Kitabı oku: «Il processo Bartelloni», sayfa 11
– Ma che cosa ha deciso la Rota?… Revisione del processo?… – chiese il magistrato.
– No! no! – rispose il birro. – Nello era stato condannato; ma soltanto per un voto… Ormai si sa… e non si sarebbe saputo senza gli ultimi fatti… che il Presidente e un altro auditore votarono contro la condanna… L’avvocato Arzellini e insieme con lui il Presidente si sono dati grandi cure… hanno parlato ad alti personaggi… La dichiarazione d’Isacco, l’esser io riuscito a provare – e il birro acquistava una vera maestà, proferendo tali parole – che costui era entrato nella stanza e vi aveva lasciato traccie del suo piede… mutarono subito il disfavore che Nello ebbe sempre dal pubblico sin da che fu arrestato… E insomma Sua Altezza… che a giorni parte per Napoli dove va a sposare la R. Principessa Maria Antonia delle Due Sicilie ha fatto la grazia!… L’ebreo era di certo nella stanza quando fu consumato il delitto… Bobi Carminati forse ci era anche lui. Ora cercheremo la donna!
XXII
Lucertolo però non aveva raccontato a che bel rischio egli fosse sfuggito.
Carlo Tittoli, accortosi che sua madre prima di morire era stata derubata, aveva fatto disegno di scuoprire il colpevole.
Andò a interrogare la Nencia.
Le parlò del baule trovato tutto sossopra, del mazzetto di fiori, della lettera, che il ladro, nella fretta, richiudendo il baule, forse sentendo avvicinarsi qualcuno, aveva lasciato cadere.
Ma la Nencia, divenuta bianca nel volto, si gettò in ginocchioni, gridò, spergiurò che non solo essa non era stata, ma neppure poteva immaginare chi avesse osato tanto.
– Io uscii – ella diceva – poco prima che la povera Berta morisse… Nella camera rimase Lucertolo, perchè la Berta faceva cenno di volergli parlare…
Il Tittoli subito mostrò di non volersene più occupare, e avvertì la donna di tacere.
Già l’animo di quell’infelice era combattuto da tante afflizioni che egli non si sentiva la forza di avventurarsi in uno scandalo.
Però gli entrò in cuore che Lucertolo potesse esser l’autore del furto.
Ma come accusare un agente della polizia? e con quali prove? E avesse pure avuto le prove, egli non era propenso a procacciarsi nuove lotte, crearsi nuovi imbarazzi.
Carlo Tittoli tenne in sè il vago sospetto, e si chiuse di nuovo nelle sue tristezze.
Meditava di togliersi la vita, di rompere tutti i legami che l’avvincevano a un mondo di dolori e di pene, e nel maggio del 1833 si recava a Venezia, ove compieva risoluto il suo ben maturato disegno.
Egli solo era stato sino allora a parte del segreto di Antonietta; egli solo sapeva che il celebre nome di Amieri era portato dalla umile ragazza, che egli aveva veduto in anni non lontani girare per le vie del Mercato, accompagnandosi spesso con lei.
Allora nè l’uno nè l’altra prevedevano quanto avrebbero amato, sofferto, fra quali catastrofi sarebbero trascorse le loro esistenze.
La Nencia non si era mai scordata delle parole dettele dal Tittoli. Anch’essa aveva gettato i suoi sospetti addosso a Lucertolo, e si era posta in animo di strappargli la confessione della verità.
Dette opera a varii espedienti, che non le riuscirono a bene. Finalmente venne in pensiero di manifestare tutto ad un birro, suo fratellastro, il birro Vendifumo, che già il lettore conosce, e che era rivale, nemico accanito di Lucertolo.
Cadde d’accordo con lui di ridur Lucertolo a tal partito che egli non potesse più infingersi.
Lucertolo era forte, aitante della persona, coraggioso, ma pieno di superstizioni. Credeva ai sogni, agli spiriti, alle apparizioni, ai morti resuscitati e a tutta la lugubre suppellettile, che anche oggi riempie le facili, estrose fantasie del popolo.
Si avvisarono di coglierlo da questo suo lato debole.
Egli abitava in una casipola nel vicolo degli Anselmi, una di quelle casipole, sol da pochi anni distrutte, ed allora messe in comunicazione una con l’altra da corti, da anditi, da tetti, su’ quali era agevole lo scendere dalle finestre; casipole, per le quali un uomo preso da talento di andare randagio poteva passeggiare liberamente, andando dall’una all’altra, senza bisogno di entrarvi per gli usci.
La Nencia e Vendifumo abitavano pure in quei caseggiati.
Una notte, mentre Lucertolo, libero dal servizio, dormiva la grossa, contento della scoperta che aveva coronato i suoi sforzi e alla vigilia di partire alla volta di Pisa ad ottenere la liberazione di Nello, la Nencia e il suo compare, che covavano da lungo tempo il loro disegno, decisero di mandarlo ad effetto.
La notte era propizia: una brutta notte di maggio, col vento che muggiva, una pioggia che cadeva a rovesci, con una bufera che imperversava all’impazzata.
Ad un tratto Lucertolo è svegliato da un gran rumore.
La finestra si spalanca: entra nella camera il vento soffiando, e portandogli fino sul letto gli spruzzi della pioggia.
Sente pure uno strepito di passi sul pavimento.
Si alza a sedere sul materasso, vede verso la finestra un lumicino, poi come un fantasma, che il riflesso del lume faceva apparire tutto giallastro, avvolto in un lenzuolo.
Tutte le idee di streghe, di versiere, di spiriti, di apparizioni tornano alla mente turbata del birro.
Stende le braccia verso il fantasma, vuol urlare…
Il fantasma alza il lumicino!
Santo nome della Madonna!… Era proprio dessa, era la vecchia Tittoli, uscita dalla fossa, che veniva ad atterrirlo, a spaventarlo.
Che cosa voleva da lui?
Dalla finestra aperta il fresco penetrava nella stanza.
Il birro sentiva agghiacciarsi il sudore sulle carni.
Non poteva urlare, aveva la gola inaridita.
Si turò gli occhi coi pugni chiusi.
Poi protese il volto come per meglio udir quello che diceva il fantasma, se parlasse.
Udì uno scarpiccìo sul tetto sottostante alla finestra, uno strepito di tegoli smossi, come se una legione di spiriti irrequieti si avanzasse dietro al fantasma.
Non osava più guardare.
Abbassò i pugni.
E vide che la vecchia Tittoli camminava per la stanza.
Lucertolo si buttò giù, coprendosi il capo con le lenzuola.
Il fatto non è straordinario.
Molti uomini, e specialmente del popolo, comechè robustissimi, impavidi, tali che non darebbero un passo indietro dinanzi al maggior pericolo, rischiosi, temerarii, sono in preda alle più singolari paure, derivanti da superstizioni.
Metteteli contro altri uomini e si getteranno volentieri nelle mischie più furibonde; dite loro di salire una certa scala, di traversare certe stanze al buio, di passare di notte da un certo tratto di campagna, e rifiuteranno.
La paura del soprannaturale ha scosso sempre l’uomo; l’uomo, il cui animo è così pieno di misteriose, ineffabili singolarità; l’uomo, che anche ne’ periodi ne’ quali si dà per più incredulo, è tutto affaticato ad architettare e sognare prodigi!
Lucertolo sentì pigiare il letto.
Era la mano del fantasma, posata vicino a lui.
Non osava muoversi. La coscienza in quel momento gli rimordeva del furto commesso, e anche tenendosi così acquattato sotto le lenzuola gli pareva di scorgere la vecchia moribonda nel momento in cui, erano quasi due anni, gli accennava, dove aveva riposto il denaro, che egli doveva consegnare al figliuolo.
Poi udì smuovere e aprire i pochi mobili che erano nella camera; uno sbattere di cassetti.
Quindi di nuovo tutto tornò in silenzio, se non che l’orecchio del birro era percosso dal fiotto del vento, della pioggia, che batteva sui tetti e che arrivava fino a lui per la finestra sempre spalancata.
Cacciò il capo fuori delle lenzuola.
E questa volta dette un grido.
La stanza era rimasta all’oscuro, ma il fantasma non se n’era andato: Lucertolo lo sentiva, o gli pareva di sentire che si muovesse sempre.
Un lampo guizzò, rischiarando all’improvviso la cameruccia.
Al lampo succedette subito il rombo, il boato di un tuono, che si andò allontanando con immenso fragore.
Nel bagliore del lampo Lucertolo aveva scorto il fantasma, e accanto ad esso, ritto, stecchito, volgendo il dorso verso il letto un altro fantasma più nero, di più alta statura, più spaventoso.
La sera, prima di coricarsi. Lucertolo era andato dal vinaio Barba, in Via degli Speziali, e aveva tracannato diversi quartucci.
Il vino non gli era mai tornato ostico: lo stomaco del celebre birro era citato nelle botteghe de’ vinai come un esempio di vasta capacità.
– Beve come Lucertolo! – era un elogio, equivalente, fra i più intrepidi cioncatori, all’elogio che allora si poteva fare di un autore, dicendo: – scrive come un Accademico della Crusca!
I fumi del vino, l’essere stato svegliato così di colpo, il fresco che veniva dalla finestra, la subita apparizione, le naturali paure avevano messo Lucertolo in uno stato di grandissima agitazione, di sensibilità acutissima.
I capelli gli si rizzarono sulla testa alla vista dei due fantasmi, apparsigli nel rutilante balenìo del lampo.
Essi si accostavano a lui, li sentiva, li sentiva avvicinarsi, gli sembrò aver udito mormorare una parola.
La parola fu ripetuta due volte, quasi al suo orecchio.
– Ladro!
– Ladro!
– Rendi i denari al mio figliuolo!
E Lucertolo balzò dal letto inorridito, poichè si avvisò di aver riconosciuto la voce della vecchia Tittoli.
– Misericordia!… misericordia!… – egli gridò tutto spaventato, e decise rivelare la sua colpa, chiederne perdono, sopraffatto dal suo superstizioso sgomento.
Però, allungando un braccio, egli aveva urtato in un corpo solido, come nel braccio di un altro uomo.
Cercò di nuovo, così al tasto, non trovò più nulla, il corpo da lui urtato si era mosso.
Allora lo prese un forte sospetto.
Il fresco pungente lo aveva richiamato in sè.
Si mise a camminar furibondo per la camera a braccia aperte, gettando in terra una sedia, urtando in un tavolino.
Incontanente fu colpito da un rumore, che gli parve quello di un ombrello che si aprisse, della pioggia che vi battesse, da un nuovo rumore di passi sul tetto.
Dio del cielo! I fantasmi erano spariti. Dunque erano veri e proprii fantasmi! Accese il lume: vide la finestra spalancata; pel tetto non si scorgeva più alcuno, non si sentiva più altro strepito; nella camera nessuna traccia.
Era stata di certo un’apparizione!
XXIII
Ma se l’aveva scampata bella Lucertolo, molto si rallegrava e si compiaceva d’essere scampato da un brutto frangente l’altro birro Vendifumo. Se Lucertolo fosse riuscito a mettergli le granfie addosso, se lo avesse scoperto, egli sapeva che non l’avrebbe passata liscia!
La forza di Lucertolo era proverbiale, e il birro picchiava di rado, e soltanto se molto aizzato e provocato, ma dove picchiava lasciava il segno.
Ora Vendifumo ragionava, e ragionava diritto, che se Lucertolo lo avesse arrivato, sarebbe stato uomo da lasciargli per un pezzo il ricordo del suo strattagemma.
Del resto, la Nencia e Vendifumo furono di lì a non molto delusi nelle loro ricerche.
Poco dopo che fu giunta a Firenze la notizia del suicidio del Tittoli, la polizia facendo l’accesso nella abitazione dell’estinto, trovò in un ripostiglio un involto di monete d’argento, e una medaglia con ornati in filigrana, e altri oggetti appartenuti alla madre di lui.
Si capì che era quella l’eredità che egli aveva avuto dalla vecchia, e che aveva serbato intatta.
Chi l’aveva rimessa in quel luogo?
Lucertolo, che facilmente era potuto entrare nella soffitta, che il Tittoli aveva voluto abitar sempre, dopo la morte di sua madre.
Lucertolo, sbigottito dalla apparizione, e che non voleva più rivedere gli spettri, i fantasmi; che non voleva più che venissero a turbargli i sonni.
Aveva ritenuto soltanto una moneta, e l’aveva ritenuta per superstizione, e andò subito a giuocarla al lotto, giuocando i numeri, che corrispondevano a quello che egli era certo di aver veduto.
Giuocò la moneta di dieci paoli su due biglietti. Lucertolo aveva studiato le cabale, si stillava di continuo il cervello sul Casamia, sul Rutilio, sul Cornelio Agrippa, opere immortali per coloro che giuocano al lotto.
Giuocò su un biglietto il 47, morto resuscitato; – il 90, la paura che aveva avuto; – il 13, la morte; – il 52, la madre del Tittoli; – il 26 le monete.
Nell’altro biglietto giuocò i numeri dell’anno, che correva, 1833, così divisi: 18 – 33 – il mese, che era il maggio, cioè il 5: – il giorno, cioè il 20: l’ora della apparizione, poco dopo la mezzanotte, cioè il 12.
E poichè in quel periodo tutto doveva andare di bene in meglio a Lucertolo, il giorno dopo quello in cui era giunto a Pisa, e aveva avuto il colloquio col magistrato e col direttore del Bagno, passeggiando per la città vide i numeri dell’estrazione.
I primi erano il 47, il 90, il 31.()
Lucertolo aveva vinto un terno sul primo biglietto!
XXIV
Una mattina del giugno 1833, poche settimane dopo i fatti avvenuti a Venezia in casa della principessa Calliraky, il maestro Antonio Brinda, alzatosi da circa un quarto d’ora, se ne stava nel suo salotto, che rispondeva in una delle vie più frequentate di Firenze, sorbendo la cioccolata. Il maestro era seduto ad un piccolo tavolino in faccia al ritratto di Giovacchino Rossini.
In quello stesso salotto, tre anni innanzi, si erano incontrati per la prima volta Roberto e Antonietta.
Il Brinda era lì, con la sua veste da camera, con la sua papalina a rabeschi dorati, tra il tavolino e il cembalo, sorridente a qualche suo pensiero; bel vecchio, tale e quale lo ha conosciuto il lettore al principio di questo racconto.
Sul tavolino, accanto alla tazza della cioccolata, che il Brinda sorbiva di tanto in tanto, era il giornaletto veneziano nel quale l’abate Pildani rendeva conto della esecuzione dell’Anna Bolena e criticava con garbo le volatine, i fiori, di cui abusava la giovane artista Amieri.
L’Anna Bolena, che era stata cantata a Firenze dalla Ungher, in quei giorni era interpretata al Teatro Alfieri dalla signora Brighenti e da altri bravi artisti, che l’impresario Giuseppe Feroci aveva condotto nella capitale dopo aver fatto con essi la stagione di primavera al Teatro Petrarca di Arezzo.
L’Anna Bolena porgeva dunque di nuovo alimento alle conversazioni, alle elucubrazioni dei buongustai fiorentini.
L’ultimo colpo, che Antonietta aveva ricevuto a Venezia, era stato tremendo. Tornata, o piuttosto trasportata al palazzetto, in cui dimorava, le si mise addosso la febbre e per varii giorni non uscì dalla camera. Appena ristabilita, volle subito partire.
Composero con Roberto che egli sarebbe partito cinque o sei giorni dopo per non destare sospetti.
Anche Lina era impaziente di giungere a Firenze per darsi attorno a provar l’innocenza di Nello.
Nessuno di loro sapeva della dichiarazione d’Isacco, nè che Nello era stato messo in libertà, per grazia del Sovrano, che un ricco signore, mosso a pietà, lo aveva raccolto nella sua casa ove era impiegato ne’ servizi meno faticosi, e trattato con tutti i riguardi, che doveva ispirare in anime ben nate la sua grande, immeritata sventura.
Al vecchio Brinda era spesso capitato sott’occhio da circa due anni il nome della Amieri, e in quel momento appunto, dopo aver letto le critiche dell’abate Pildani, rifletteva tra sè:
– Tutte così queste ragazze… queste nuove celebrità… vogliono strafare… non vogliono cantare la musica come è scritta… chi sa dove arriveremo fra poco… bisognerà che noi maestri andiamo a scuola dai cantanti…
E tornava a sorbire la cioccolata, che le malinconiche riflessioni non gli facevano parer meno buona.
Fu suonato il campanello; poi la vecchia governante, ex-musicista, ex-comprimaria, che sapeva a mente tutta la Serva Padrona del Pergolese, entrò nel salotto, senza bussare alla porta, e annunziò al maestro che due donne domandavano di parlargli.
– A quest’ora? – disse il Brinda, spingendosi verso la nuca la papalina con la mano sinistra. – Chi sono?
– Una di esse soltanto mi ha detto il nome… si chiama Amieri…
– Amieri?… Amieri?… E che cosa vuole da me questa celebrità? – borbottava il vecchio assai burbero. – Basta! fa’ passare.
Entrarono due donne tutte vestite di nero.
Una di esse restò vicino alla porta, che aveva serrato dopo di sè, l’altra, slanciandosi verso il maestro, che si era alzato, gli si avviticchiò al collo con uno slancio di affetto filiale.
– Animo!… Che c’è, ragazza? Che hai? – disse il buon vecchio, meravigliato, e cercando liberarsi da quelle due braccia rotonde, ben tornite, che lo stringevano e quasi lo soffocavano.
Ma Antonietta si era già scostata di un passo e aveva alzato il velo.
– Tu… tu… sei tu… la Amieri! – borbottò il buon vecchio – vieni qua! – e piangendo le tese le braccia.
La ragazza vi si gettò con effusione. Allora si misero a parlare, muovendosi continue domande.
Antonietta le raccontò tutta la sua storia, che il Brinda, seduto fra lei e Lina, ascoltò con profondo raccoglimento e con la più viva commozione.
– E il babbo… e la mamma? – disse a un tratto Antonietta, prorompendo in singhiozzi.
– Stanno meglio, – rispose il Brinda – e credo che tu li potrai salvare!
La ragazza dette un grido di gioia.
– Ci vorrà molta prudenza; anche un’allegrezza inaspettata potrebbe uccidere que’ due poveri vecchi, che hanno tanto sofferto per te… Ma saranno ricompensati – aggiunse, vedendo che Antonietta tremava.
– Voglio andar subito… subito a vederli! – interruppe la ragazza.
– Questo no! – riprese il Brinda con uno di quei gesti di autorità, di quegli atti di collera, che usava un tempo con la scolara e de’ quali gli pareva aver sempre il diritto.
Convennero sul modo di propalare il ritorno di lei.
Bisognava far credere che fosse stata rapita da persone, che si erano proposte di speculare sulla sua voce, che l’avevano tenuta come prigioniera per molto tempo, e più tardi le avevano fatto pervenire notizia della morte de’ suoi genitori in maniera che essa non potesse dubitarne. Una così pietosa menzogna era necessaria, diceva il Brinda, a scusare la fuga, la lunga assenza, l’essersi tanto celata, precauzioni che egli ben capiva ormai essere state richieste da durissima necessità.
– Del resto arrivate in buon punto – concluse il Brinda. – Nello, quel Nello, è stato liberato dalla galera… ha avuto la grazia!…
– La grazia? la grazia? – interrogò Lina, conturbata e palpitante. E il maestro dovette raccontar tutto, punto per punto, alle donne.
– Signorina, Dio ci perdona! – mormorò Lina, accostandosi alle labbra la mano di Antonietta e baciandola.
– Oggi tu passi la giornata… tutta la giornata con me – soggiunse il Brinda rivolto ad Antonietta. – Avremo tante cose da dirci – e la teneva per le mani e gliele stringeva, trepidante. – Ghita!…
La ex-comprimaria ricomparve maestosa, piegandosi ad un mezzo inchino, come quelli che faceva al pubblico trent’anni prima quando usciva di scena a capo delle comparse.
– Ghita… oggi a pranzo, invece di due, saremo quattro… C’è anche questa tua antica amica… Oh, non la riconosci?
La Ghita, prima che il maestro avesse finito di parlare, abbracciava la cantante, e asciugandosi gli occhi con una cocca del grembiale, ripeteva:
– O Antoniettina!… Antoniettina!… è lei! Com’è bella… Se la tua mamma… la povera Agatina fosse qui…
Antonietta dette di nuovo in uno scoppio di pianto e tra le lacrime ripeteva, come nei giorni del delirio, quando era stata chiusa nel Ghetto, e vegliata da Isacco, dal Tittoli e da Lina: – mamma!… o mamma mia!
Quando si fu un po’ calmata, e partita la Ghita, il Brinda riprese:
– Non devi lasciarti vincere dal dolore.... Agatina e Enrico sono stati sempre due coppe d’oro, due buoni cristiani; hanno patito, come hai patito tanto anche tu, figliuola, in questo tempo; hanno espiato e ti hanno fatto espiare il troppo bene che ti volevano… Sarebbe un grande esempio pei genitori che non sanno temperare la loro affezione verso i figliuoli, che li amano troppo ciecamente… Sarà un grande esempio per te, se un giorno diverrai madre… Ma l’ora della espiazione è finita… e vedrai che tutti saremo felici!
– Come?
– Lascia fare al tuo vecchio Brinda… Noi vecchi leggiamo nell’avvenire meglio di voi altri giovani, troppo inconsiderati… Raccomando la prudenza a te, a Lina, a Roberto quando verrà… Prudenza!… prudenza!… e saremo salvi… Quanto al delitto, ora nessuno ci pensa. La liberazione di Nello ha fatto un po’ di rumore, lì per lì, adesso nessuno se ne dà più per inteso… Non avete saputo la notizia, di cui si occupano tutti? Il Granduca si ammoglia con la principessa delle Due Sicilie!… Qui avremo feste, spettacoli: migliaia di persone accorreranno dai paesi vicini. Chi vuoi che pensi più ora al delitto del Vicolo della Luna?… Devi restar tranquilla, farti vedere poco per ora, e pensare a’ tuoi genitori… Prima di tutto bisogna guarirli!… Probabilmente il Granduca deve sbarcare domani o domani l’altro a Livorno con la sposa e col seguito. Ho qui la Gazzetta delle Due Sicilie del 25 maggio che mi manda un amico… Ci deve essere qualche cosa sul matrimonio…
«La mattina del 23 maggio – lesse il Brinda in fretta, mentre le due donne l’ascoltavano disattente, distratte in ben altri e dolorosi pensieri – S. E. il principe Tommaso Corsini ebbe l’onore di presentare in particolare udienza a S. M. il Re le lettere che lo accreditano in qualità d’inviato straordinario di S. A. I. e R. il Granduca di Toscana… Il dì 25 il Principe fece in pubblica udienza la solenne richiesta della mano di S. A. R. la Principessa D. M. Antonia per S. A. I. e R. il Granduca di Toscana…» – senti questa descrizione:
– «Si recò a tal uopo S. E. il principe Corsini alle 11 a. m., col Segretario e i Gentiluomini della Legazione, al R. Palazzo, ove trovò a piè delle scale un usciere di camera, che lo precedè nel salire, egualmente che tutta la sua Corte: alla porta dell’appartamento di S. M. il Re trovò poi l’usciere maggiore il quale lo condusse nella prima anticamera. Ivi andolle incontro il Cerimoniere di Corte commendator Pignatelli, ecc., ecc..
«L’illustre inviato straordinario entrò nella Camera d’udienza introdottovi dal Cerimoniere di Corte; e lasciando sotto la porta il Segretario ed i Gentiluomini della Legazione, si avanzò prima tra il Gentiluomo di camera e il lodato Cerimoniere facendo i convenevoli inchini; poscia inoltratosi solo fino allo strato, diresse a S. M. il seguente discorso:
«Maestà,
«Il Granduca di Toscana, Principe Reale di Ungheria e di Boemia, Arciduca d’Austria, mio Signore, m’invia presso la Maestà Vostra per chiederle la mano della Principessa Reale D. Maria Antonia, sua diletta sorella, ed è sommo l’onore che ho, ed il gradimento che provo nell’eseguire questo sovrano comando…»
– Non ho più fiato per legger tutto questo discorso()! – concluse il Brinda, rimettendo il giornaletto napoletano sul tavolino.
Il matrimonio del Granduca fu celebrato il 7 giugno.
Il 2 giugno il principe Corsini dava in Napoli un pranzo sontuoso al quale intervenivano i Ministri, Consiglieri e Segretarii di Stato, il Corpo diplomatico, i capi della Real Corte e altri personaggi.
Due grandi e magnifiche feste furono pure date la sera del 9 corrente, per le stesse faustissime circostanze, come dicevano i nobili anfitrioni, da S. E. il conte di Lebtzeltrn, inviato straordinario e ministro plenipotenziario a Napoli di S. M. l’Imperatore d’Austria; l’altra da S. E. il Principe Corsini. E fra gli stranieri più ragguardevoli che convennero a quelle feste, si notavano S. A. R. la Granduchessa di Baden e S. A. il Principe di Oldenburgo.
Raccogliamo queste notizie, che leggeva il maestro Brinda, perchè indarno i lettori le cercherebbero oggi così minute nei libri di storie.