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Kitabı oku: «Nuovi poemetti (1909)», sayfa 5

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IL CHIÙ

I
 
– Addio! – La notte, troppo grande il letto
era a Viola. Stava dal suo canto,
con incrociate le due mani al petto;
 
 
ma non dormiva. Non aveva pianto.
Dicea di quando in quando una preghiera.
Dormir, sognare, non volea; ché tanto…
 
 
non c’era più! Perché sognar che c’era?
non saper più, ma per un poco, appena,
ch’era partita al rosseggiar di sera?
 
 
La notte in cielo risplendea serena:
tra cielo e terra un murmure, uno spesso
palpito, l’onda d’un’assidua lena.
 
 
E Violetta si chiedea sommesso
dov’era quella che non c’era più.
Col dolce verso sempre mai lo stesso
 
 
le rispondeva di lontano il chiù.
 
II
 
Splendea lassù la gran luce di Sirio.
Recava odor di fiori pésti il vento.
– Ell’era andata a chi sa qual martirio!
 
 
Ora, dov’era? A lume acceso o spento?
Buon che le mise al collo, nell’aspetto,
quella sua croce piccola d’argento!
 
 
Ella doveva ora vegliar nel letto
sola con lui! senza sperare aiuto! —
Viola i panni si stringea sul petto.
 
 
– Che cosa avrebbe egli da lei voluto?
Qual piaga dare tenera e mortale
a quelle carni bianche, di velluto?
 
 
Qual pianto fa di quel ch’è ora, e quale
rimpianto mai di quel ch’un giorno fu!… —
Col mesto verso eternamente uguale
 
 
le rispondeva di lontano il chiù.
 
III
 
Quando cantò la prima capinera
nel puro cielo d’ambra e di viola,
dormiva, sciolta la gran chioma nera.
 
 
Dormiva forte, stretta alle lenzuola;
e se sognò, non ricordò, che cosa.
Si levò tardi. E come te, Viola,
 
 
anche i tuoi vecchi. E tu più tardi, o Rosa.
 

LE DUE AQUILE – I DUE ALBERI

LE DUE AQUILE

I
 
La rupe è là con altre rupi intorno,
alta, nell’immobilità del gelo.
Talor vi ruota all’apparir del giorno
 
 
una grande ombra che vien giù dal cielo.
 
II
 
La rupe un giorno par che muova, il ghiaccio
sembra che crocchi e crepiti, fin ch’esce
tristo un fil d’acqua da un sottil crepaccio.
 
 
Al sordo e cupo fremere si mesce
ora un bisbiglio ed un gorgoglio lene.
Con l’ali aperte scende l’ombra, cresce
 
 
all’improvviso, e grande sta. – Che avviene? —
 
III
 
E l’uccellaccio posa sopra il ciglio
dell’alta rupe; e sente che s’abbassa
la rupe sotto l’uno e l’altro artiglio.
 
 
Tacito va, tacito viene, passa
con le grandi ali. Tronchi d’agrifoglio
e d’oleastro porta getta ammassa.
 
 
Ora il bisbiglio e il fievole gorgoglio
si fa rumore, giù di balza in balza,
divien fracasso, giù da scoglio a scoglio…
 
 
Tutta s’apre la fulva aquila, s’alza…
 
IV 
 
S’alza a vedere; tra le nubi e i venti
s’adagia in cielo. Nelle valli brune
vede gettarsi i botri ed i torrenti.
 
 
Vanno con un feroce urlo comune,
chi qua chi là. Scendono ciechi al piano,
portano massi, travi, alberi, cune.
 
 
Hanno la cupa voce d’uragano
e di valanga; ed il fragor con loro
rapido va, ma non è mai lontano.
 
 
Fuor dalle nubi, risplendente d’oro,
l’aquila ruota, remeggiando lenta,
sopra il terrestre vortice sonoro.
 
 
E s’alza ancora ed alto un grido avventa,
atroce, per le vane plaghe sole.
Tre volte grida, e sta tre volte intenta
 
 
all’eco forse che ne mandi il sole.
 
 
Amore! amore! amore! Ecco apparita
sopra le nubi, immobile su l’ale,
tremando in cuor lo squillo della vita,
 
 
tremando in cuore il palpito immortale
della sua vita, l’altra aquila. S’alza
lenta, e ricorda a man a man che sale.
 
 
Ricorda tutto, e presso lui già sbalza,
e insieme precipitano al profondo,
prèdansi a furia; l’anno e l’ora incalza:
 
 
vuole due grandi aquile nuove il mondo!
 
VI 
 
Amore! amore! Or egli tra lo scroscio
delle cascate s’inabissa a piombo,
artiglia il daino, lacera il camoscio;
 
 
e brani rossi porta, e sul rimbombo
delle valanghe suona aspro il suo grido
di sangue e morte, che poi frena: il rombo
 
 
solo dell’ale ode il solingo nido.
 
VII 
 
Amore! Ed ella cova. Il capo eretto
e gli occhi fissi, lunghi giorni e notti.
Col rostro adunco ora si spiuma il petto,
 
 
sprimaccia il covo. Sente gli aquilotti…
 

LA PIADA

I
 
Il vento come un mostro ebbro mugliare
udii notturno. Errava non veduto
tra i monti, e poi s’urtava al casolare
 
 
piccolo, ed in un lungo ululo acuto
fuggiva ai boschi, e poi tornava ancora
più ebbro, con suoi gridi aspri di muto.
 
 
L’udii tutta la notte, ed all’aurora,
non più. Dormii. Sognai, su la mattina,
che la pace scendeva a chi lavora.
 
 
Or vedo: scende. Scende: era divina
l’anima. Il cielo tutto a terra cade
col bianco polverìo d’una rovina.
 
 
Non un’orma. Vanite anche le strade.
La terra è tutto un solo mare a onde
bianche, di porche ov’erano le biade.
 
 
Resta il mio casolare unico, donde
esploro in vano. Non c’è più nessuno.
E solo a me che chiamo, ecco risponde
 
 
il pigolio d’un passero digiuno.
 
II
 
Sul liscio faggio danzi corra voli,
Maria, lo staccio! Siamo soli al mondo:
facciamo il pane che si fa da soli!
 
 
Voli lo staccio e treppichi giocondo,
vaporando il suo bianco alito fino,
che si depone sul tuo capo biondo.
 
 
O lieve staccio, io t’amo. Il tuo destino
somiglia al mio: tener la crusca; il fiore,
spargerlo puro per il tuo cammino.
 
 
E fai codesto con un tuo rumore
lieto, in cadenza: semplice, ma bello
per l’orecchio del pio lavoratore.
 
 
Ma triste, sotto mezzodì, per quello
del viandante, che rasenta i triti
limitari del lungo paesello:
 
 
ch’ode un danzar segreto, ode tra i diti
di donna sola, in ogni casa, andare
te, casalingo cembalo, che inviti
 
 
lo sciame errante al tacito alveare.
 
III
 
Taci, querulo passero: t’invito.
Sempre diventa il tuo gridìo più fioco:
taci: or ora imbandisco il mio convito.
 
 
Il poco è molto a chi non ha che il poco:
io sull’aròla pongo, oltre i sarmenti,
i gambi del granturco, abili al fuoco.
 
 
Io li riposi già per ciò. Ma lenti
sono alla fiamma: e i canapugli spargo
che la maciulla gramolò tra i denti.
 
 
Nulla gettai di quello che non largo
mi rese il campo: la mia man raccoglie
anche i fuscelli per il mio letargo.
 
 
Serbo per il mio verno anche le foglie
aride. Del granturco, ecco via via
mi scaldo ai gambi e dormo sulle spoglie.
 
 
Ciò che secca e che cade e che s’oblia,
io lo raccolgo: ancora ciò che al cuore
si stacca triste e che poi fa che sia
 
 
morbido il sonno, il giorno che si muore.
 
IV
 
Il mio povero mucchio arde e già brilla:
pian piano appoggio sopra due mattoni
il nero testo di porosa argilla.
 
 
Maria, nel fiore infondi l’acqua e poni
il sale; dono di te, Dio; ma pensa!
l’uomo mi vende ciò che tu ci doni.
 
 
Tu n’empi i mari, e l’uomo lo dispensa
nella bilancia tremula: le lande
tu ne condisci, e manca sulla mensa.
 
 
Ma tu, Maria, con le tue mani blande
domi la pasta e poi l’allarghi e spiani;
ed ecco è liscia come un foglio, e grande
 
 
come la luna; e sulle aperte mani
tu me l’arrechi, e me l’adagi molle
sul testo caldo, e quindi t’allontani.
 
 
Io, la giro, e le attizzo con le molle
il fuoco sotto, fin che stride invasa
dal calor mite, e si rigonfia in bolle:
 
 
e l’odore del pane empie la casa.
 
V
 
Chi picchia all’uscio? Tu forse, Aasvero,
che ancor cammini per la terra vana,
arida foglia per un cimitero?
 
 
Chi picchia all’uscio?… E fioca una campana
suona… Chi suona? Forse un vecchio prete,
restato a guardia della tomba umana?
 
 
È solo; e ancora a mezzodì ripete
l’Angelus, ed a rincasare invita,
morti, voi, che sotterra ora mietete.
 
 
Socchiudo l’uscio. – Antica ombra smarrita,
che in cerca erri del corpo; ultima foglia,
che stridi ancora dove fu la vita;
 
 
qual vento t’ha portato alla mia soglia,
vecchio ramingo, ultima foglia morta
d’albero immenso che non più germoglia?
 
 
Ma tu sei vivo: hai fame! E qui ti porta
necessità. Sei vivo: soffri! Vivo
sei: piangi! Ed ecco, dunque, apro la porta:
 
 
entra, fratello; ché ancor io… sì, vivo. —
 
VI
 
Entra, vegliardo, antico ospite: ed ecco
l’azimo antico degli eroi, che cupi
sedeano all’ombra della nave in secco
 
 
(si levarono grandi sulle rupi
l’aquile; e nella macchia era tra i rovi
un inquieto guaiolar di lupi…):
 
 
il pane della povertà, che trovi
tu, reduce aratore, esca veloce,
che sol s’intrise all’apparir dei bovi:
 
 
il pane dell’umanità, che cuoce
in mezzo a tutti, sopra l’ara, e intorno
poi si partisce in forma della croce:
 
 
il pane della libertà, che il forno
sdegna venale; cui partisci, o padre,
tu, nelle più soavi ore del giorno:
 
 
ognuno in cerchio mangia le sue quadre;
più, i più grandi, e assai forse nessuno;
o forse n’ebbe più che assai la madre,
 
 
cui n’avanza da darne un po’ per uno.
 
VII
 
Azimo santo e povero dei mesti
agricoltori, il pane del passaggio
tu sei, che s’accompagna all’erbe agresti;
 
 
il pane, che, verrà tempo e nel raggio
del cielo, sulla terra alma, gli umani
lavoreranno nel calendimaggio.
 
 
Ché porranno quel dì su gli altipiani
le tende, e nel comune attendamento
l’arte ognun ciberà delle sue mani.
 
 
Ecco il gran fuoco, che s’accende al vento
di primavera. Ma in disparte, gravi,
sulla palma le bianche onde del mento,
 
 
parlano i vecchi di non so che schiavi
d’altri e di sé: ma sembrano parole
sepolte, dei lontani avi degli avi.
 
 
Guardano poi la prole della prole
seder concorde, e, con le donne loro
e i loro figli, in terra sotto il sole,
 
 
frangere in pace il pane del lavoro.
 

GLI EMIGRANTI NELLA LUNA

CANTO PRIMO

Il brodiag e lo studente


 
Mancava ormai la legna e l’acquavite.
Non venne il sonno e ritornò la fame.
Disse un brodiag ai contadini: «Udite?»
 
 
Si lisciava la gran barba di rame
senza parlare, e si togliea tra il pelo
le foglie secche e qualche fil di strame.
 
 
Quelli aprivano gli occhi color cielo,
zuppi di sogno. «Il vento!» disse: «il vento
del nord! Quest’anno tarderà lo sgelo!»
 
 
E l’isba scricchiolò con un lamento
lungo ad un urto. Alzò le spalle un vecchio
senza levare dalle palme il mento.
 
 
Gli altri alla romba porsero l’orecchio.
«Hai pane, tu,» ghignò il brodiag «tu, fieno!
legna nel canto! latte anche nel secchio!»
 
 
«Che farci?» disse il vecchio. «Olio, non meno!…»
Il lume un po’ guizzò palpitò sfrisse,
si spense. Il vecchio disse: «Olio, nemmeno».
 
 
Che farci! Serrò gli occhi. Altro non disse.
Ecco e s’empiva l’abituro d’una
pallida nebbia. Ché via via men fisse
 
 
vanian le stelle all’alba della luna.
 
II
 
E la luna calante batté gialla
sull’impannata. Netta, senza brume,
stava, sul liscio mar di neve a galla.
 
 
L’immensa taiga biancheggiava al lume.
Qualche betulla nuda, qualche cono
d’abete, e solchi d’ombra d’un gran fiume.
 
 
E si levò tra quelle genti un suono
dolce di voce: «Il giovine straniero
giunto tra noi, che parla a noi, ch’è buono…
 
 
egli sa tutto; vede anche il pensiero
chiuso nei cuori… egli leggeva un giorno
un libro, il libro che ci dice il vero…
 
 
La Luna, dice, è un’altra Terra, attorno
a questa Terra. E ci si va. C’è gente
che v’andò, che ne parla, ora, al ritorno…»
 
 
La giovinetta voce piovea lente
le sue parole. Balenava un raggio
or qua or là da due pupille attente.
 
 
E il contadino e il boscaiol selvaggio
e donne e bimbi nella solitaria
capanna, udian la storia del passaggio
 
 
a quella luna, per il mar dell’aria.
 
III 
 
Scrollò la testa, il vecchio, e disse: «Fole!
L’uomo non vola, o garrula ghiandaia,
come gli uccelli e come le parole!
 
 
L’acqua ci può. Sul fiume va l’alzaia,
non già per aria. L’aria è aria; nulla.
Ma l’acqua è cosa, quando pur traspaia.
 
 
Fole da dire sotto una betulla,
d’estate, a sera…» Ed ella disse: «Allora
le nuvole?…» E il brodiag: «Ecco, fanciulla!
 
 
Terra e lombrichi vede chi lavora
le terra. C’è nel mondo altro, che il grano!
Il sole cade; e l’uomo fa l’aurora!
 
 
Uno bisbiglia; e l’ode uno lontano
le mille miglia! I carri vanno a torma,
da sé, con un fragore d’uragano!
 
 
E c’è chi vola senza lasciar l’orma.
Sì! Sì… come la nuvola che batte
nella luna, e si ragna e si deforma…»
 
 
Le sue parole in un chiaror di latte
passavano, nel loro alitar su.
Come nuvole presto fatte e sfatte
 
 
le rimirava l’umile tribù.
 

CANTO SECONDO

Com’è la luna


I
 
Scórsero i giorni, anche le notti; e il vento
soffiò più forte, e si levò la luna
più tardi, e il fuoco morto e il lume spento
 
 
s’era più presto: un’altra notte, e una
pallida nebbia errò su padri e figli
non sazi. Ma la madre era digiuna.
 
 
Destò la luna i languidi sbadigli
degli altri: a lei si rifletté su gli occhi
umidi e lustri sotto i curvi cigli.
 
 
Si scaldavano un poco ora i marmocchi
a lei. L’ultimo, in terra, il capo ciondo-
loni via via le urtava ai due ginocchi.
 
 
Ella parlò: «Se fosse qui quel biondo
grande… Ma egli prese la bisaccia
vuota; e chi sa, dov’ora è mai, del mondo?
 
 
Io gli avrei detto: Non è lei che ghiaccia
i fossi e i fiumi? Non è lei che imbeve
del suo biancore i lunghi teli e l’accia?
 
 
Non fa la brina e il gelo essa? Ci deve
far così freddo! tra le stelle sole,
liscie, lustranti! Quel biancore è neve…»
 
 
«No, mamma,» disse la fanciulla: «è il Sole!»
 
II
 
E la tribù guardò nel cielo. Quella?
Dunque piena di sole essa trascorre,
di notte, come una più grande stella?
 
 
Una piccola Terra, or sulla torre,
or sull’abete… Ma quell’ombre? Monti,
quelle ombre, rupi valli greppi forre…
 
 
rughe: le rughe delle vecchie fronti.
Ma ella, dunque, è vecchia calva ossuta,
senza verde di frondi, acqua di fonti?
 
 
E la fanciulla disse: «Io l’ho veduta.
In un suo libro. Egli sapea contare
i monti e i mari. Io l’ascoltava muta.
 
 
C’è il Mare di Serenità. C’è il Mare
di Nubi. Anche, di Pioggie e di Tempeste.
Un altro Mare senza l’acque amare.
 
 
C’è la Palude delle Nebbie meste.
C’è anche un Seno, a goccia a goccia pieno
di guazza dalla grande alba celeste.
 
 
E c’è il Lago dei Sogni. Anche c’è il Seno
delle Iridi: tanti alti archi di porte
nel cielo: un infinito arcobaleno.
 
 
Vicino ai Sogni, il Lago della Morte».
 
III
 
Anche la morte? e dunque anche i viventi?
«No! no! nessuno. Chi v’andò, discese.
In terra avea del bene e le sue genti».
 
 
Dunque nessuno… O tacito paese
sopra le nubi, o isola del cielo,
che fiorisci e sfiorisci d’ogni mese!
 
 
Il sole ha fatto colassù lo sgelo!
Gli stagni son coperti ora dei gigli
d’acqua, a fior d’acqua sopra il lungo stelo.
 
 
Si sommergono gli alberi vermigli
dentro la cilestrina acqua dei laghi.
L’aria è fiorita dall’odor dei tigli.
 
 
E rossi e gialli spuntano tra gli aghi
d’abeti e pini, che nessun calpesta,
fiori, bocche di lupi, occhi di draghi…
 
 
Al dolce vento trema la foresta.
Dalla foresta vengono col vento
lontane voci di campane a festa…
 
 
Vi s’ode ancora un palpito più lento,
un tuffo molle a quando a quando, un va
e vieni: ondeggiamento sonnolento,
 
 
lassù, nel Mare di Serenità.
 

CANTO TERZO

In sogno


I
 
Scórsero i giorni; ancor le notti, a una
a una, sempre più stellate e scure;
e più tarda e più vana era la luna.
 
 
Ma quelli in sogno ecco prendean la scure
avanti l’alba. Erano, chi tra un denso
nebbione, chi su ventilate alture.
 
 
Chi s’arrestava avanti un mare immenso,
chi camminava, lungo un colonnato
d’enormi pini, tra l’odor d’incenso.
 
 
E non vedeva che a sé stesso il fiato
cerulo, ognuno, e s’ascoltava il gemito
arido, nel silenzio inabitato.
 
 
A pini e cerri i pionieri estremi
davan la scure per la lor capanna
e i nuovi aratri, e per la nave e i remi.
 
 
Quella, in un poggio, il tetto avea di canna
fiorita ancora. Questa, umida ancora,
nereggiava sotto alte iridi, in panna.
 
 
Ma tristi gli emigranti erano! Allora
uno di tronchi costruì l’altare.
E saliva un soave inno, all’aurora,
 
 
dallo scosceso Caucaso lunare.
 
II
 
Due, la fanciulla e il giovane che amava,
ecco non più si videro. Interrotte
n’erano l’orme a un tondo orlo di lava.
 
 
Vicino al Lago, essi, dei Sogni, in grotte
azzurre, orlate d’ellera e vilucchio,
vivean felici. V’era anche la notte,
 
 
presso quel Lago! Era lor letto un mucchio
d’alghe e di felci; e li addormiva il vago
sogno dell’acque e il fievole risucchio.
 
 
Presso il Lago dei Sogni, c’era il Lago
dei Morti; e niuno ardìa venirci. Alfine
erano soli. Il loro cuor fu pago.
 
 
E i morti? Ebbene, anime pellegrine
anch’esse, anch’esse giunte là dal lido
terrestre, buone e tacite vicine…
 
 
non s’udiva che un loro esile strido
di notte, come già sotto le gronde
a notte buia il pigolìo d’un nido:
 
 
lo strido, ch’uno chiama uno risponde,
allor che spunta dalle cime, ed erra
nel cielo azzurro, e tremola sull’onde
 
 
azzurre, come un grande astro, la Terra.
 
III
 
Tutti felici! V’era solo Dio
lassù. Poneano nel lor campo un sasso,
poneano un segno al lor canotto: È mio!
 
 
Ma non premeva le lor vie, che il passo
di miti renne. Il lor tranquillo mare
solo sentiva remigar lo svasso.
 
 
Le donne al Mare senza l’acque amare
soleano andare all’acqua; ma lontano
gli uomini in pace le sentian cantare.
 
 
La vecchia fame li rodea… ma il grano
c’era, ma gialle non avea le reste;
ma già prendeano le falciole in mano.
 
 
Il vecchio freddo li pungea… la veste
c’era: in dosso alle renne era tuttora.
La legna c’era, ma nelle foreste.
 
 
E non c’è dì senz’alba, e l’alba è l’ora
più bella; e senza fiore non c’è frutto,
e il fiore è bello, il fiore è il più che odora.
 
 
Ed è bello ogni boccio, anche s’è brutto…
Sì; ma il lor mondo, più vicino al dì,
era una falce, un’unghia, un filo… e tutto
 
 
in una luminosa alba vanì.
 
Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
80 s. 1 illüstrasyon
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