selve, risplendean le fonti,
al suo passaggio, d’un baglior fugace
che ancor passava su le bianche fronti
d’uomini e donne addormentati in pace.
XII
Per quella via… Ma quella era la via
dell’Universo, l’alta sui burroni
dell’Infinito ignota Galaxia:
e prima d’essa Cani Idre Leoni,
raggianti nelle tenebre celesti,
gelide: stelle, costellazïoni:
Soli: sciami di Soli, anzi, con mesti
pianeti ognuno, dove il fuoco primo
par che si spenga e che l’amor si desti;
dove marcisce il puro fuoco in limo
di vita, impuro, su cui vola forse
l’uomo con l’ali, o sguazza il fauno simo.
Le costellazïoni indi trascorse,
dalla fulgida Lira alla Carena,
dalla fulgida Croce alle grandi Orse;
ecco la fitta polvere, la rena
ogni cui grano è Mondo che sfavilla
nella sua solitudine serena;
dove pare un pulviscolo, una stilla,
il nostro cielo dalla volta immensa…
se pur là c’è la notte, una pupilla
nell’ombra, uno che veglia, uno che pensa!
XIII
E la vecchietta, dietro il suo pensiero,
guardando il cielo, ora vedea sé stessa,
non così vecchia, su per un sentiero.
Andava col su’ omo, era ben messa,
incignava quel giorno anzi un guarnello:
andava a su per ascoltar la messa.
Lo conosceva quel vïotterello:
era pieno di fragole e di more.
Quasi quasi n’empiva il suo pannello.
Ma poi ben altro le diceva il cuore,
perché sentiva scampanare a festa:
era la festa delle Quarant’ore.
Ella saliva i poggi lesta lesta,
cantarellando, fresca come brina;
ma in fondo al cuore era tra lieta e mesta.
E si trovava povera bambina:
frignava, dicea Pappa, dicea Bombo:
un’altra voce ripetea: Cammina!
Tremava in aria più vicino il rombo
del doppio. Lesta, ché non è lontano!
Sì, ma le sue gambette erano un piombo.
Allor sua mamma la pigliò per mano.
XIV
Una sua nuora, lì con la sua rócca,
c’era a vegliarla. Ad or ad or lo sputo
dava alle dita e due prilli alla cocca.
Svagellava, la nonna. Ogni minuto
parea l’ultimo. All’ultimo ecco a stento
aperse gli occhi. Essa lo avea veduto!
Il Papa! Era per l’Alpe, era tra il vento
gelido, anch’esso, era piccino e stanco,
sfinito morto, ma parea contento.
Come accaldato! Aveva corso in branco
co’ suoi compagni: aveva il capo in fiamma.
Ora sudava freddo; e con un bianco
lino la fronte gli tergea sua mamma.
ZI MEO
Guardava ognuno, per un po’, la vigna
tua lì rimpetto, nell’uscir di chiesa.
Oh! c’era sempre qualche bella pigna!
«Non ha finito!» E in dir così, sospesa
con l’acquasanta ancora avea la mano:
l’altra reggeva una candela accesa.
«Tutti vizzati buoni: colombano
e capobugio». E discendean le soglie,
a due a due, salmodïando piano.
O tra la lieve nebbia che si scioglie,
sole d’ottobre! o come lunghe aurore
giornate pure! o rosseggiar di foglie
presso a cadere! o limpide ultime ore!
Un pesco, tra le viti sciolte, rosso
era così come quand’era in fiore:
si ricordava! In faccia a lui, sul fosso,
grandi castagni con i cardi a ciocche
in tutti i rami; e i cardi avean già mosso.
Erano a bocca aperta, e dalle bocche
già si vedea la bella buccia bionda.
Oh! il bel tempo del fuoco e delle rócche!
quando le genti siedono alla tonda
avanti al fuoco, e quelle donne, quale
fa le mondine e quale poi le monda:
quando l’annata sia pur ita male,
ma il fuoco scalda! ma rallegra il vino!
e il vino è poco? Meno è, più vale.
Andavano pensando a San Martino,
sotto i castagni, e c’eri, su la bara,
coi panni buoni, tu, mio buon vicino!
Dal Rio mandava la sua voce chiara
interrogando, l’usignol dei Morti,
ch’è il pettirosso, e più l’alzava a gara.
Usignol della nebbia, che i nostri orti
visiti quando non c’è più che bruchi,
tu che ci lodi il verno che ci porti;
e ti fai cuore, e vieni e vai, t’imbuchi
t’infraschi, e cerchi e fai sentire un canto
appena trovi sanguini o sambuchi:
un uomo noi portiamo al camposanto
che, come te, dimestico e silvano,
godea del poco e non sapea del tanto.
I figli avea nell’oltremar lontano,
e quasi solo vivucchiava in pace
contento del suo vino e del suo grano.
Covava il fuoco avendo nelle brace
poche castagne, e già vecchietto stanco
pensava all’aspra giovinezza audace;
allor che in vetta all’alto pioppo bianco
non scendea; no: gli dava l’onda e in aria
prendeva a volo l’altro pioppo a fianco:
alla sua giovinezza aspra di paria,
allor che dentro il suo metato in monte
dovea passar la notte solitaria;
ma, per il fumo, tenea fuor la fronte
e la lasciava al vento ed al nevischio
sino al primo baglior dell’orizzonte:
ché allora a casa discendea tra il fischio
del tramontano, la crinella in collo,
zeppa di fronde, ed ogni passo un rischio.
Era di ceppa vecchia egli rampollo!
Seguiva il cenno della madre austera
imperïosa sotto il suo corollo!
Che vita, allora! il pane allor non c’era
che per le Pasque! Ora godeva il verno
egli che non godé la primavera.
In vece qui con un saluto eterno
noi ti lasciamo. Addio, Zi Meo! Le zolle
che abbiam gettate sul tuo cuor fraterno!
E questa croce sul terreno molle
non reggerà! Verranno poi le acquate.
Poi, bianco il monte e sarà bianco il colle.
Poi, torneranno i figli nell’estate
a prender l’aria. Addio, Zi Meo! La vita
è così fatta. Andiamo, dunque. – Andate
alla vendemmia non ancor finita! —
Türler ve etiketler
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30 ağustos 2016Hacim:
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