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Kitabı oku: «La gran rivale», sayfa 10

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Ah imprudente!… Non sapeva quel che faceva. Quel cuore che ella si lasciava persuadere di concedere ad un altro, non era già più suo.

Non tardò ad accorgersene.

La sera si ritirò nella sua stanza presto e si trovò ben triste per la decisione presa. Le parve che le sarebbe impossibile di lasciare quella casa ove era nata, di abbandonare suo padre e i pochi suoi vecchi amici.

E quel povero Paolo?…

– Non canterò più con lui quella canzone di Weber che io adoro e ch’egli ama tanto ascoltare!....

Pensando a tutto questo, là nella solitudine notturna della sua stanza virginale, che presto doveva lasciare, il suo cuore a un tratto si gonfiò, sentì una tristezza ignorata fino allora e diede in un pianto dirotto. O amore!… Tu eri giunto!

All’indomani, quando uscì dalla sua stanza, trovò nella sala Paolo. Perchè era venuto, mentre non lo si vedeva che nelle ore prescritte per la lezione? – Era pallido ed il suo sguardo spento indicava una lunga notte d’insonnia.

Ida sentì il cuore che le balzava contro la seta del vestito.

La povera fanciulla era un po’ esaltata.

– Paolo, ella disse, ho acconsentito.

Era la prima volta ch’ella lo chiamava così.

Egli capiva che non resisteva più.

– Ho acconsentito, ella ripetè. Oggi mio padre scrive al marchese di Sentis, che non tarderà ad arrivare. – E fra un mese sarò sua moglie.... e dovrò lasciare questa casa.... e mio padre, e gli amici....

Nascose il bel viso nel fazzoletto e pianse ancora.

Paolo era bianco e il suo labbro tremava convulso.

– Madamigella, le disse alfine, e dei vostri amici di qui ve ne ricorderete qualche volta?…

– Sì, sempre.... mormorò Ida. Ma ora addio.

Così dicendo gli stese la mano.

Egli la prese; era gelida. La strinse passionatamente. – E l’argine fu rotto.

– Voi partite, madamigella, ed io resterò; ma per poco. Non posso vivere senza di voi, e quando sarete marchesa di Sentis io morirò. – Mi ero giurato di tacere, ma le forze umane hanno dei limiti. Vi amo, Ida. In quest’ultima ora, in quest’ora tristissima d’addio, non so come osi dirlo, ma lo dico. Vi amo, vi adoro, non vivo che per voi. So quanto ne separa. Voi non avreste mai potuto amarmi. Avete fatto bene ad accettare la mano del marchese. – Siate felice, Ida.... ma pensate qualche volta che vi è uno quaggiù che morrebbe col sorriso sulle labbra se potesse morire per voi....

– Paolo, anch’io....

In quel momento l’uscio s’aprì ed il conte entrò nella sala. All’attitudine dei due giovani ebbe una rapida intuizione di ciò che si passava. La sua fronte si corrugò. – Paolo, perdendo completamente la testa, fuggì.

Ida era esaltata.

– Mio padre, esclamò, non sposerò mai il marchese di Sentis, mai! mai! mai!....

– Lo sposerai invece tra una settimana, disse il conte.

La sua voce era ferma, ma dolcissima.

Entrò in un lungo discorso. Le disse ch’egli capiva benissimo che questo subitaneo cambiamento dipendeva da un capriccio di fanciulla per Paolo. – Le mostrò affettuosamente, paternamente come un tal sentimento abbisognasse combatterlo. – Ella già non lo poteva sposare, dunque?…

Egli fu dolce, ma inflessibile.

Per la seconda volta Ida fu quasi vinta dalle parole di suo padre. E quando egli la lasciò, si era molto acchetata. Ella era, al pari del conte, imbevuta delle idee aristocratiche del tempo. Sapeva che Paolo non poteva diventare suo marito. – Perchè dunque non accettare la mano del marchese? – Perchè arrecare tanto dispiacere a un padre che la adorava? – Un mutamento di vita le farebbe molto dimenticare; il marchese era un uomo amabilissimo, e poi.... Paolo lo potrebbe vedere ancora qualche volta.... di rado, come un amico.... Ella pensava ciò ingenuamente.

Insomma, a poco a poco si riconciliò coll’idea del matrimonio; e quella sera, stanca delle emozioni della giornata, non tardò a dormire – un po’ triste, ma quieta.

All’indomani Paolo venne all’ora solita.

Egli aveva riflesso lungamente sulla sua posizione. Comprendeva che venendosi a frapporre al momento del matrimonio tra Ida e il marchese, sarebbe stato ingratissimo verso il conte, cui doveva pur tanto, arrecandogli un fortissimo dolore, mentre inceppava l’avvenire d’Ida senza alcun vantaggio. Ei l’amava perdutamente, ma giurò a sè stesso di esser forte.

Si presentò dunque pallido e mestissimo, ma rassegnato. Ida gli narrò come avesse decisamente acconsentito. Espose a nudo l’anima sua; non sapendo più tacerlo, confessò il suo amore con quel sublime accecamento della passione che non esclude il pudore, e al tempo stesso cercò di partecipare a lui un po’ della propria forza fittizia. Gli disse di ricordarsi ch’ella non avrebbe mai amato che lui sulla terra, – ma aggiunse ciò ch’egli già pur troppo sapeva: che quest’amore era impossibile. Che ella gli avrebbe sempre dimostrata la sua affezione e che sperava – tra un anno – di vederlo al castello di Sentis.

– Mai, egli rispose, non potrò mai vedervi di un altro. – Avete ragione, madamigella; sposate il marchese, egli forse vi saprà render felice, e.... dimenticatemi. Io non verrò più per la lezione. Il conte mi ha detto che ora sareste talmente occupata dei preparativi da non aver più tempo per la musica. Egli fa bene.... è assai meglio che non vi veda. Prima della vostra partenza.... – qui la sua voce si commosse, pur continuò: – tornerò un’ultima volta a dirvi addio.

Ida si sentiva voglia di piangere, – non poteva parlare. – Gli stese la mano. Egli la portò alle labbra, e partì.

In pochi giorni, con una forza di sentimento che non aveva mai provato prima, la malinconia d’Ida si cangiò in una tristezza nera, cupa, spaventevole. Un amarissimo pentimento di avere acconsentito l’afferrò bruscamente, così violento che pareva un rimorso e le rodeva la coscienza. L’amore sorgeva invece lentamente e fortemente in lei, e tutta la riempiva. Avrebbe sacrificato ogni cosa per non aver acconsentito, ma ormai capiva che non poteva più retrocedere, e come presa da vertigine, camminava dritto verso il precipizio. Se ella avesse pregato suo padre, egli avrebbe trattata la sua preghiera di capriccio.... chi sa?… l’avrebbe forse forzata. Di giorno in giorno la sua tristezza aumentava. Confessava dolorosamente a sè stessa che ora al marchese di Sentis avrebbe preferito il convento; sentiva pur troppo, che non sarebbe mai stata che una vittima rassegnata.

Il marchese arrivò. Nè la sua gentilezza, nè la sua galanteria compita riuscirono a diradare la nube di mestizia che pesava sulla fronte della fanciulla pentita.

Il conte si persuase che era meglio affrettare le cose, ed il matrimonio fu stabilito per la ventura domenica. Gli invitati arrivarono da Parigi. Erano i pochi parenti del conte, e gli amici numerosi del marchese di Sentis. La vecchia casa silenziosa e tranquilla fu ancora, per un momento, piena del rumore e del brio che l’avevano agitata altre volte. Il conte si mostrò splendido verso i suoi invitati. – Furono giorni di continua festa. In mezzo a tutto quel frastuono Ida finì col distrarsi un tantino.

Ma svegliandosi alla mattina del sabato l’orrore della sua posizione le si affacciò gigante.

– È domani, pensò. Domani tutto sarà finito.

Paolo non l’aveva più veduto. Non osava pensare alla sua promessa di tornare a dirle addio.... Cercava anzi di scacciarne il pensiero.... ma il pensiero tornava.

Ella andò nella sala del cembalo e cominciò a cantare la sua favorita canzone. Acquistava ora un nuovo incanto a’ suoi occhi; era quella che l’ultima volta aveva cantato con lui. L’ultima mesta nota aveva mestamente echeggiato quando l’uscio si aprì, e Paolo entrò.

Non si può descrivere il suo aspetto.

– Madamigella, sono venuto a dirvi addio. Vedete che in questi giorni non vi ho disturbata. Questa è l’ultima volta. Vostro padre non sa che io sia qui; non lo vedrebbe volentieri. Non ho dunque tempo di fermarmi. Addio, Ida, addio per sempre.

Così dicendo le prese la mano, coprendola di baci....

Poi fece uno sforzo violento, e si diresse verso l’uscio.

– Paolo, restate ancora un istante, mormorò una voce dietro a lui.

Egli tornò, e le si sedette vicino.

Ida avrebbe voluto non piangere.... ma nel parlare i singulti le tagliavano la parola.

– Voglio cantarvi per l’estrema volta la canzone di Weber, proseguì. È il canto d’addio.

E con quella voce in cui vi erano delle lagrime, incominciò....

Non la potè finire. A metà si fermò e diede in un pianto dirotto.

Allora solo comprese quanto amasse colui che le stava a fianco.

Paolo aveva voluto esser forte, ma ora tutte le sue risoluzioni lo abbandonarono.

E con una mano afferrò la mano d’Ida, mentre con l’altro braccio le cinse la vita, scosso da una agitazione irresistibile.

La povera fanciulla si abbandonò. La sua bella testa piegò come un fiore carico di rugiada e venne a posarsi sul petto del giovane.

Era un anno che lo amava senza quasi saperlo – ora non poteva più vivere che per lui.

Come fu che le loro labbra si riunirono e si presero in un lungo bacio?…

Quei due cuori, che il momento dopo doveva separare per sempre, battevano l’un contro l’altro, come avessero tentato compenetrarsi....

Ma a un tratto le si risvegliò il suo instinto di donna; l’idea terribile che non si apparteneva più le balenò alla mente. Comprese d’improvviso la parola dovere – e si sciolse con forza dall’abbraccio di lui.

Poco dopo si calmò. – Poi le venne paura che suo padre avesse ad entrare, e Paolo partì. Partì quasi felice. Egli era amato.

Ida ebbe la febbre tutta notte e delirò nel modo il più stravagante; il medico fu chiamato. Si decise ch’era meglio ritardare il matrimonio.

Il marchese venne a farle una visita e si mostrò afflittissimo di tale ritardo.

Ma ella non volle. – Si alzò, disse di star bene. – Vestì il sontuoso abito da sposa tutto coperto di trine mandato da Parigi; si lasciò posare sulla testa la corona nuziale, e bianca come il suo vestito, con l’occhio fisso, col passo sicuro, fu condotta all’altare.

Il conte comprese allora, suo malgrado, che non era una sposa, ma una vittima che quell’altare doveva ricevere. Pure si volle illudere ancora, e pensò che le magnificenze del castello di Sentis ed i fragorosi divertimenti della vita di Parigi le avrebbero ben presto fatto tutto dimenticare.

È difficile farsi un’idea dell’affetto che il conte portava a sua figlia. Ella era tutto per lui. Egli era rimasto, reliquia di un secolo morto, solo, senza amici (la maggior parte non vivevano più o eran passati nelle file degli altri partiti), e Ida, l’imagine vivente di sua madre, la sola donna ch’egli avesse veramente amato, era allora l’unico scopo della sua esistenza. – Fu spaventato dallo sguardo fisso ch’ella aveva quella mattina.

La cerimonia fu breve. Ida pronunziò il «sì» sacramentale con voce ferma, ed uscì dalla cappella a braccio di suo marito con l’istesso passo, e pallida come era entrata.

Le sue idee erano confuse. Il dolore era scomparso. Si sentiva la testa diventar leggiera. Un mesto sorriso le sfiorò le labbra. Nel passare dalla gran sala di ricevimento si rammentò il posto ove era caduta a cinque o sei anni da una delle alte sedie a braccioli, su cui si era arrampicata. Il suo occhio era fisso e mi po’ vitreo. Non era più una donna; era una bella statua che camminava.

Tutto era finito per lei quaggiù. La prima gioia era fugata, la estrema speranza sparita. Ora la sua ragione cominciava a vacillare. La scossa era stata talmente forte, così violento lo sforzo fatto per vincersi, provava tanta ripugnanza per il vincolo che assumeva, quel momento d’amore cui non aveva potuto resistere le aveva rivelato con tanta dolorosa evidenza quanta fosse la sua passione, il delirio della notte l’aveva sì fattamente agitata, che tutto, dinanzi all’orribile realtà del suo sacrifizio, si confondeva, si ottenebrava. In quei giorni ella aveva sofferto più di quello che sapeva, e l’effetto di quella sofferenza ora le piombava adosso fulminante. Quando l’epoca del matrimonio era stata fissata e che i giorni si succedevano con la loro inesorabile velocità, le pareva che quel tempo fatale passasse con una rapidità vorticosa e sentiva un senso di dolorosissima impotenza nel non poterlo arrestare. Ma per quanto si abbia la triste certezza di dover giungere ad una mèta triste, finchè non vi si è giunti, un lieve raggio di speranza s’ostina a posare sul nostro cammino – ma, una volta la mèta toccata, dinanzi all’innegabile realtà, esso pure si spegne e ne lascia nel buio.

Sorrideva sempre – e il conte fu atterrito da quel sorriso. Rispondeva a caso, balbettava parole incoerenti. Ella era calma e quieta, ma la mente sembrava oscurarsi. Si poteva temere che la pazzia, spetro orribile, la stesse aspettando per piombarle adosso.

Ci si permetta una parentesi. Queste specie di demenze, che vengono ad afferrare tra la penultima ora e la tomba chi ha lottato intera in un’ora la lotta della vita, fanno sì che il pensatore si arresti dubitando. Infatti, questi delirii sono veri delirii? O non è forse invece questo svanire della natura umana, all’ultimo momento, la saggezza d’una nuova vita che sembra follia in questa? Quell’occhio che non distingue più chiaramente le cose di quaggiù, è reso cieco da una tenebra che lo ha invaso, o è invece abbagliato dalla luce del cielo?..... Quelle parole incoerenti che la bocca pronunzia e che non s’intendono, sono vuote di senso e prive di ragione – o invece non sono comprese solo perchè le prime sillabe di un’altra favella?.....

Torniamo alla povera Ida. Nella sala ricevette le congratulazioni degli invitati con aspetto distratto, ma la sua forza fittizia scemava d’istante in istante e si sentiva soccombere sotto allo sforzo troppo grande. Dovette cedere. Si ritirò nella sua camera e tutta vestita come era, con i fiori dell’arancio in testa, si coricò sul suo letto di vergine.

Il conte, inquietissimo per lo stato della sua figlia adorata, lasciò gl’invitati, abbandonandoli alla brillante conversazione dello sposo, e corse nella stanza d’Ida. La trovò più calma, ma sempre con lo sguardo fisso e quel sorriso sinistramente dolce.

– Lasciatemi, ella disse, voglio dormire.

E infatti non tardò ad addormentarsi. Quando la vide assopita, la baciò in fronte e si ritirò sulla punta dei piedi.

Ella dormì più di un’ora, d’un sonno nero, pesante.

Quando si svegliò non seppe raccapezzare alcuna idea e le pareva d’aver perduto la memoria; solo si ricordava d’aver molto sofferto. D’improvviso si toccò la fronte con la mano come si fosse a un tratto risovvenuta di qualcosa. S’alzò e con passo calmo e lento uscì dalla stanza.

Traversò le lunghe sale, la galleria, i corritoi ed entrò nella sala verde.

S’assise al cembalo, ed accompagnandosi, cantò la canzone di Weber.

La sua voce non sembrava quasi più di questa terra.

Dopo un istante, tutta la sala era impregnata di quegli accenti....

Nell’uscire trovò Paolo.

Non sembrava vederlo, benchè lo fissasse coi suoi grandi occhi pieni di luce ignota.

Egli le prese le mani, coprendola di baci.

Ma ella le ritirò e scoppiando in un riso convulso che echeggiò stranamente tra le vecchie pareti, disse con voce rotta:

– Non mi toccate, signore. – Sono la marchesa di Sentis.

La misera fanciulla non potè più ristabilirsi. S’ammalò e la malattia fu lunga, e sebbene non dolorosa, senza rimedio.

Le cure dei medici, le preghiere, le sollecitudini dell’affetto paterno, tutto fu inutile. Vi furono in mezzo ai giorni di dolore alcune ore di speranza, ma ahi tosto spenta! Tutto si tentò per salvarla, ma il male fu inesorabile.

Ell’era di quelle che all’urto delle passioni si spezzano, ell’era di quelle che muoiono. Nella sua delicata giovinezza il morale era strettamente unito al fisico.

Finalmente giunse il termine di quella lunga agonia. Il curato del villaggio ed il conte stavano inginocchiati vicino al letto. Un po’ più indietro il marchese di Sentis.

Ebbe un istante di tregua e parlò per poco. I suoi discorsi erano incoerenti e strani, ma affettuosi per suo padre. – Il nome di Paolo tornava ad ogni momento.

Le sue ultime parole furono: «Lasciatemi dormire». Così dicendo appoggiò la bella testa all’indietro e chiuse gli occhi.

II

Tre giorni dopo, la chiesa del villaggio mostravasi

sontuosamente parata di nero e d’argento. – I

paesani in folla erano inginocchiati sui gradini.

Sopra un gran cartello, sormontato dallo stemma

dei Montsauron inquartato con quello dei Sentis,

leggevasi in lettere bianche su fondo nero:

ALL’ANIMA

DELLA NOBILE DAMA

IDA DI MONTSAURON

MARCHESA DI SENTIS

DA SUBITANEO MALORE

RAPITA

LA SERA DELLE NOZZE

LASCIANDO ORBATO LO SPOSO

IL PADRE INCONSOLABILE

CONCEDA DIO

L’ETERNO RIPOSO

LA CORONA DEL PARADISO.

R. I. P.

Null’altro rimaneva di quell’angelo passato sulla terra che una pomposa iscrizione di dodici righe.

L’interno della chiesa era imponente. Le torce funebri l’illuminavano di una luce bianca e severa. Come al di fuori era tutta parata di nero e d’argento. In mezzo sorgeva il cataletto su cui era posata una ghirlanda di fiori.

Il dolore del vecchio conte fu terribile e spaventevole. Dal suo occhio non scese una lagrima – ma in due ore pareva invecchiato di dieci anni. – Volle egli stesso presiedere a tutto ciò che concerneva il funerale, perchè l’ultima dei Montsauron venisse sepolta onorevolmente. Assistette alle esequie dalla tribuna della casa. Poi accompagnò il corteo fino alla tomba di famiglia. Fu deposta vicino alla contessa di Montsauron. Sulla tomba non leggevasi che il nome, con la data della nascita e quella della morte.

Dopo adempiti codesti strazianti ufficii, il conte andò a piedi, accompagnato dal marchese e dal curato, fino al limitare del villaggio, dove una carrozza di posta lo aspettava.

– Là dove Ida è morta, diss’egli, additando la vecchia casa, io non ci voglio star più.

Il marchese aveva offerto di accompagnarlo, ma egli aveva rifiutato. Nessuno aveva voluto, tranne il suo vecchio cameriere, che triste egli pure salì dietro la carrozza.

Il marchese ed il curato, col cappello alla mano ed il viso commosso da un dolore così fiero e così fieramente sopportato, lo sorressero mentre montava in carrozza. – Egli strinse loro la mano e gridò al cocchiere:

– A Parigi!

La pesante carrozza si mosse e i quattro cavalli partirono di galoppo.

Il marchese di Sentis tornò alle sue terre di Normandia.

Paolo non si consolò mai della morte d’Ida – ma non ne morì. Il tempo e l’arte sono grandi consolatori. Partì per Parigi dove non tardò a farsi un nome.

Il dolore che fu veramente immenso fu quello del vecchio. Dolore grande, augusto.

È solo di questo che ne resta a parlare.

III

Cinque anni sono trascorsi dagli avvenimenti che abbiamo narrato.

In un albergo d’un piccolo borgo, in una brutta stanza bassa, tappezzata d’una carta ch’era stata rossa mezzo secolo prima, un signore dal dorso curvato, dai capelli bianchi, dal viso rugoso, è seduto in un’ampia poltrona, e sembra assorto in pensieri. Affrettiamoci di dire che questo vecchio è il conte di Montsauron, altrimenti non lo si riconoscerebbe certo. Il conte era d’eccellente costituzione e di tempra fortissima; questo solo l’avea salvato dal seguire sua figlia nel sepolcro; poichè il dolore che lo aveva fulminato era di quelli che ben sovente uccidono; perdendo lei, egli aveva perduto tutto ciò che ancora lo riteneva quaggiù.

Come avesse sopportato il terribile colpo l’abbiamo visto più sopra. Solo, come fu già detto, non si era sentito la forza di tornare in quelle mura dove Ida aveva reso l’ultimo sospiro, ed era partito per Parigi. Qui tentò distrarsi, ma invano. Comperò dopo qualche tempo una piccola villa sulle ridenti rive della Senna, ed ebbe un momento la speranza che una vita tranquilla, in un sito ameno e bello, ben lontano dalla scena della disgrazia, potesse a poco a poco chiudere la piaga che sanguinava ancora. Vi stette due mesi, ma la solitudine aumentava anzi di giorno in giorno la sua tetra malinconia. – Decise allora di viaggiare.

Qui cominciò lo spettacolo tristissimo di quel vecchio che andava, andava, fuggendo il suo dolore. Percorse tutta l’Italia e la Spagna, e dappertutto non trovò altro che l’imagine di sua figlia morente – e le ultime sue parole e l’ultimo suo sguardo egli le udiva, lo vedeva sempre. – Fuggiva invano quei pensieri che lo seguivano come fantasmi: pareva che si fossero in lui incarnati.

Inoltre, a poco a poco, suo malgrado e benchè cercasse combatterlo, un nuovo sentimento si era impossessato di lui.

Un nuovo male lo rodeva, un male più grande che si aggiungeva al primo: il rimorso. Questo pensiero orrendo ch’egli non fosse innocente della morte della sua Ida, s’infiltrò adagio nella sua mente, a gradi a gradi, e una volta padrone di lui, non gli lasciò più un momento di pace. Era certo ch’ella era morta di dolore. E al matrimonio col marchese egli non l’aveva forzata, ma pure… Qualche volta si svegliava di notte in sussulto e gli sembrava vedere in mezzo alla stanza la sua Ida ancora vestita da sposa, ma già pallida dell’ultimo pallore. Egli non era mai stato superstizioso; pure v’erano ora dei momenti in cui aveva paura della solitudine.

Lo ritroviamo – cinque anni dopo – stanco di viaggiare. Un bel giorno si era sentito un violentissimo desiderio assai strano. Come subito, dopo la disgrazia, egli aveva voluto fuggire dalla sua vecchia casa, così invece provava ora una brama intensissima di tornarvi. La malinconia che lo seguiva dovunque era ora raddoppiata da quel nuovo sentimento non da tutti compreso, che si potrebbe chiamare la nostalgia del dolore. Non potendo obliare, voleva che tutto gli parlasse della sua sventura; non volendo consolarsi, trovava un’acre voluttà nel bere fino all’ultima goccia la coppa d’amarezza. Bramava rivedere la stanza ov’era morta e deporre de’ fiori sulla sua tomba. Stanco di tutto, egli voleva affogarsi nella sua afflizione.

Fu per ciò ch’egli compì il viaggio del ritorno con la stessa celerità con la quale era stata effettuata, cinque anni prima, quella partenza che rassomigliava a una fuga.

Per istinto e per indole, per educazione e convinzione, il conte era eminentemente religioso. E i conforti della religione gli aveva cercati, ma erano stati vani essi pure. Tutte le consolazioni che gli furono date per lenire il suo male, non valsero a nulla. Cosa triste alla sua età, perfino la fede scemava in lui!

La superstizione subentrava.

Tutto ciò che nel lungo corso della sua vita aveva udito raccontare che si riferisse a storie sopranaturali, quegli aneddoti di fantasmi e di spettri di cui abbiamo avuto tutti la nostra parte, ora gli tornavano alla mente e lo agitavano e conturbavano. Gli pareva che tutti avessero a ripetersi per lui; e veramente – sebbene non se lo volesse confessare – non era senza inquietudine che pensava alla prima notte nella sua gran camera, così grave con la tappezzeria di lampas giallo e la vôlta a dorature annerite dal tempo.

Questo però non diminuiva per nulla la brama intensa di tornare in quelle mura dove sua figlia era spirata – e il timore, ch’egli voleva scuotere, ma che pure aveva, delle apparizioni notturne, timore derivante dal rimorso, non faceva che aumentare il desiderio di essere ancora nella vecchia casa. Aveva, per così dire, la curiosità della paura; voleva vedere cosa ben gli potesse accadere.

Egli se ne stava dunque, quando lo ritroviamo, seduto in un ampia poltrona in quella brutta stanza d’albergo, inabissato ne’ suoi tristi pensieri. Arrivando in quell’ultima stazione del suo viaggio di ritorno, spinto da quella febbrile impazienza che aveva di risoffrire dove aveva sofferto, agitato da una tremenda curiosità, aveva deciso, sebbene stanchissimo, di passarvi solo la notte e ripartire all’indomani.

Alla mattina infatti, Antonio, il vecchio cameriere entrò nella sua stanza.

– Signor conte, egli disse, i cavalli sono attaccati e tutto è pronto.

– È inutile. Non parto oggi, rispose il conte.

All’indomani fu lo stesso. Finalmente diede l’ordine che non si pensasse alla partenza fino a nuovo avviso.

Abbiamo talvolta simili tetri avvertimenti che sembrano venire dall’alto. Il presentimento si mette sulla nostra strada e ne addita l’abisso. Il conte, sapendosi a poche leghe dalla sontuosa tomba di famiglia dove la sua Ida riposava, sentiva già un fremito arcano per la vicinanza. La paura del sopranaturale si faceva ogni giorno più forte e diventava terrore.

Tutto in lui era contraddizione. – Voleva vedere la sua antica casa, ma temeva. E triplicato dal presentimento che pesava su di lui lo spavento soprastava.

Rimase così una quindicina di giorni in quel brutto albergo e non si decideva a partire. Egli era come un uomo che teme d’aprire una porta.

Una notte ebbe un sogno. Gli pareva d’esser vicino al monumento di sua figlia; ma la tomba era trasparente ed ella agitava le braccia, e malgrado gli occhi chiusi, il suo volto pallido era radiante. L’espressione del suo viso era d’una tristezza ineffabilmente dolce.

Quella visione lo impressionò gravemente. Si sentì addolorato e pieno di rimorso per la soave malinconia impressa sulla faccia della sua morta. Pure il desiderio di rivedere quella tomba ridivenne più gagliardo della paura dei fantasmi. Anzi, sebbene in fondo all’anima conservasse una tema indistruttibile, arcana, pure non erano più le apparizioni che paventava. Che paventava dunque? Non lo sapeva più. Ida ora l’aveva vista e quella visione non gli era stata un incubo, ma anzi quasi un conforto. Pure quel terrore vago e indefinibile lo provava ancora, e peggiore forse perchè segreto ed ignoto.

Ma superò tutto la brama di rivedere la sua casa,

Non frappose più verun indugio. La sua impazienza a un tratto si fece delirio. Si alzò, ordinò i cavalli, fece in fretta e in furia i suoi preparativi e mezz’ora dopo la pesante carrozza rotolava già sulla strada postale.

Era il tramonto. Sul terrazzo della vecchia casa stavano riuniti domestici e contadini e con essi la cameriera d’Ida. Tutti protendevano avidamente lo sguardo verso la strada. Un bisbigliare animatissimo serpeggiava tra i gruppi. Perchè accorsi tutti? Per l’annunzio di un servitore che dichiarava di aver veduto dalla finestra una carrozza sulla strada postale. Non sembrava che un punto nero; ma si dirigeva verso la casa. – Tutti sapevano che il conte doveva presto arrivare, quella carrozza in vista suscitò dunque una gran commozione.

– Mi par che non arrivi più. Non sarà stato lui, disse finalmente il giardiniere.

Non aveva finito di pronunziare queste parole, che si vide spuntare in fondo al magnifico viale, la carrozza tutta nera e impolverata del conte. I cavalli, benchè sembrassero stanchi, coperti di sudore e di spuma, salirono bravamente di galoppo fino al terrazzo.

Lì la carrozza si fermò. – Fu, per gli assembrati, un momento d’indicibile emozione. Tutti si sentirono un brivido passare per le ossa.

L’istante era solenne.

Il loro vecchio padrone, cui volevano tanto bene, che avevano veduto fuggire, abbattuto da quel colpo tremendo, la morte dell’unica sua speranza, ora lo vedevano tornare dopo cinque anni di assenza, che ben sapevano essere stata vana a calmare il suo dolore.

Lo sportello si aprì e il conte si affacciò, e ristette un momento. Provava come un’ultima esitazione.

Com’era cambiato!.....

Finalmente scese, e curvo, appoggiato da ambe le parti, salì lentamente i gradini del terrazzo.

Tutti gli si erano precipitati incontro, baciandogli le mani, le falde dell’abito, sorreggendolo.... Egli li ringraziò con voce malferma.

Quando entrò nella sala, si videro due lagrime silenziose che gli scendevano lente lente per le guancie. – Dopo la morte d’Ida piangeva per la prima volta.

Passò nella gran sala da pranzo dove trovò già apparecchiato. Cenò servito da tutti, discorrendo con tutti, ringraziando tutti, domandò notizie di quel che si era fatto nella sua assenza. Egli era ben contento di ritrovarsi alfine, nella vecchia casa; si felicitava di aver avuto il coraggio di venire.

Dopo si ritirò nella sua camera da letto, e si coricò.

Quando fu solo ancora per la prima volta dopo tanto tempo, nella sua gran stanza così severa, non potè frenare un momento di paura. Pure finì coll’addormentarsi, ed il suo sonno non fu turbato in alcun modo.

Insomma, e per abbreviare, un mese passò senza che nulla gli accadesse di straordinario. Era stato molte volte anche nella stanza dove Ida era morta, aveva posato la sua vecchia testa su quel cuscino dove la povera sposa aveva esalato l’ultimo sospiro, aveva pianto come un fanciullo, poichè oramai poteva piangere, ma nulla gli era accaduto.

Aveva girato le sale silenziose, le lunghe gallerie, i corritoi, ma nulla egli aveva veduto d’insolito o di sopranaturale. Le sue apprensioni, le sue superstiziose paure cominciavano a diminuire. Ma le apparizioni egli non le temeva: Ida gli era apparsa e gli aveva sorriso. L’inquietudine, il presentimento ch’egli provava così fortemente, da che derivavano dunque?

Un giorno egli usciva dalla biblioteca e vide aperto un uscio che ordinariamente stava chiuso. Metteva a un lungo corridoio, conducente nel fondo dall’ala sinistra della casa. In fondo a quel corridoio trovavasi la sala verde, quella che conosciamo, la sala del pianoforte, il luogo favorito della povera Ida. Gli balenò al pensiero che, dopo il suo ritorno, non vi era mai stato. Dipendeva probabilmente da abitudine, poichè anche prima non usava andarvi.

Era un luogo amato da sua figlia; egli che non respirava più che per quella sacra memoria si sentì subito invogliato ad entrarvi. Passò nel lungo corritoio, e appoggiandosi al bastone (che non lo abbandonava più oramai), si diresse verso la sala verde.

Andava curvo, con l’occhio spento, la testa bassa. Sentiva in cuore una tristezza più forte della consueta. Spinse l’uscio ed entrò. – Subito le sue superstiziose paure lo assalirono. Sebbene in pieno giorno tremava più che di notte nella sua stanza tetra.

Tutto nella sala era al suo posto, tutto come l’ultima volta che Ida vi aveva messo il piede. Nessuno dopo quel giorno eravi penetrato. L’antico clavicembalo stava aperto e sul leggìo vedevasi aperta una musica. Era la canzone di Weber – la canzone favorita ch’ella aveva ripetuto tante volte con Paolo, quella che li aveva fatti cadere nelle braccia l’un dell’altro, e scambiarsi quel lungo bacio d’amore che fu il loro unico istante di felicità; quella che aveva sonato l’ultima volta, con lo sguardo fisso, col cuore spezzato, con l’accento d’un inconsolabile dolore, con una voce che non era già più di questo mondo.