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Kitabı oku: «Nuovi poemetti (1909)», sayfa 4

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CANTO TERZO

I
 
Or sì, conviene ai gelsi bianchi, ai mori,
dare il pennato e portar foglia a fasci,
con fruscìo grande e il fresco odor di fuori!
 
 
Ma su le prime indugi un po’; né lasci
che il gregge impingui, e se ne perda il frutto:
attenta, accorta, a man a man li pasci
 
 
più largamente, fin che indulgi il tutto.
 
II
 
Ed ecco allora, nell’opaca loggia
piena di verde, uno scrosciare uguale,
un grosso allegro strepito di pioggia.
 
 
Sembra l’oscurità d’un temporale
che fa fuggire con le falci in pugno
le villanelle… Invece le cicale
 
 
cantano al sole, al nuovo sol di giugno.
 
III
 
Canta, nel sole immersa, la calandra
che inebbria il cielo. Tu tra i tuoi castelli
nella fresca ombra vegli sulla mandra.
 
 
Di quando in quando vengono i fratelli
portando rami striduli a bracciate:
entra con loro il canto degli uccelli,
 
 
entra con loro il soffio dell’estate.
 
IV
 
Ma sazi alfine i tuoi voraci allievi,
or l’uno or l’altro, lasciano la foglia.
Erano pigri, agili sono e lievi.
 
 
Vagano spinti da non so qual voglia.
Talvolta alcuno qua e là s’arresta.
Sembrano ciechi che da soglia a soglia
 
 
vadano tentennando con la testa.
 
V
 
Tu sai, tu vegli: a tempo tu facesti
nella tua selva, o Rosa, quando c’eri
pei primi funghi, irsute stipe e cesti.
 
 
Rami d’ulivi, anche di meli e peri,
anche di viti, tu serbasti insieme,
e, quali alberi, piccoli ma veri,
 
 
gambi di rape, dopo colto il seme.
 
VI
 
Di questi rami ed alberi minori
alzi in un tiepido angolo tranquillo
un bosco secco senza foglie e fiori.
 
 
– Che rifiorisca? – par che rida il grillo.
Non ride il ragno: egli fa pur le tele!
Né l’ape ch’ama il regamo e il serpillo:
 
 
tutto può darsi; ella fa pure il miele!
 
VII
 
Vanno inquïeti, contro lor costume.
Qual monta i ritti, qual s’appende al muro.
Traspare il corpo se si spera al lume.
 
 
Più nulla è in loro, che non sia futuro.
Par che la bocca un fil di luce aneli.
Il verme è mondo, il verme è tutto puro…
 
 
O Rosa, è puro, e cerca ove si celi.
 
VIII
 
Prendili, o Rosa, con le rosee dita:
portali al bosco. Dentro pochi giorni
l’arida selva rivedrai fiorita.
 
 
Vai dal castello al bosco, poi ritorni
dal bosco lieta al tuo castello: lieta,
che l’un si vuoti e l’altro già s’adorni
 
 
di biondi grandi bozzoli di seta.
 
IX
 
Non più castelli, o Rosa: altro non resta
che il bosco brullo. Or tu siedi romita,
pensi all’amore, un po’ lieta un po’ mesta.
 
 
Dal bosco morto viene un’infinita
romba nel gran silenzio sonnolento.
Tra le sue rame odi un ansar di vita…
 
 
le già sue foglie odi stormire al vento.
 

LA MIETITURA

TRA LE SPIGHE

I
 
Il grano biondo sussurrava al vento.
Qualche fior rosso, qualche fior celeste,
tra i gambi secchi sorridea contento.
 
 
Pendeano li agli e le cipolle in reste.
S’udian, mutata alfin la voce in gola,
cantar galletti, altieri delle creste.
 
 
Tessea le spighe dello spigo a spola
la cara madre, per i suoi rotelli
del banco grande e per le sue lenzuola.
 
 
Fioria la zucca, arsivano i piselli,
nell’orto. Le ciliege erano andate:
per San Giovanni avevano i giannelli.
 
 
C’erano già le mele dell’estate,
c’erano le susine di San Pietro.
Fatte via via più lunghe le giornate,
 
 
il sole, stanco, ritornava indietro.
 
II 
 
E biondo al vento mormorava il grano.
Fiorivano le snelle spadacciole
tra i gambi gialli; e non sapean, che in vano.
 
 
C’era un bisbiglio come di parole.
E l’intendea la lodola che in tanto
aveva lì la giovinetta prole.
 
 
Tardi avea fatto il nido, lì da un canto.
Oh! ella amava il sole più che il nido!
Chissà? voleva far lassù, col canto!
 
 
Or sui piccini udiva già lo strido
della falciola; e li ammonìa di stare
accovacciati senza dare un grido.
 
 
Diceva: – Chiotte, contro terra, o care!
che non si mova un bruscolo, uno stelo!
V’ho fatte color terra: altro non pare,
 
 
così, che terra, o nate per il cielo! —
 
III 
 
E il grano al vento strepitava; e disse
il padre al figlio: «Mieteremo. Vedi:
verdino è, sì, ma non vorrei patisse.
 
 
Ché il grano dice: – Io sto ritto, e tu siedi.
Qui temo l’acqua, e il vento mi dà briga.
Altronde, o presto o tardi, o steso o in piedi,
 
 
se il gambo è secco seccherà la spiga —».
 

TERRA E CIELO

I
 
E disse poi, con tutti i figli attorno,
appiè d’un melo, carico di mele:
«Sì: mieteremo sull’aprir del giorno.
 
 
La terra è buona: dura, ma fedele;
ma è una barca, il sole per timone,
e bianche e nere nuvole per vele.
 
 
Ci vuole il cielo: tutto a sua stagione;
e freddo, caldo, dolce, aspro, ci vuole,
e i lampi e i tuoni e il fumido acquazzone.
 
 
Il grano, in prima, ebbe due barbe sole,
quando escì fuori, un solo gambo in tutto.
Venne la neve: – Ah! vuoi goderti il sole?
 
 
No! Soffri un po’! Metti altre barbe! Frutto
non vien da seme che non sia già morto! —
Die’ retta il grano. Marzo venne asciutto.
 
 
Guai se i miei campi li prendea per l’orto!
 
II
 
Si sa: marzo va secco, il gran fa cesto.
Il gran, per uno pallido e sottile,
più ciuffi mise, quanto più fu pesto.
 
 
Talliva. Allora sopravvenne aprile
con le dolci acque. I giorni erano belli,
ma e’ passava con il suo barile.
 
 
Passava in alto, tra un cantar d’uccelli,
con una gonfia nuvoletta nera…
E il gran fece il cannello, anzi i cannelli.
 
 
Doglia di verno, gioia a primavera!
Tanti cannelli, tante spighe, nate
d’un chicco solo; e questo chicco ov’era?
 
 
Non c’era più. Restare, a che? Pensate.
Il grano in tanto chiuso nello stelo,
dentro le verdi lolle accartocciate,
 
 
fioriva. Unita era la Terra e il Cielo.
 
III
 
Fioriva il grano. Erano in casa, i fiori,
con l’uscio chiuso, e nuovi della vita
mescean celati i loro dolci amori.
 
 
Alfin la spiga aperse con due dita
l’uscio, e guardò stringendo a sé la veste.
Ma come vide al Ciel la Terra unita,
 
 
anch’ella uscì, ma con un vel di reste.
 

E LAVORO

I
 
E il grano è bello. Ma non fu soltanto
la terra e il cielo, fu la nostra mano.
Chi prega è santo, ma chi fa, più santo.
 
 
E prima scelsi il seme del mio grano
tra il grano mio. Grani più duri e grossi
o più gentili non cercai lontano.
 
 
Altri grani, altre terre, ed altri fossi
ed altri conci. Il grano da sementa
non lo tribbiai né macchinai, ma scossi.
 
 
Quando fu tempo, presi calce, spenta
da me, non vecchia; tal che, non appena
l’acqua la bagni, bulica e fermenta.
 
 
Ne feci latte, e in una cesta piena
v’immersi il grano, che un po’ sempre molle,
quando sentii la lunga cantilena
 
 
di grilli e rane, sparsi sulle zolle.
 
II
 
Né lavorato avevo a fondo: a fondo
avevo sì, ma pel granturco d’anno.
Il grano è meglio, e però vien secondo.
 
 
Sta pago il grano a quello che gli dànno.
Vuol sì la terra trita, ma non trita
tanto, ché, anzi, gli sarebbe a danno.
 
 
Non diedi al grano, che mi dà la vita,
nemmeno il concio. Poco o nulla e’ chiede
per far la spiga bella e ben granita.
 
 
Gli basta un po’ del troppo che si diede
al formentone, che scialacqua e, grande
com’è, non pensa al piccoletto erede.
 
 
Ad ogni acquata egli s’innalza e spande,
si sogna d’essere albero, fa vanti
e sfoggi, e vuole intorno a sé ghirlande
 
 
di zucche e di fagioli rampicanti…
 
III
 
Dov’e’ lasciò, grossi, pel fuoco, i gambi,
io questo grano seminai; non fitto;
e un sol governo valse per entrambi.
 
 
E visse e crebbe, pesto giallo afflitto…
Ma, or vedete: e’ non s’alletta e sta.
È bello. Per tenere il capo ritto
 
 
giova la cara buona povertà!
 

IL PANE

I
 
Date la pietra a falci ed a frullane,
o cari figli! spruzzolate l’aia
con acqua pura! Ché ritorna il pane.
 
 
Viene dai campi tratto a noi da paia
di vaccherelle, a l’aie bianche ov’erra
odor di fiori e odor di concimaia.
 
 
Fategli festa: ei viene di sotterra,
e sé dà cibo a quei che l’hanno ucciso,
il figlio pio del Cielo e della Terra!
 
 
Siete suoi figli; e, dopo che al sorriso
di vostra madre, di tra le sue stesse
mammelle sante, avete a lui sorriso.
 
 
Lo stringevate, che non vi cadesse,
con le due mani, ancora gronchie, al core,
dandogli un bacio. Egli le sue promesse
 
 
attiene, e per noi nasce e per noi muore.
 
II
 
Fategli festa. Era finito il grano…
il grano vecchio. Or quello ch’è più in cera,
noi sceglieremo e batteremo a mano.
 
 
Il meglio, il fiore dell’annata intera,
noi manderemo subito al molino;
che l’abbia a giorno e che lo renda a sera.
 
 
L’affioreremo. Vuo’ lo staccio fino.
Prepareremo il lievito, ch’è quello
che il nonno in casa ritrovò bambino.
 
 
Sia buono il pane, ma non sia men bello:
meglio che un brutto pan di fiore approvo
un bel colombo fatto di cruschello.
 
 
Sia ben levato e pieno come un ovo,
e col suo sale; buono anche da solo.
Sia questo primo pane di gran nuovo
 
 
per te, mia figlia, che mi prendi il volo.
 
III
 
Ma da’ la pietra alla tua falce, o Rosa.
Mieti con gli altri. Mieterai più lenta
nei dì che passi tra fanciulla e sposa;
 
 
nei dì che il cuore sembra che si penta
di far le spighe che per ciò son nate…
Mieti anche tu. Nelle tue carni ei senta
 
 
l’odor del grano e della grande estate».
 

LA MESSE

I
 
I due fratelli con le due sorelle,
stringendo il grano e le lunate falci,
mietean le spighe e ne facean mannelle.
 
 
Torceano spighe, per legar, non salci.
E le stendeano. O vite, così stese
le carezzavi con l’ombrìa dei tralci.
 
 
L’erbe così, mentre fiorian, sorprese,
moriano al sole; onde alle bestie grata
si fa la paglia come fien maggese.
 
 
Passava il padre tutta la giornata
pei solchi, e ritte le mannelle in croce
ponea, se l’erba già vedea seccata.
 
 
Seguian nel campo l’opera veloce
lieti i fratelli e le sorelle accanto.
Ma non si udiva, o Rosa, la tua voce.
 
 
Un canto, sì, di lodoletta, o un pianto.
 
II
 
In ogni campo alzarono due tonde
mete di spighe. Posero per prime
quattro mannelle, le più grosse e bionde.
 
 
Posero il calcio in terra, alto le cime;
e poi, con le altre sopra quelle e intorno,
fecero una gran cupola sublime.
 
 
Mietean tre giorni. Sul finir del giorno,
era finita. Placida la sera,
erano i cuori placidi al ritorno.
 
 
«Il grano è bello, e, di verdugio ch’era,
secco sin troppo. Con quel sole, ha sete.
Oggi la spiga ci parea leggiera»
 
 
diceva il babbo, e soggiungea: «Vedrete!
Il gran che il sole ora ha stremato e franto,
poi si rifà la notte nelle mete,
 
 
e s’enfia e s’empie, e peserà più tanto».
 
III
 
Nere le mete: solo qualche lampo
facean le paglie, come se un tesoro
fosse disperso qua e là nel campo.
 
 
Diceano i grilli grazie mille in coro
a chi, tagliato, per lor agio, il grano,
gittò poi l’arma… La falciola d’oro
 
 
brillava in cielo e ricadea lontano.
 

I SEMI

I
 
L’alba sul monte e l’ombra nella valle.
I vermi chiusi ne’ ben fatti avelli,
piccole mummie rinascean farfalle.
 
 
Le spose uscian da’ bozzoli più belli,
candide e gravi. Col frullar dell’ale
movean ver loro i brevi maschi snelli.
 
 
La savia madre il letto nuzïale
bianco lor tese. Ognuno andava in traccia
d’una compagna all’opera immortale.
 
 
E venne Rosa dalle bianche braccia
nella stanzetta del fecondo rito.
Recava in grembo i bei rotelli e l’accia.
 
 
Rosa ristié vedendo già fiorito
di semi d’oro, tanti semi, il panno.
Pensava: – Allora avrò l’anello al dito,
 
 
non ci sarò, quando rinasceranno…
 
II
 
Sentiva tonfi e scrosci come pioggia
che sferzi i vetri. Il primo fior del grano
scotean laggiù nella sonante loggia.
 
 
Prendeva il babbo una mannella in mano
e la battea, voltandola, più volte,
forte e con garbo, sur un banco piano.
 
 
Secche, bell’aspre, già per prime colte,
eran le spighe, e con tre colpi a sesto
davano fuori il grano lor, disciolte.
 
 
Pioveano i chicchi. A Rosa vie più mesto
si fece il cuore. Ah! che il desio rimane
addietro, spesso, e il tempo va più lesto!
 
 
Capì la madre che pensava al pane
delle sue nozze, pallida e sgomenta;
e disse, volti gli occhi in là: «Stamane
 
 
scuotono il grano, ma della sementa…»
 
III
 
E nelle braccia si trovò piangente
l’una dell’altra. «Oh! quello che più costa,
figlia, è la gioia: oh! non si dà per niente!»
 
 
«Se ho fatto male, non l’ho fatto apposta!
Lascia ch’io resti qui con te, ch’io stia
in un cantuccio, ma con te, nascosta…
 
 
Non mi mandare, o dolce madre, via!…»
 

IL CORREDO

I
 
«Non io ti mando. È un altro che ti manda.
Fa quel ch’io feci, che per te fu bene.
Va col tuo velo e con la tua ghirlanda.
 
 
Te la faremo d’astri e di verbene;
di rose, resti, e per un po’, tu sola.
Va col corredo quale a te perviene.
 
 
Frullare il fuso e correre la spola
facesti assai! La tela, che tessesti!
Quante coperte e paia di lenzuola!
 
 
Tutte son tue; che, quando là ti desti
nei primi giorni, prima che sia giorno,
pensi che i più, degli anni tuoi, son questi.
 
 
Ti sentirai l’odor di casa attorno,
il buon odor di spigo e di cotogno,
e di tua mamma; ed ecco di ritorno
 
 
sarai, tra noi, se dopo dormi, in sogno.
 
II
 
Facesti assai correre l’ago e il fuso,
la spola e i ferri. Il bene, si ritrova.
Hai quel ch’è d’uso, ed anche più, che d’uso.
 
 
Senza pensarci, ad una casa nuova
tu provvedevi: tu, per quella, in piazza
la seta e i polli tu portasti e l’uova.
 
 
Per quella i teli stavano alla guazza
ed alla luna. Dice il babbo, o Rosa:
– Ricca da sposa, oprante da ragazza. —
 
 
Ora, il primo anno, o figlia mia, riposa!
Godi, che n’hai, le calze, e le gonnelle
e le tovaglie a spina, a riso, a rosa.
 
 
Per me l’hai fatte, e sono così belle!
La madre tua le dona a te… Ma pensa!
Quando i tuoi vecchi un giorno le ciambelle
 
 
ti porteranno, ne ornerai la mensa».
 
III
 
Così diceva; ma di tanto in tanto
le si arrochiva e si spengea la voce.
Assieme allora elle faceano un pianto.
 
 
Come è qui tutto, insino i fiori, a croce!
La madre altrove la condusse, un banco
le aperse, nuovo, lucido, di noce.
 
 
«È tuo, con tutto il suo tesoro bianco».
 

IL SALUTO

I
 
E il giorno avanti le sue nozze in fiore
rivide, errando per il colle e il piano,
ciò ch’ella amava, e che non era amore.
 
 
E salutò coi cenni della mano
la vigna verde che gli dava il vino,
il campo grande che gli dava il grano;
 
 
e il melograno rosso e il biancospino
della sua siepe, e il campo così smorto,
in cui fiorì come un bel cielo il lino:
 
 
ciò ch’era morto e ciò ch’era risorto,
ciò che nasceva e che moriva al sole,
la selva, il prato, l’oliveta e l’orto.
 
 
Di fiori, c’era un alto girasole,
nell’orto, e qualche zinia ed astro in boccia.
Tutto era colto… A lei con l’ali sole
 
 
corse, tra un rotto pigolio, la chioccia.
 
II
 
Salutò l’aia, il pozzo, a tutte l’ore
gemente e fresco, e la sua casa oh! tanto
e tanto amata! ma non era amore;
 
 
la cameretta, il letto a due, col Santo
che v’era in cima. Il capo sulla sponda,
piangeva, ed ecco udiva un altro pianto.
 
 
«Oh! ella aspetta sempre che risponda
il vitellino!» Era, quel pianto, un muglio.
Un muglio sì, ma era la sua Bionda!
 
 
Scese, e facea per lei qualche cerfuglio
e qualche frasca. Ecco un ronzio sonoro.
Era uno sciame che sciamava in luglio.
 
 
Ronzare udiva quello sciame d’oro,
e la sua mucca riudì mugliare.
Rondini udiva cinguettare in coro,
 
 
venute al nido sopra il vento e il mare.
 
III
 
Ed il domani baciò Nando e Dore
che scappò, il babbo a cui ballava il mento;
che amava, oh! quanto! ma non era amore.
 
 
Ei disse: «Gioia dentro, lume spento».
Baciò la madre, che la benedisse;
e Violetta, col suo viso attento,
 
 
tacita, grave, le pupille fisse.
 
Yaş sınırı:
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Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
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