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Kitabı oku: «Nuovi poemetti (1909)», sayfa 3

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NANNETTO

 
Su qualche tetto erano forse al sole
o in qualche prato, simili a vedere
a bianche pietre, in tanto verde, sole.
 
 
Io le cercava, una di queste sere,
guardando certe novità dell’orto
suo: peri nani con enormi pere.
 
 
Andavo su e giù come a diporto
col babbo suo, mentre cercavo intorno
le due colombe del fanciullo morto.
 
 
Le avea portate da Zurigo un giorno
e qui lasciate per tenergli il posto
nella sua casa fino al suo ritorno;
 
 
per aspettarlo fino al nuovo agosto;
no, per restare anch’esso tra i suoi monti
e veder tutto, dentro lor nascosto:
 
 
girare i boschi, bere ai puri fonti
della sua terra, e te godere ancora,
sole, che così bello oggi tramonti,
 
 
e, dopo ancor l’Avemaria, quest’ora
chiara e la sera che s’addorme e pare
sognar, sui monti, d’essere l’aurora.
 
 
A lui parrebbe d’esserci, e di fare
qualcosa anch’esso e d’aiutare un poco
i suoi compagni e lor sorelle care:
 
 
roncare insieme, ma così per gioco,
tirar la piena stridula carretta,
mettere al mucchio dell’erbacce il fuoco;
 
 
a un primo lampo, a un primo tuono, in fretta
correre tutti ad ammucchiare il fieno;
condurre a mano la vacca soletta;
 
 
e per la strada, sotto un ciel sereno
come ora, con qualcuno che s’arresta,
parlar di forivia, del più, del meno;
 
 
andare ad ogni sagra, ad ogni festa
de’ suoi villaggi, semplice e fedele,
con lo straniero berrettino in testa;
 
 
e contemplare il nuovo San Michele,
venuto insin d’America ad Albiano,
tra quel vapor d’incenso e di candele.
 
 
Oh! ci sarebbe, pur così lontano!
vedrebbe qui, sull’ali del suo paio
di colombelle, viti ulivi e grano:
 
 
e le ceragie prime, e il primo staio
delle castagne, e i primi fichi d’oro
vedrebbe, e il primo grispolletto vaio!
 
 
Dove son elle? Il cielo in vano esploro.
Dov’è il ricordo del fanciullo buono?
Ed ecco il padre un fischio dà sonoro.
 
 
Ed ecco un altro suono dietro il suono;
un lieve moto, un fischio, un volo, un rombo.
Ei non c’è più; ma elle ancor ci sono.
 
 
Vien la colomba accanto al suo colombo,
e tutti e due si posano su ‘n ramo,
snodando il collo del color di piombo.
 
 
Scattano il collo a rimirar chi siamo,
a lungo a lungo. Esse beveano al fiume,
quando le scosse il solito richiamo.
 
 
– Dov’è? – Guardano guardano nel lume
roseo. – Non c’è! – Riguardano. E non vanno.
Col becco intanto lisciano le piume.
 
 
No, che non c’è. Non tornerà quest’anno!
È il babbo solo… e tanto in cuor gli spiace
d’avervi fatto questo breve inganno.
 
 
Non c’è, per ora. Ite a dormire in pace.
Nannetto vostro è sempre via pel mondo,
ed, a quest’ora, anch’esso dorme, e tace.
 
 
Non più, colombe, ora a Zurigo, in fondo
di Magnusstrasse, ritto dietro il banco,
vede chi passa, il bel fanciullo biondo.
 
 
Vede bensì l’Eichhörnchen suo, che stanco
è d’aspettare, e siede sullo staggio
mostrando tutto il folto petto bianco.
 
 
Né prende i semi d’acero e di faggio
tra le zampine, e pensa che l’estate
finisce, ed ei non torna dal vïaggio
 
 
fatto in cercar le due compagne alate.
 

BELLIS PERENNIS

I
 
Chi vede mai le pratelline in boccia?
Ed un bel dì le pratelline in fiore
empiono il prato e stellano la roccia.
 
 
Chi ti sapeva, o bianco fior d’amore
chiuso nel cuore? E tutta, all’improvviso,
la nera terra ecco mutò colore.
 
 
Sono pensieri, ignoti già, che in viso
rimiran ora, ove si resti o vada;
nati così, nell’ombra, d’un sorriso
 
 
di stella e d’una goccia di rugiada…
 
 
O mezzo aperta come chi non osa,
o pratellina pallida e confusa,
 
 
che sei dovunque l’occhio mio si posa,
e chini il capo, all’occhio altrui non usa;
 
 
bianca, ma i lievi sommoli, di rosa;
tanto più rosa quanto più sei chiusa:
 
 
ti chiudi a sera, chi sa mai per cosa,
sei chiusa all’alba, ed il perché sai tu;
 
 
o primo amore, o giovinetta sposa.
o prima e sola cara gioventù!
 
II
 
È il verno, e tutti i fiori arse la brina
nei prati e tutte strinò l’erbe il gelo:
ma te vedo fiorir, primaverina.
 
 
Tu persuasa dal fiorir del cielo,
fioristi; ed ora, quasi più non voglia
perché sei sola, appena alzi lo stelo.
 
 
O fior d’amore su la trita soglia!
Tu tingi al sommo i petali d’argento
d’un rosso lieve. Una raminga foglia
 
 
ti copre un poco, e passa via col vento…
 
 
O fior d’amore su la soglia trita!
o, quando tutto se ne va, venuta!
 
 
che vivi quando è per finir la vita!
e che non muti anche se il ciel si muta!
 
 
Hai visto i fiori nella lor fiorita:
vedi le foglie nella lor caduta.
 
 
Ti coglierà passando Margherita
col cuore assorto nell’amor che fu.
 
 
Ti lascerà cadere dalle dita…
– Egli non t’ama, egli non t’ama più! —
 

LA PECORELLA SMARRITA

I
 
«Frate,» una voce gli diceva: «è l’ora
che tu ti svegli. Alzati! La rugiada
è sulle foglie, e viene già l’aurora».
 
 
Egli si alzava. «L’ombra si dirada
nel cielo. Il cielo scende a goccia a goccia.
Biancica, in terra, qua e là, la strada».
 
 
S’incamminava. «Spunta dalla roccia
un lungo stelo. In cima dello stelo,
grave di guazza pende il fiore in boccia».
 
 
S’inginocchiava. «Si dirompe il cielo!
Albeggia Dio! Plaudite con le mani,
pini de l’Hermon, cedri del Carmelo!»
 
 
Tre volte il gallo battea l’ali. I cani
squittìano in sogno. Le sei ali in croce
egli vedea di seraphim lontani.
 
 
Sentiva in cuore il rombo della voce.
Su lui, con le infinite stelle, lento,
fluiva il cielo verso la sua foce.
 
 
Era il dì del Signore, era l’avvento.
Spariva sotto i baratri profondi
colmi di stelle il tacito convento.
 
 
– Mucchi di stelle, grappoli di mondi,
nebbie di cosmi. Il frate disse: «O duce
di nostra casa, vieni! Eccoci mondi».
 
 
In quella immensa polvere di luce
splendeano, occhi di draghi e di leoni,
Vega, Deneb, Aldebaran, Polluce…
 
 
E il frate udì, fissando i milïoni
d’astri, il vagito d’un agnello sperso
là tra le grandi costellazïoni
 
 
nella profondità dell’Universo…
 
II
 
E il dubbio entrò nel cuore tristo e pio.
«Che sei tu, Terra, perché in te si sveli
tutto il mistero, e vi s’incarni Dio?
 
 
O Terra, l’uno tu non sei, che i Cieli
sian l’altro! Non, del tuo Signor, sei l’orto
con astri a fiori, e lunghi sguardi a steli!
 
 
Noi ti sappiamo. Non sei, Terra, il porto
del mare in cui gli eterni astri si cullano…
un astro sei, senza più luce, morto:
 
 
foglia secca d’un gruppo cui trastulla
il vento eterno in mezzo all’infinito:
scheggia, grano, favilla, atomo, nulla!»
 
 
Così pensava: al sommo del suo dito
giungeva allora da una stella il raggio
che da più di mille anni era partito.
 
 
E vide una fiammella in un villaggio
lontano, a quelle di lassù confusa:
udì lontano un dolce suon selvaggio.
 
 
Laggiù da una capanna semichiusa
veniva il suono per la notte pura,
il dolce suono d’una cornamusa.
 
 
E risonava tutta la pianura
d’uno scalpiccio verso la capanna:
forse pastori dalla lor pastura.
 
 
E il frate al suono dell’agreste canna
ripensò quelle tante pecorelle
che il pastor buono non di lor s’affanna:
 
 
tra i fuochi accesi stanno in pace, quelle,
sicure là su la montagna bruna;
e il pastor buono al lume delle stelle
 
 
quaggiù ne cerca intanto una, sol una…
 
III
 
«Sei tu quell’una, tu quell’una, o Terra!
Sola, del santo monte, ove s’uccida,
dove sia l’odio, dove sia la guerra;
 
 
dove di tristi lagrime s’intrida
il pan di vita! Tu non sei che pianto
versato in vano! Sangue sei, che grida!
 
 
E tu volesti Dio per te soltanto:
volesti che scendesse sconosciuto
nell’alta notte dal suo monte santo.
 
 
Tu lo volesti in forma d’un tuo bruto
dal mal pensiero: e in una croce infame
l’alzasti in vista del suo cielo muto».
 
 
In cielo e in terra tremulo uno sciame
era di luci. Andavano al lamento
della zampogna, e fasci avean di strame.
 
 
Ma il frate, andando, con un pio sgomento
toccava appena la rea terra, appena
guardava il folgorìo del firmamento:
 
 
quella nebbia di mondi, quella rena
di Soli sparsi intorno alla Polare
dentro la solitudine serena.
 
 
Ognun dei Soli nel tranquillo andare
traeva seco i placidi pianeti
come famiglie intorno al focolare:
 
 
oh! tutti savi, tutti buoni, queti,
persino ignari, colassù, del male,
che no, non s’ama, anche se niun lo vieti.
 
 
Sonava la zampogna pastorale.
E Dio scendea la cerula pendice
cercando in fondo dell’abisso astrale
 
 
la Terra, sola rea, sola infelice.
 

LA VERTIGINE

Si racconta di un fanciullo che aveva

perduto il senso della gravità…


I
 
Uomini, se in voi guardo, il mio spavento
cresce nel cuore. Io senza voce e moto
voi vedo immersi nell’eterno vento;
 
 
voi vedo, fermi i brevi piedi al loto,
ai sassi, all’erbe dell’aerea terra,
abbandonarvi e pender giù nel vuoto.
 
 
Oh! voi non siete il bosco, che s’afferra
con le radici, e non si getta in aria
se d’altrettanto non va su, sotterra!
 
 
Oh! voi non siete il mare, cui contraria
regge una forza, un soffio che s’effonde,
laggiù, dal cielo, e che giammai non varia.
 
 
Eternamente il mar selvaggio l’onde
protende al cupo; e un alito incessante
piano al suo rauco rantolar risponde.
 
 
Ma voi… Chi ferma a voi quassù le piante?
Vero è che andate, gli occhi e il cuore stretti
a questa informe oscurità volante;
 
 
che fisso il mento a gli anelanti petti,
andate, ingombri dell’oblio che nega,
penduli, o voi che vi credete eretti!
 
 
Ma quando il capo e l’occhio vi si piega
giù per l’abisso in cui lontan lontano
in fondo in fondo è il luccichìo di Vega…?
 
 
Allora io, sempre, io l’una e l’altra mano
getto a una rupe, a un albero, a uno stelo,
a un filo d’erba, per l’orror del vano!
 
 
a un nulla, qui, per non cadere in cielo!
 
II
 
Oh! se la notte, almeno lei, non fosse!
Qual freddo orrore pendere su quelle
lontane, fredde, bianche azzurre e rosse,
 
 
su quell’immenso baratro di stelle,
sopra quei gruppi, sopra quelli ammassi,
quel seminìo, quel polverìo di stelle!
 
 
Su quell’immenso baratro tu passi
correndo, o Terra, e non sei mai trascorsa,
con noi pendenti, in grande oblìo, dai sassi.
 
 
Io veglio. In cuor mi venta la tua corsa.
Veglio. Mi fissa di laggiù coi tondi
occhi, tutta la notte, la Grande Orsa:
 
 
se mi si svella, se mi si sprofondi
l’essere, tutto l’essere, in quel mare
d’astri, in quel cupo vortice di mondi!
 
 
veder d’attimo in attimo più chiare
le costellazïoni, il firmamento
crescere sotto il mio precipitare!
 
 
precipitare languido, sgomento,
nullo, senza più peso e senza senso.
sprofondar d’un millennio ogni momento!
 
 
di là da ciò che vedo e ciò che penso,
non trovar fondo, non trovar mai posa,
da spazio immenso ad altro spazio immenso;
 
 
forse, giù giù, via via, sperar… che cosa?
La sosta! Il fine! Il termine ultimo! Io,
io te, di nebulosa in nebulosa,
 
 
di cielo in cielo, in vano e sempre, Dio!
 

IL PRIGIONIERO

 
Prendi, infelice, il tuo dolore in pace!
«Perché?» Tu, perché gridi, urti la porta?
«Perché dolore è più dolor, se tace».
 
 
Se lo nascondi, frutterà. Sopporta,
attendi, spera… «O vanità! Non spero.
Non credo». Eppure… «Dio non è!» Che importa?
 
 
C’è del mistero intorno a te… «Mistero?
Io non lo vedo». Ciò che tu non vedi,
o prigioniero, è un altro prigioniero;
 
 
e un altro e un altro. Hanno nei ceppi i piedi…
«Anch’io». Presto la morte, ora catene!
«Anch’io». Dunque tu sai, dunque tu credi.
 
 
Non li destare! «Io, dormo forse?» Ebbene?
Se vuoi parlare, parla sì, ma piano;
canta, se vuoi, ciò che dal cuor ti viene:
 
 
canta, ma un dolce canto, esile, vano,
che su la piuma delle sue parole
li porti in collo al loro amor lontano:
 
 
cantalo quello che nel cuor ti duole!
piangano anch’essi, ma dormendo ancora!
Chi piange in sogno, è giunto a ciò che vuole,
 
 
è giunto alfine a tutto ciò che implora
invano. Canta: e l’anima pugnace
tua placherai. Ritroverà l’aurora
 
 
anche te forse addormentato in pace.
 

I FILUGELLI

CANTO PRIMO

I
 
Con chi partisci quell’esigua messe?
La deve qualche luccioletta avere,
che ti fa lume? o il ragno, che ti tesse?
 
 
o la formica? Le formiche nere
t’han fatto il mucchio, che somiglia un poggio?
E mezzo devi il grano del podere,
 
 
e lo misuri: e il tuo ditale è il moggio.
 
II
 
T’han fatto, o Rosa, le formiche il mucchio.
Ora partisci, benché sia d’aprile;
San Marco, appunto; quando il gelso è in succhio.
 
 
E il tuo grano è una polvere sottile
e sembra nato tutto in una zolla…
Lo tribbiò il grillo dentro il suo cortile,
 
 
e la vanessa ventilò la lolla.
 
III 
 
Te lo tribbiò le lunghe sere il grillo
trillando acuto… Oppur codesto grano
tu l’hai mietuto al regamo e al serpillo?
 
 
O scosso t’hai nel cavo della mano
l’urna del fiore dell’oblio, del fiore
del dolce sonno? Vi s’udiva un vano
 
 
scrosciar di pioggia in un lontano albore…
 
IV 
 
E tu vuoi dunque seminare il sogno
del rosso fiore? Non è tardi? È molto
che cadde il fiore al melo ed al cotogno.
 
 
Fiorisce il grano già da te sepolto.
Pendono ai rami i pomi verdi e lazzi.
Fiorisce l’uva; e dal ciliegio folto
 
 
pendono bianche le ciliege a mazzi.
 
 
Ma tu ti sganci il candido corsetto,
o bionda Rosa. Fuori è chiaro il sole,
e due colombi tubano sul tetto
 
 
Ti slacci il busto. Odore di vïole
bianche è nell’orto. Oh! lascia come prima.
Bello è come è. Non altro fior ci vuole.
 
 
Ci son due bocci ch’hanno il rosso in cima.
 
VI 
 
Non chiudere entro il bianco petto, o Rosa,
il fior del sonno. Non la notte e il giorno
costì si veglia e mai non si riposa?
 
 
Ma senti a un tratto scalpicciare intorno
alla tua casa… Ora le lievi trine
tu lieve agganci, ed il corsetto adorno
 
 
richiudi, a un grido delle tue vicine.
 
VII 
 
Chiamano: Rosa! A doppio le campane
suonano. Andate! Va con l’altre a schiera:
prega da Dio la cara pace e il pane.
 
 
Peregrinando suoni la preghiera
per campi e selve, e per le vigne e gli orti.
Ristate, o litanie di primavera,
 
 
avanti a croci, qua e là, di morti!
 
VIII 
 
Appiedi, o Rosa, delle vecchie croci
prega anche tu: che venga alle su’ ore
il grano e l’uva, e le gioconde noci
 
 
e le castagne; per il dolce amore
tuo, per quei morti, che non sai chi sono…
Prega! Pregate che sfiorisca il fiore,
 
 
che il bello passi ma che lasci il buono.
 
IX 
 
Ai morti ignoti hanno pensato, ed anche
al seme chiuso che lor è sul cuore,
covato già da due lievi ale bianche…
 
 
E vanno via le vergini canore
e il canto lor si perde nella valle.
Cantano lontanando: Non si muore!
 
 
E poi: Lo sanno insino le farfalle!…
 

CANTO SECONDO

I
 
Nati! Son nati nel tuo petto i semi!
Ah! che son bruchi, squallidi di pelo,
neri, infiniti! Ma tu già non temi.
 
 
Tu cauta e pia nel piccolo suo telo,
in un paniere, adagi il tuo tesoro;
e su vi spargi lievemente un velo
 
 
di foglie trite e di germogli d’oro.
 
II
 
Ché savio il gelso come se c’intenda,
ha messo a tempo. Ed ora ogni quattro ore
tu recherai la piccola profenda,
 
 
al lor presepe, nell’ugual tepore
della tua stanza; ed essi pasceranno.
Ma ecco, un dì, non toccano più fiore:
 
 
noia li prende; alzano il capo, e stanno.
 
III
 
Dormono. Or tu non romperai quel sogno
che forse fanno. Non portar più frasca;
ché non d’altro che d’aria hanno bisogno.
 
 
Un giorno; e par che il gregge tuo rinasca.
Par nuovo. E tu gli porgi qualche cima
fresca a cui salga il nuovo gregge, e pasca;
 
 
e lo tramuti dal panier di prima.
 
IV
 
Cerca tre volte tanta una canestra:
prendi i germogli con sur ogni foglia
appeso un branco, e ponili giù destra.
 
 
Tre volte tanto mangiano. E tu spoglia
per loro i rami e spicca verdi i germi.
Mangino. In capo de’ sei dì la voglia
 
 
del cibo è queta: alzano il capo, e fermi!
 
V
 
Dormono. Il corpo a qualche cosa attorno
hanno legato con sottili bave
come di seta; e dormono un gran giorno.
 
 
Alfine ecco si svolgono dal grave
sonno, rifatti. Ed ecco a cento a cento
li cogli a un ramo, poni giù soave
 
 
in una stuoia il tuo cresciuto armento.
 
VI
 
Tre volte tanto brucano foraggio
così cresciuti. Ma tre volte tanto
verdeggia il gelso al puro sol di maggio.
 
 
Due rose aperte tu porrai da un canto.
Sognino nella stanza solitaria
d’essere in Cina, i bachi, e per incanto
 
 
errar sui gelsi tra il color dell’aria!
 
VII
 
Dormono… Ebbene: tristo sogno è il loro.
Ma no: vegliano, e sembrano, all’aspetto,
in doglia grande od a crudel lavoro.
 
 
Non vedi come il torvo capo eretto
per tutto un giorno dondolano stanchi?
Póntano i pie’ di dietro, alzano il petto,
 
 
e di sé stessi escono puri e bianchi.
 
VIII
 
Ora in tre stuoie li porrai, né ora
più dalle rame sgrapperai le fronde.
Porgi la rama florida, che odora.
 
 
Non le hai deposte ancora, eccole monde.
Ma tu gli alunni muterai dal primo
letto, più volte, o almeno all’ultimo, onde
 
 
l’ultimo sonno non s’invii sul fimo.
 
IX
 
Dormono… O Rosa, siediti; ché giova.
Dormono alfin la grossa i filugelli
che tu tenesti, nel tuo seno, in cova.
 
 
Ma tu mondi olivagnoli, e fastelli
scuoti, di cesti; vieni e vai; ti spicci,
ti studi, entri, esci, apri, alzi, e sui castelli
 
 
tacita e grave stendi altri cannicci…
 
Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
Hacim:
80 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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