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Nella varietà pre-basica si ha un tentativo dei parlanti di imitare l’input della lingua modello con notevole dispersione dei risultati; nella varietà basica invece i parlanti tendono a imitare la “norma”, dell’insegnante, cioè come mera ripetizione degli stimoli ascoltati, secondo quella caratterizzazione fatta da Coseriu della “norma” come “ripetizione dei modelli anteriori”, astraendo dalle particolarità delle singole realizzazioni. A un simile livello strutturale esistono fortissime semplificazioni della struttura fonologica della L2, fenomeni di interferenza classici, descritti dalla linguistica del contatto, con la L1, e fenomeni di strutturazione autonoma della varietà di apprendimento. Nelle varietà post-basiche invece si ha una strutturazione delle forme fonologiche mediante una serie di ipotesi proiettate dall’apprendente sulla base degli input ricevuti. Qui le singole forme si stabilizzano e viene superata la dispersione. Ancora una volta, dunque, l’obiettivo è quello di cogliere in vitro lo stato nascente di quelle forme linguistiche che caratterizzano il livello strutturale della lingua, le forme, cioè, che interessano la considerazione tipologica.
Il contatto con la sede di Pavia e con la scuola di Anna e Paolo Ramat, che con grande generosità inserirono immediatamente Giuliano nella loro fitta rete di contatti scientifici sul piano internazionale (Giuliano compare presto come co-editor di alcuni volumi pubblicati da de Gruyter dedicati a questioni tipologiche, cfr. Bechert/Bernini/Buridant 1990, Bernini/Schwartz 2006), significò un deciso ampliamento dei suoi interessi scientifici in senso tipologico. In quell’epoca (siamo nella seconda metà degli anni Ottanta) Paolo Ramat stava lavorando sulla interrelazione tra diffusione areale e tratti tipologici dei sistemi linguistici, un filone di ricerca che confluì agli inizî degli anni Novanta del secolo scorso nel grande progetto quinquennale “EUROTYP – Typology of Languages in Europe” (1990-1994) finanziato dalla European Science Foundation (ESF) e diretto da Ekkehard König, che vide proprio in Ramat (assieme a Bechert, Buridant e Harris) uno dei principali promotori verso la fine del 1989 (Pottier 1990) e che diede luogo a una serie di nove volumi di ricerche linguistiche orientate essenzialmente verso la tipologia morfo-sintattica (inclusi gli aspetti prosodici). L’ipotesi di fondo, comprovata da una notevole serie di riscontri fattuali e fondata sull’intuizione dell’esistenza di uno Standard Average European, SAE (cfr. Whorf 1970:103), uno Sprachbund all’interno di quella che verrà poi chiamata “area linguistica di Carlo Magno”, è che si siano prodotti nel corso del tempo fenomeni di convergenza areale tra lingue non strettamente imparentate e che questi fenomeni siano evidenti sul piano delle caratteristiche tipologiche.
Entro una simile cornice teorica (che si basa su una prospettiva eminentemente funzionalista della tipologia che considera “la langue comme ‘problem solving system’”, Ramat 1985:21) s’inseriscono le ricerche di Bernini sulla tipologia della negazione, ricerche nelle quali non manca mai un’attenzione peculiare agli aspetti semantico-pragmatici, una sorta di sphragís tipica di Giuliano. Così, ad esempio, si dimostra la solidarietà areale esistente fra lingue con morfemi negativizzanti post-verbali che discendono da antichi sintagmi discontinui (Bernini 1990a), si delinea lo sviluppo dei differenti quantificatori autonomi e la codificazione semantica dei quantificatori intrinsecamente negativi (Bernini 1991), si descrive il micro-sistema degli strumenti della negazione in italiano (Bernini 1992b), si ipotizza la possibile origine da contatto col portoghese dell’uso della negazione finale di frase in afrikaans (Bernini 1994a). Queste e molte altre linee di ricerca si trovano sintetizzate nel volume pubblicato assieme a Paolo Ramat uscito prima in italiano (Bernini 1992a) e poi in una versione ampliata in inglese (Bernini 1996b; vedi anche Bernini 1994c, Bernini 1998a e Bernini 2011).
Successivamente a questo milestone nella sua produzione scientifica Giuliano Bernini si è interessato più in generale di descrizioni tipologiche sia delle forme di negazione proibitiva e di proposizione (Bernini 1998b), sia delle forme di codificazione della topicalizzazione nelle lingue d’Europa (nell’importante lavoro di Bernini 2006a) e della lessicalizzazione delle relazioni spaziali legate alla disponibilità di determinate classi di parole, non senza – ancora una volta – un’attenta considerazione dell’incidenza di fattori pragmatici (Bernini 2010b). Scopo dichiarato quello di rintracciare possibili fenomeni universali da ascrivere al dominio sintattico e pragmatico delle lingue.
Nella complessa e articolata produzione scientifica di Giuliano Bernini il lavoro del 2016 sull’eredità saussuriana e sui moderni approcci funzionalisti costituisce, a mio giudizio, un’eccellente visione di sintesi delle convinzioni teoriche dello studioso nei confronti delle tante tematiche di ricerca che ha affrontato e che abbiamo provato a riassumere in grandissime linee. Il paradigma saussuriano declinato nelle celebri antinomie del Cours è discusso alla luce di quello che è il precipuo interesse scientifico di Bernini: l’esame concreto del funzionamento delle categorie grammaticali, definite in sede di comparazione tipologica, in due differenti test cruciali, i processi acquisizionali forieri del contatto linguistico e gli scenarî diacronici. Superata la nozione di arbitrarietà e riguadagnata quella di “motivazione relativa” (inclusi l’iconismo e la marcatezza) ma rivista alla luce della “posizione funzionalista [che] individua invece la motivazione nel rapporto tra piano del contenuto e piano dell’espressione”, Bernini nota con convinzione come uno dei fattori più rilevanti dell’allontanamento da Saussure consista nella “motivazione dei segni [che] è verificata e valutata ricorrendo a fattori esterni alla lingua, appiattendo così sullo stesso sfondo le differenze riscontrate all’interno della stessa lingua e oscurandone le eventuali connessioni di sistema” (Bernini 2016a: 13).
La tendenza omogenizzante del funzionalismo moderno che oscura le variazioni (incluso il secondo livello “normale” della tecnica linguistica evidenziato a suo tempo da Coseriu) è giustamente falsificata, secondo Bernini, non solo alla luce dei fattori pragmatici che agiscono nel circuito discorsivo, ma anche e soprattutto dallo studio delle modalità acquisizionali: “proprio l’osservazione di interazioni tra parlanti diverse varietà di apprendimento, native e non-native, illumina il problema metodologico che l’approccio funzionalista incontra ipotizzando comunità di parlanti omogenee. Infatti la presenza di elementi o costruzioni comuni nell’interazione di due parlanti può nascondere organizzazioni grammaticali anche molto diverse, che si possono individuare solo osservando più estesamente il comportamento linguistico dei parlanti coinvolti” (Bernini 2016a: 16).
In definitiva, anche nel caso della diacronia e delle strategie di grammaticalizzazione che interessano le differenti organizzazioni linguistiche delle mappe concettuali, emerge una posizione molto equilibrata di Bernini che fa tesoro sia dei tanti insegnamenti ricevuti nel corso della sua lunga e proficua carriera scientifica sia delle concrete esperienze di ricerca sul campo che hanno costellato la sua produzione. Da un lato una scelta di campo netta per il funzionalismo ancorato alla realtà dei contenuti comunicativi, dall’altro un’attenzione verso i contesti cruciali nei quali nascono e si consolidano le categorie – l’acquisizione spontanea e il contatto nonché i riflessi nella diacronia delle lingue. Con l’intento chiarissimo di poter attingere ai livelli sistemici e possibilmente universali delle lingue e del linguaggio, nella instancabile e rigorosa quête di ciò che Wilhelm von Humboldt in un passo celebre dell’Über die Verschiedenheit des menschlichen Sprachbaues und ihren Einfluss auf die geistige Entwickelung des Menschengeschlechts chiamò “die sich ewig wiederholende Arbeit des Geistes, den articulirten Laut zum Ausdruck des Gedanken fähig zu machen”, ossia “il lavoro eternamente reiterato dello spirito, volto a rendere il suono articolato capace di esprimere il pensiero” (Humboldt 1836:41, trad. it. Humboldt 1991:37).
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Marco Mancini
Sapienza – Università di Roma