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Kitabı oku: «Il processo Bartelloni», sayfa 12

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XXV

Circa sei giorni dopo, nel salotto del Brinda, all’ora stessa in cui egli aveva ricevuto la prima visita della Amieri, tornata allora da Venezia, si trovavano il maestro, Antonietta, Roberto. Tutti e tre sedevano al solito tavolino, di faccia al ritratto del Rossini; bevevan la cioccolata, offerta dal Brinda, preparata da Ghita, e c’inzuppavano i gustosi biscottini, che manipolavano per il maestro le oblate di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi, nella cui chiesa egli aveva suonato l’organo per tanti anni.

– Ti ricordi – diceva Antonietta a Roberto – della prima volta che ci siamo incontrati qui?

– Bricconi! bricconi! – ripeteva il vecchio musicista, scrollando la testa. – Ed io che mi sgolavo a darvi lezioni di estetica… Altro che estetica!… Ora mi sono persuaso finalmente che l’estetica è buona a qualche cosa… a dar modo a due ragazzacci, che si vogliono bene, d’intendersi, mentre il maestro predica… E d’altronde anch’io ho fatto così… proprio come voialtri, quando ero giovane; così facevano mio padre e mio nonno, e il nonno del mio bisnonno, e la nonna della mia bisnonna… Beata gioventù! Beata gioventù! Ve lo canta anche il divino Mozart:

Giovinetti, che fate all’amore

Non lasciate che passi l’età.

Ma l’arzillo e amabile vecchietto fu interrotto mentre canticchiava dal fragore di una salva di cannoni, dallo scatenìo di tutte le campane di Firenze, che suonavano a distesa.

– Che cos’è? che cos’è? – domandarono Roberto e Antonietta.

– Caspita! – rispose il vecchio, balzando in piedi. – È il Granduca che arriva con la sua sposa… Evviva il Sovrano! – disse, scuoprendosi il capo. – Dobbiamo andare a vedere?

I due giovani non si sentivano d’umore d’avventurarsi tra la folla.

I colpi di cannone si seguivano dal forte di San Giovanni e rimbombavano per tutta la città.

Era il 20 giugno 1833, e scoccavano le dieci antimeridiane.

Il Granduca faceva il suo ingresso nella Capitale dalla Porta San Frediano in mezzo agli applausi più vivi e prolungati. Accanto al Principe sedeva nella carrozza la giovane sposa, allora sfavillante di bellezza, magnifica, e più che seducente nel rigoglio delle sue forme, la carnagione bianca come latte sul quale si fosse sfogliata una rosa, giovane e splendente Maestà, che un popolo di artisti salutava con grida di giubilo e di ammirazione, inebriato, affascinato dalla grazia, dalla gentile e forte appariscenza di lei, piuttosto che spinto da un impulso di eccessiva devozione verso la nuova Sovrana.

«L’entusiasmo della gioia – scrive un testimone oculare – e della devozione spinse a tentare di staccare i cavalli della carrozza, ove trovavasi la R. Coppia, onde trarla a braccia; e sol si ristette al cenno di desistere.»

Il corteggio si componeva, oltre la carrozza dei sovrani, di altre quattro carrozze occupate da Ciambellani, Cariche e Dame di Corte. E fra questi, il maggiordomo Ferdinando duca Strozzi, la maggiordoma maggiore marchesa Ginori ne’ Riccardi, il ciambellano marchese Incontri, la dama di Corte marchesa Corsi, che avevano seguito a Napoli il Granduca.

Precedevano i reali Cacciatori a cavallo.

Poi venivano le carrozze delle LL. AA. la Granduchessa, vedova di Ferdinando III, la arciduchessa Maria Luisa, che il popolo conosceva più familiarmente col nome di Gobbina, e della quale i poveri celebravano la pietà.

Chiudeva il corteggio un drappello di Guardie del Corpo.

Dalla Porta San Frediano fino al palazzo Pitti le finestre, i balconi delle case erano adorni di arazzi, di tappeti; le vie erano calcate di folla, «Procedeva lentamente – scrive il cronista di un giornale – per appagare le rispettose brame della concorsa moltitudine il Reale Corteggio. Di mano in mano che passava il Granduca con la novella Sovrana, applausi ad applausi, dimostrazioni a dimostrazioni di gioia succedevano.»

I Sovrani giunsero al Palazzo Pitti.

«La vasta piazza – continua il giornalista nello schietto stile del suo tempo – avanti all’I. e R. Palazzo di Residenza, rigurgitante di popolo, all’arrivo dei RR. Sovrani, di voci di letizia risuonò. Ed allorchè dopo esser la R. Comitiva entrata nella Reggia, S. A. I. e R, il Granduca colla Granduchessa Sposa ebbe la degnazione di presentarsi sopra la ringhiera, la circostante moltitudine proruppe in nuove e sempre più vive acclamazioni, a cui gli Augusti Sovrani si compiacquero di rispondere con reiterati segni di soddisfazione e della lor gioia, da quella di sì leali sudditi rendute maggiore.»

Alle 6 pomeridiane il cannone tuonava di nuovo dal forte di San Giovanni, annunziando la partenza degli Augusti Sovrani dalla Reggia per la Metropolitana. Alla porta della Metropolitana la Real Coppia fu ricevuta dal Clero e dalla Nobiltà ivi raccolta.

L’Arcivescovo intuonava l’Inno Ambrosiano, cantato «in scelta musica» dai signori Professori della I. e R. Cappella di Corte.

Tra le armonie dei cantici, tra i profumi dell’incenso, alla molle, bionda luce, che cadeva dai ceri, e che mandavan le lampade, appariva come soffusa di nuova grazia, e di più soavi attrattive la florida bellezza della giovane Sovrana.

«Nella sera – scrive il citato cronista, nostro avolo – tutta la città, non meno che i sobborghi, s’illuminarono: varii palazzi, e le principali strade offrivano superbi colpi d’occhio. Ma quel che richiamò maggiormente l’attenzione, e che non si era mai fin qui veduto, fu l’illuminazione delle alture che circondano la nostra bella città. Appena imbrunì l’aria che tutti i punti elevati delle adiacenti campagne, i monti, i colli, le pendici, risplenderono, dove per fiamme sparse, dove, a seconda delle situazioni, per fuochi in ordine distribuiti, dove per serie di faci ricorrenti le linee architettoniche delle ville e dei più insigni edifizi.

«Una placida notte e senza luna favorì l’effetto dell’insolito spettacolo, che presentava la doppia illuminazione di Firenze, e del quasi anfiteatro delle sue famose circonvicine eminenze, combinata.

«Fuochi d’artifizio, inoltre, incendiati qua e là per le vicine campagne, indicavano sempre più l’esultanza degli abitanti di esse.»

In que’ giorni ordinava il Granduca che a carico del suo erario fossero distribuite cinquecentosessanta doti, di scudi venti ciascuna, a favore di povere fanciulle.

E ciò senza pregiudizio delle doti di Regia Data di cui si faceva collazione, secondo la formola adoperata, ogni anno nel mese di giugno, per San Giovanni.

Il Granduca ordinava pure che fosse fatta una gratuita distribuzione di pane in favore della classe indigente della città, a ragione di diciotto oncie per individuo.

Ordinava inoltre che si regalassero centocinquanta letti ad altrettante famiglie della classe indigente nella Capitale.

E la mattina del 10 giugno era stata affissa alle cantonate di Firenze la seguente Notificazione:

«Resta concesso un libero perdono a tutti i disertori delle truppe toscane di qualunque Corpo, purchè a tutto il mese di novembre prossimo si restituiscano volontariamente ai loro Corpi, siccome a tutti coloro che a tali diserzioni avessero prestato assistenza, aiuto e consiglio.

«È fatta grazia a tutti i sudditi, e domiciliati per cinque anni familiarmente nel Granducato, i quali si trovassero querelati, inquisiti, o condannati per danno dato, turbato possesso, insulti, ingiurie e risse; percosse e ferite date in atto di rissa, e senza uccisione, purchè tali percosse e ferite non sieno state commesse in occasione di far danno negli altrui beni; per delazione d’arme, sgrillettamento, o sparo di armi da fuoco senza offesa della persona, trasgressioni di lotti, di caccia e pesca, trasgressioni doganali, trasgressioni ai regolamenti, ed ordini sulla occupazione, ed ingombri di strade, suolo pubblico, fiumi, rii, fossi, argini, ripe, ed altri oggetti di pubblico diritto ed uso; ai regolamenti ed ordini del Collegio Medico, ai regolamenti ed ordini dell’Archivio Generale, escluse le falsità; rottura e fuga dalle Carceri, resistenza agli esecutori di Giustizia, esimizione di catturati; prima e semplice inosservanza di confine, o esilio, contrabbando di sale, trasgressioni alle leggi e consuetudini dello Stato sopra i giuochi, sopra le questue, sopra i funerali, sopra le osterie e bettole, e generalmente per tutte le altre trasgressioni ai regolamenti di semplice polizia…»

E qui venivano altri particolari.

XXVI

La mattina del 17 giugno gruppi di curiosi si fermavano a leggere la Notificazione dell’«illustrissimo signor Gonfaloniere di Firenze» che annunziava grandi e nuove feste per la ricorrenza del Santo Protettore.

Nella mattina della festività (24 giugno) il Magistrato civico, preceduto dal Gonfaloniere, si recava a fare la visita ed offerta al Battistero. Il Granduca, la Granduchessa regnante, la Granduchessa vedova, la Arciduchessa Maria Luisa si recavano in gran gala e con gran seguito alle ore 11 alla Metropolitana e assistevano alla messa solenne.

Al momento della elevazione rimbombarono salve di artiglieria dal forte di San Giovanni, e successivamente furono eseguiti sei spari di moschetteria dalla truppa dei granatieri e fucilieri in bella tenuta schierati sulla piazza del Duomo, unitamente alla cavalleria.

Nel pomeriggio vi fu la corsa dei «cavalli sciolti» alla quale i sovrani assistettero dalla così detta Terrazza del Prato.

La sera fu data una festa di ballo nello stabilimento Goldoni.

I Sovrani andavano al Teatro della Pergola, sfarzosamente illuminato. «L’entusiasmo – dice il mio più volte citato cronista – che aveva spinto il popolo ad applaudire i Sovrani, tutte le volte che in questi giorni si erano mostrati in pubblico, qui viemaggiormente eruppe in acclamazioni le più energiche e le più prolungate, cui le LL. AA. esternarono con reiterati segni il loro reale aggradimento.»

Si rappresentava alla Pergola Ivanhoe del Maestro Pacini e il ballo scritto espressamente in occasione del fausto imeneo, col titolo: – I Viaggiatori all’Isola d’Amore.

Poche settimane innanzi vi si era eseguito il Crociato in Egitto, del «celebre maestro sig. Barone Meyerbeer».

Sulla nobile scena del Teatro del Cocomero annunziavano esperimenti di lotte, di pugilato i primi Alcidi francesi Manches e Darras.

Nei salotti si declamavano le ottave scritte e pubblicate pel matrimonio reale dal poeta aretino Tommaso Sgricci.

In Pisa si univano i Pastori Arcadi della Colonia Alfea, che recitarono varie pregevoli poesie, sull’argomento: precedute da una prolusione del professore Giovanni Rosini.

Anche gl’Israeliti solennizzarono il felice ritorno e l’imeneo del Sovrano. Fu cantato un inno per rendimento di grazie in musica nella scuola italiana: le straducole del Ghetto, ove esistono le scuole ed altri stabilimenti degl’Israeliti, furono illuminate.

A Livorno i Sovrani, con la Granduchessa vedova, l’Arciduchessa Maria Luisa, accompagnati dalla Corte, preceduti dal governatore, erano intervenuti al tempio della nazione israelitica. Ivi furono invocate le celesti benedizioni con preci ed inni, che stampati nell’originale ebraico, con la versione italiana, furono presentati alle LL. AA., che vollero esaminare i cinque libri delle leggi mosaiche vergati sopra lunghe pergamene.

Una festa di ballo dava il Casino dei Nobili, una festa più grandiosa fu quella data la sera del 25 da S. E. il conte Luigi Grifeo de’ principi di Partanna, incaricato d’affari di S. M. Siciliana.

Il principe abitava in via San Sebastiano il palazzetto, oggi recinto da muri, quasi attiguo al già convento della Annunziata, e che allora aveva dinanzi a sè un largo prato.

E a dimostrare come i nostri vecchi si sapessero divertire anch’essi nelle feste sfarzose, che si protraggono sino alle prime ore del mattino, e, cominciate tra lo scintillar dei doppieri, finiscono ai raggi sfolgoranti del sole, riferiamo la genuina narrazione di una fra le più allegre e gentili invitate:()

«Eccitava fin dal primo ingresso, un moto di sorpresa e di piacere, la vista del prato in cui sorge il palazzo abitato dall’Ecc. Sua. Con sagace industria di gusto, esso era stato ridotto a vaghissimo giardino, sparso di graziose macchine d’architettura chinese riccamente illuminate, e fra cui s’inalzava un gran Trasparente dove era rappresentata co’ suoi simboli la Toscana, in atto d’offrire un sacrifizio di ringraziamento a Imeneo: felice allegoria della circostanza.

«Ma quel che veramente rapiva, erano le suppellettili, l’apparato, l’illuminazione dell’interno del palazzo. Per tutto si ammirava ricchezza, eleganza, novità. La stanza però all’entrar nella quale, specialmente, niuno della numerosa e scelta società poteva contenersi da giusti encomii, era la così detta stanza chinese, che pel brio, per la vaghezza e per l’armonia dei colori produceva un effetto magico.

«Le LL. AA. II. e RR., gli Augusti Sovrani, come pure la Granduchessa Vedova e l’Arciduchessa Maria Luisa che onorarono questa festa della loro presenza, si degnarono di manifestare all’egregio diplomatico la Loro Reale soddisfazione sì con lusinghiere espressioni come col trattenersi fino ad ora della notte avanzata, prendendo parte coll’usata loro affabilità alle danze.

«Straordinaria fu pure in questa festa la profusione dei rinfreschi, e la squisitezza del buffet. Destava particolarmente meraviglia la tavola del Tè pel ricco vasellame, ond’era munita e adorna.

«Si calcola che concorressero a questa festa più di 700 persone. La bella società non si sciolse fino alle ore 6 del mattino, quando sulla terrazza fu imbandito un lautissimo déjuné, a cui vennero invitate tutte le dame e i cavalieri ancora rimasti, e che di sì grandiosa festa fu il degno compimento.

La sera del 29 il teatro della Pergola si apriva a benefizio della Pia Casa di Lavoro con il gran ballo Anna Erizzo, composto e diretto dal signor Monticini: ballo nel quale – scrive un critico del tempo – «pel carattere come per la ricchezza, il vestiario rammentava (non è adulazione) l’Oriente.»

Alcune settimane innanzi era stata solennizzata nella Pia Casa di Lavoro la festa di San Ferdinando.

«Il concorso di ogni ceto di persone – scrive un cronista – ammesso a forma del costume nell’interno dello stabilimento fu in quest’anno maggiore del consueto e continuò fino all’ora permessa.

«Oltre alla pulitezza del locale e al buon’ordine che vi si ammira costantemente, meritarono osservazione le manifatture che si eseguiscono nel luogo e in special modo quella dei tappeti e dei berretti alla levantina.

«Ebbervi luogo le consuete sacre funzioni nella chiesa dove si distribuirono ai reclusi che ne erano meritevoli i soliti premi, ed alle fanciulle le dieci doti concesse annualmente dalla sovrana munificenza.»

Storia di cinquant’anni fa che, in certe cose, par storia di ieri!

XXVII

Siamo nello Spedale dei Pazzi, detto di Bonifazio.

– No, no! non si accosti!… Stia nascosta il più che può! – diceva il vecchio dottore ad Antonietta.

La ragazza aveva gli occhi gonfii di lacrime.

A qualche distanza da lei si tenevano Roberto, il Brinda, Lina.

Dallo spiraglio della porta socchiusa si vedeva in mezzo ad una stanza uno strano gruppo.

Ad un tavolino sedevano Enrico ed Agatina.

I due vecchi mangiavano, e di tanto in tanto il cieco tendeva una mano, cercava la mano scarna della sua vecchierella e la accarezzava.

– E non l’abbiamo trovata neppure iersera – mormorava il cieco – la nostra figliuola!… Il dottore ci ha assicurato che l’avremmo ritrovata presto!

– Sta’ sicuro che la ritroveremo, Enrico! – ripigliava Agatina. – Ho fatto un sogno stanotte… Mi è parso che avevo sentito laggiù… nella stanza dove c’è il cembalo… cantare una di quelle canzoni che tu stesso insegnavi ad Antonietta quando era bambina… mi suonava nell’orecchio proprio la sua voce… ho dato una spinta all’uscio… e… era lei… tutta vestita di bianco… Mi sono slanciata per abbracciarla, e gridarle: figliuola, figliuola!… ma allora mi sono svegliata.

– Sente! sente! – ripetè il dottore ad Antonietta.

La ragazza non poteva rattenersi: voleva entrar di forza nella stanza, saltare al collo de’ suoi vecchi; colmarli di baci, di carezze: inginocchiarsi dinanzi a loro.

Il Brinda e Roberto, a un cenno del dottore, avevano dovuto avvicinarsele e l’avevano presa ciascuno per una mano.

Nello stato di prostrazione in cui erano i vecchi una commozione troppo forte poteva ucciderli!

Finito che ebbero il loro pasto frugale, Agatina disse ad Enrico:

– Andiamo a cercarla, come tutte le sere! Si alzò, prese il braccio del cieco, e traversarono insieme una fila di stanze.

Agatina guardava dietro a ogni porta; il cieco, inquieto, frugava per tutto col bastone.

– Non c’è! non c’è! – ripetevano tutti e due, di tanto in tanto, desolati, soprassedendo alle loro ricerche.

Arrivarono alla stanza in cui era il cembalo.

Come sempre, il vecchio fece correr le dita per alcuni istanti sulla tastiera.

A’ suoni, che ne uscivano, i due vecchi provavano un fremito, ricordando sempre più la figliuola tanto amata.

L’offuscamento della loro ragione, senza violenza, senza grida incomposte, nato dal dolore, la stessa cupa, silenziosa tranquillità della loro disperazione straziavano il cuore.

Fu necessario strappare Antonietta a quello spettacolo.

– Stasera e domattina – soggiunse il dottore, quando la porta fu riserrata – io parlerò di nuovo coi vecchi, li preparerò all’incontro… e domani sera, all’ora fissata, tutti loro verranno qui, e tenteremo l’esperimento.

– Riuscirà? – domandò Antonietta, ansiosa.

– Dio solo può saperlo, figliuola! – interruppe il Brinda. – La ragione umana muove da Lui.

– Che sarà di me? – e la povera ragazza si gettò singhiozzante tra le braccia del maestro.

– Lei è abbattuta! – ripigliò il medico – e per domani sera avrà bisogno di molta forza, di molto coraggio… Non deve passare tutte queste ore a piangere, ad angosciarsi… Bisogna cercare – disse, rivolto al Brinda e a Roberto – di distrarla.

Dacchè era giunta a Firenze, Antonietta, che aveva preso dimora ad un piano della stessa casa in cui abitava il Brinda, non era mai uscita, se non per recarsi all’Ospedale a domandar nuove de’ suoi vecchi.

Un giorno aveva voluto rivedere la sua casupola in via degli Amieri, ma non le era bastato l’animo di rimanervi a lungo.

Il cuore le si schiantava alle memorie delle cure affettuose, che vi aveva ricevuto, dei giorni felici, che vi aveva trascorso, abbelliti dalla pietà, dall’amore immenso di un padre e di una madre, che Dio aveva messo ai lati della sua culla, come due veri angioli di bontà.

XXVIII

Firenze continuava ad esser tutta risuonante di grida gioconde, di lieti rumori, affollata di gente accorsa a godere, a partecipare delle pubbliche allegrezze.

In quella sera, 30 giugno, la festa campestre delle Cascine lasciava spopolate, quasi deserte, tutte le vie della città: la gente facilmente usciva a diporto, come ad assistere ad un gaudio della natura.

Serata incantevole!

Il cielo folgorava di una luce bianca, nel plenilunio.

Uno zeffiro, carico di profumi, portava nelle strade, dopo aver asolato tra i fiori dei giardini, un’onda di fragranze, e temperava, molceva deliziosamente il caldo della giornata,

– Ah! che splendida sera! – osservò il Brinda, quando ebbero fatto alcuni passi fuori dell’Ospedale. – Antoniettina! tu devi contentarmi. Tu hai bisogno di aria, di distrazione… Domani sarai di certo consolata di tutto, ora ci vuole coraggio!… Promettimi che più tardi verrai con noi alle Cascine. Prenderemo per uno de’ viali più solitarii… staremo da noi, in disparte… ma vedremo anche noi la bellissima festa, e godremo di questa nottata di paradiso..

Il Brinda aveva tutt’altro che piacere di andare a quella festa, ma voleva distrarre Antonietta, voleva tentare, se fosse possibile, acquetare per poco in lei il tumulto de’ tristissimi pensieri.

E la ragazza aveva pure ben altra inclinazione che di andare alla festa; ma l’idea delicata che, rifiutando, essa avrebbe forse privato il maestro, il suo grande amico Brinda, di una sodisfazione, a cui forse il buon vecchio teneva, si lasciò sfuggire un sì, disposta a rassegnarsi.

– Però – riprese – anderemo tardi… – certa che avrebbe potuto allora persuader il vecchio a uscir solo.

– Quando vorrai.

In quell’ora migliaia di persone si sparpagliavano pei viali, nei prati delle Cascine,

Nel 1833 le mura di Firenze sorgevano al Ponte alla Carraia. Tutto il Lungarno, dal ponte alla Carraia sino a dove è oggi la così detta barriera delle Cascine, non esisteva: vi erano le mura e il greto.

Si accedeva alle Cascine dalla così detta Porticciuola, oltre che dalla Porta al Prato. La Porticciuola era dove è oggi la Piazza Curtatone, allo sbocco di Via Borgognissanti, e di un’altra viuzza, parallela, che si chiamava Via Gora, famoso raddotto di donnaccole, di poverissime famiglie dell’infima plebe, che abitavano i luridi tugurii, i quali avevano dietro a sè le mura della città, di costa all’Arno.

Dalla Porticciuola e dalla Porta al Prato sino alla Real Villa, per lo spazio di un miglio, centinaia di fiammelle, ricorrenti in molteplici ordini tra le file degli alberi, delle strade, degli attigui viali, gettavano torrenti di luce.

L’ingegnere comunale Paolo Veraci aveva fatto prodigii!

Splendevano altresì, in quest’intervallo, due grandi guglie e due colonne, quelle con insolito chiarore poco fuori della Porta al Prato, queste al bivio delle due strade dalla Porta al Prato e dall’altra detta la Porticciuola; e la illuminazione continuava pel ponte del Fosso Bandito, la Ghiacciaia, il Fonte di Narciso, ecc. Lumi sparsi anche per entro ai boschetti tramandavano al di fuori un vago chiarore, ed offrivano frappe allo sguardo di bell’effetto.

Fin oltre alla R. Villa si spiegava la maggior pompa dell’illuminazione e dell’apparato. Ivi da prima, verso l’estremità del Prato detto della Tinaia, scorgevasi un gran padiglione ottagono destinato per sala da ballo agli invitati più ragguardevoli. Nè con eleganza, nè con ricchezza maggiore poteva questo essere adorno e illuminato. Al di dentro l’addobbo di drappi, di veli e di tappeti; le belle suppellettili, lo splendor delle lumiere e dei candelabri ardenti che il riverberar degli specchi ripeteva in varie guise. Anche l’esterno del padiglione era illuminato con sfarzo corrispondente. Lì vicino, da un lato, sovrastava un cerchio d’alberi; da altra parte si era formato con vasi di fiori e piante ivi a tal uopo in giro raccolti un vago giardinetto; un attendamento, in fine era stato a breve distanza costrutto per la preparazione e distribuzione dei rinfreschi. Questi annessi pure erano illuminati.

In faccia alla Real Villa attirava tutti gli sguardi una pagoda chinese, che di leggiadra architettura e simmetricamente illuminata s’innalzava in mezzo alle illuminazioni non solo del prossimo parterre e dei contigui viali, ma anche della periferia dei maestosi alberi sorgenti all’intorno, ai rami dei quali essendosi appesi fanaletti variamente colorati, e con industria compartiti, quasi ne risultava il prodigio d’una vasta Iride notturna, quanto bella altrettanto grandiosa.

Di là, si entrava nel Prato, detto del Quercione.

«Qui – scrive un cronista – la festa era stata specialmente apparecchiata per l’effusione della gioia popolare. L’ampiezza della superficie del Prato avea costretto a dividerla in due parti, una sola e la più prossima alla Villa apparandone per la festa. Quello spazio che rimaneva pur vasto, era sparso di varii padiglioni, ove ristorar si potesse la moltitudine con cibi e rinfreschi; di palchi eretti per varie bande musicali, e nel centro si elevava un tempietto della Fortuna costrutto per l’estrazione a sorte dei cento premii, la collazione dei quali era stata prenunziata.»

Circa la mezzanotte una coppia furtiva si avanzava per uno dei vialetti, non illuminati.

I due innamorati godevano gli splendori di quella notte, soave come un bel sogno, nell’armonia delle orchestre, nelle grida garrule della folla, nello scintillìo di miriadi di lumi, come se la terra si fosse cosparsa di stelle di fuoco.

Il venticello notturno alitava all’intorno, come per portar con sè le promesse, i giuramenti, che si scambiavano in quelle ore incantevoli i cuori appassionati.

– Mi amerai sempre? – diceva l’uomo sommessamente, accostando il labbro all’orecchio della donna, a cui dava il braccio.

– Sempre! sempre! – rispondeva la donna. – Non ti pare che abbiamo abbastanza sofferto per meritare ciascuno di noi il nostro amore?… Ma… torniamo indietro.

Erano Roberto e Antonietta che, appena arrivati, lasciavano la festa.

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Litres'teki yayın tarihi:
30 ağustos 2016
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