Kitabı oku: «La gran rivale», sayfa 14
ALLUCINAZIONE
I
N’è sfuggito di memoria il nome della città dove visse il giovane di cui vogliamo narrare la storia, ma ci sembra che fosse in Germania. Era povero, buono, quieto, un po’ fantastico; abitava una stanzuccia molto vicina al tetto, e durante il giorno non ne usciva che per portare a chi gliel’aveva affidata la musica che copiava per campare la vita. Allo stesso tempo era, se si vuole, indolente; non di quella solita indolenza dei giovani che preferiscono il divertirsi allo studiare, ma d’una indolenza pensierosa; invece di occuparsi stava spesso lunghe ore immobile, lasciando vagare la sua fantasia nel regno vaporoso dei sogni. Egli era senza dubbio dotato di molto ingegno; ma di un ingegno lento, capriccioso, a sbalzi, che, se non possentemente aiutato, non gli avrebbe dato di che mangiare tutti i giorni. Ecco perchè la sua vita dividevasi in due parti: quella del lavoro materiale, consistente, come dicemmo, principalmente nel copiare, e quella dell’intelligenza, alla quale non poteva dedicare molte ore, ma che da sè sola costituiva la sua vita morale, e gli dava invece il pane dello spirito. Quando poteva finalmente gettare da parte l’ingrato lavoro al quale era obbligato e sedersi al cembalo a comporre, il suo cuore si allargava talmente, di tratto in tratto lo agitava sì fattamente il fuoco della ispirazione che diventava quasi bello, sebbene naturalmente non lo fosse. Era la sua una figura incolora, circondata da lunghi capelli biondi; i lineamenti non regolari, gli occhi dolci e lo sguardo un po’ stralunato e qualche volta ardente.
I vicini, benchè lo conoscessero poco, gli volevano bene; poichè, senza essere molto loquace, era cortese con tutti. Sembrava però a tutti che vi fosse nelle sue abitudini un che di misterioso. Passava spesso intere giornate senza uscire di casa e non lo si udiva nemmeno dalle stanze adiacenti, mentre talvolta invece il cembalo gemeva e s’infuriava sotto alle sue dita inspirate e tutta la casa era riempita dalla musica sonora, triste possente, ora bellissima, ora solamente strana, delle sue composizioni.
Egli viveva solo e ben di rado accadeva che qualcuno battesse al suo uscio. Bisogna però confessare che in ciò vi era una gran parte di colpa sua. Non gli erano mancati, sul principio, amici e protettori; ma egli li aveva scoraggiati con le sue stranezze e con l’ostinazione delle sue idee, nella quale nessuno lo superava, quando si trattava di cose d’arte. Non ascoltava affatto i consigli, non per superbia ma per convinzione profonda di essere sulla via giusta, e piuttosto che deviare solo un tantino dalle sue idee fisse, preferiva continuare solo la strada. La sua stanza era di una semplicità poverissima, ma pulita; un letto, due sedie e un gran cembalo a coda, posto nel mezzo, ne erano la mobilia. Egli aveva saputo ridurre i suoi bisogni al più stretto necessario per poter dedicare il più gran numero possibile di ore alle sue composizioni ed il minore al suo lavoro di copista. La sua vita era regolarissima; l’amore non entrava allora per nulla nella sua esistenza.
Aveva un amico, ch’era però l’opposto quasi di lui, perchè passava il tempo il più gaiamente possibile, senza curarsi dell’indomani, senza disperarsi troppo quando gli rimanevano vuote le tasche, spendendola, appena vi trovasse una moneta; ma che, malgrado questo, simpatizzava con lui, coltivando egli pure la musica, nutrendo gli stessi pensieri, seguitando le medesime teorie, ed essendogli davvero affezionato. Lo vedeva però oramai assai di rado anche lui.
Da qualche anno Guglielmo conduceva questa vita di quiete, di povertà, di raccoglimento, di lavoro volgare alternato dall’estasi artistica, e di quasi perfetta solitudine, poichè, oltre l’amico, vedeva solo di rado una famiglia, pure povera, che abitava nelle stanze precisamente al disotto delle sue; del resto, nessuno. Questa famiglia era composta di due fratelli, già vecchi ambedue, e d’una fanciulla d’un terzo fratello, morto da molti anni, e che essi, ancor piccina, avevano ricoverata ed allevata come figliuola. Ora s’avvicinava ai vent’anni, ma certo la Dea della bellezza non le aveva sorriso. Senza essere precisamente deforme, aveva le spalle curve e qualcosa di storto in tutta la persona. Sembrava gracile, benchè non fosse mai ammalata; il suo viso aveva un’espressione triste e sofferente, sebbene la bocca sorridesse quasi sempre. L’occhio era grande, ma molto incavato, e lo sguardo dolce e come stupito. Aveva quella tinta di pelle speciale a chi è mancata l’aria e il nutrimento, era bruna, ma non dal sole; e i suoi capelli castagni erano attortigliati in disordine sulla testa. Vi era in lei qualcosa di pigro, d’inerte, di stanco che si rivelava nella noncuranza completa di sè, che ne impedisce di scrivere quella frase, favorita dei vecchi romanzieri: poveramente ma pulitamente vestita. Non avendo speranza di piacere, non badava ad assettare i suoi cenci; e malgrado ciò vi era tanta bontà nella sua fisonomia, nel suo sguardo una sì soave rassegnazione della sua bruttezza e della sua povertà, ch’era davvero interessante. Chi l’avesse incontrata, mentre saliva o scendeva le scale, a piedi peggio che nudi, con un qualche filo nei capelli, cantando con una voce esile e monotona una canzone di cui ella stessa non capiva il senso, certo si sarebbe voltato a guardarla. E molto probabilmente ella avrebbe guardato lui e gli avrebbe sorriso in faccia, poichè la sua bruttezza le aveva tolto la timidità. Il suo carattere era piuttosto allegro, e i suoi due zii l’adoravano ed erano lieti di aversela vicina. Era talora chiassosa tal altra tranquillissima, un po’ capricciosa, ignorante, selvatica, e un tantino sfacciata nello stesso tempo.
Nei giorni in cui si udiva il cembalo di Guglielmo, ella che amava istintivamente la musica, si appoggiava contro l’uscio della sua camera e vi restava immobile, a bocca aperta, finchè i suoni cessavano. Per lei egli era come dotato di una sopranaturale potenza, sembrandole sovrumani i concenti che faceva uscire dal suo pianoforte. Ella inoltre aveva fin da fanciulletta una forte simpatia per lui e la sua più grande gioia era quella (non frequentemente concessa) di penetrare nella stanzuccia dell’artista. Quando vi era, ella frugava dappertutto, guardava ogni cosa, apriva i fascicoli di musica e li percorreva lungamente con lo sguardo, come se avesse saputo decifrare le note, toccava quasi paurosamente i tasti del cembalo, faceva mille domande cui Guglielmo rispondeva talvolta ridendo, talvolta cupo; e sopratutto lo guardava lungamente come se nel suo viso avesse trovato la spiegazione di tutto ciò che le riesciva incomprensibile.
Ogniqualvolta uscisse, egli la trovava sulla scala ed ella, a seconda della tristezza o della serenità della sua fisonomia, gl’indirizzava la parola, o gli faceva solo un lieve saluto col capo.
Questa simpatia della povera fanciulla pel compositore copista, si modificò dopo qualche tempo in un sentimento più forte e da cui ella era turbata, benchè non si potesse ben render conto della sua natura. Quando lo vedeva, le riusciva difficile il distaccare gli occhi da lui e lo contemplava tra l’attonito e il trasognato. Quasi senza rendersene conto, cercava le occasioni d’incontrarlo e s’arrischiava di rivolgergli la parola più sovente che per lo passato. La voce di lui sembrava ammaliarla e se ne avesse ottenuto un sorriso o una parola gaia o dolce, sentivasi felice per tutta la giornata. Abitualmente però egli era concentrato e spesso non rispondeva che a monosillabi, benchè fosse sempre affabile e gentile.
Si capirà facilmente che dovevano essere strani gli effetti dell’amore in quella fanciulla strana, brutta, allegra. Il corpo e lo spirito se ne risentirono; il riso diminuì sulle sue labbra e lo sguardo divenne più fisso, il viso si allungò un poco; inoltre si fece più seria. Come le altre sotto l’influsso dell’amore diventano più belle, così ella diventò quasi più brutta.
II
Non vi era motivo perchè alcuna cosa cambiasse in quella casa; se non che, dopo qualche tempo, tutti quelli che vi dimoravano, e specialmente Maria (chiameremo così la povera ragazza di cui abbiamo scordato il nome), si fecero inquieti sul conto del nostro protagonista; e di una inquietudine che andava tutti i giorni aumentando.
La sua vita continuava in fatti, per così dire, a stringersi e diminuire da una parte e ad aumentare ed allargarsi dall’altra. La parte del lavoro materiale si riduceva ai minimi termini, quella dell’arte prendeva vaste proporzioni. Come viveva intanto? Bisognava pensare che egli fosse riuscito a far passare a poco a poco tutto il necessario nella categoria del superfluo. Non usciva quasi più di casa, quelli che gli avevano data della musica da copiare l’aspettavano inutilmente, mentre invece il cembalo si udiva più spesso e pareva fosse toccato sotto l’impulso di una inspirazione novella. Egli non era stato in alcun modo fortunato e l’unico suo tentativo grandioso era stato un grandioso fiasco; benchè anche i suoi nemici lo avessero giudicato un giovane d’ingegno affatto speciale.
Ma egli aveva quella confidenza in sè stesso che è fortemente sicura, aveva quel coraggio che nulla può abbattere. Lo scoraggiamento momentaneo che aveva seguito la sconfitta e che si era tradotto in quel tempo in cui viveva meglio perchè copiava di più, era scemato, ed ora il coraggio riempiva di nuovo gagliardamente il suo cuore e si sentiva tutto invaso dalla speranza. Allo stesso tempo era naturale che la sua guancia, impallidentesi sempre più, le lunghe ore di reclusione cui si condannava e nelle quali soltanto pareva si dilettasse, dovessero inquietare chi lo conosceva da vicino. L’amico venne a vederlo e fu fortemente impressionato dal suo aspetto e dai discorsi scuciti che gli tenne. Egli, d’ordinario pieno di dubbii, sembrava ora tutto gonfio di superbia e parlava con sicurezza dei suoi trionfi per l’avvenire. Fece udire all’amico qualcosa delle sue ultime composizioni e questi fu afflitto dalla strana piega che il suo ingegno prendeva. Infatti, dopo alcune battute sublimi, venivano delle pagine intiere di robaccia.
È necessario, per capire ciò che raccontiamo, farsi un’idea del carattere e della vita poco felice che aveva condotto Guglielmo. La sua era di quelle nature stanche e indolenti che non vogliono lottare; non tentò nemmeno di reagire contro alla sfortuna che lo lasciava nell’isolamento e metteva il suo ingegno nell’ombra. Si rassegnò mestamente alla povertà, alla solitudine, all’incognito. La vita non gli sembrava bella abbastanza da dover far troppa fatica per giungere a goderne in un buon posto; qualunque sforzo gli pareva soverchio, inutile ogni tentativo. Giudicava l’arte talmente bella per sè stessa e fonte di gioie intime tanto intense, da parergli vano il manifestare le proprie idee, puerile persino il cercare la gloria e l’applauso. In altri momenti invece cambiava completamente, e si sentiva nell’animo una tristezza amara vedendo i suoi sogni svanire e le sue illusioni cadere inesorabilmente una dopo l’altra. Ma tali momenti erano eccezionali, e, in generale, era rassegnato alla sua sorte, e tanto serenamente che pareva contento. Quando non era costretto a lavorare e che si metteva al cembalo, col leggìo da una parte per notare le idee di mano in mano che gli venivano, egli scordava tutte le sue miserie, pareva noncurante dell’avvenire, e tutto assorto nella felicità presente non avrebbe cambiato la sua sorte con nessuno. I giorni veramente tristi erano quelli in cui il cembalo era obbligato al silenzio.
Egli fu dunque relativamente in piena felicità quando riuscì a ridurre i suoi bisogni talmente da poter dedicare quasi tutto il suo tempo all’arte e vivere così quella vita intellettuale che cominciava, come dicemmo, ad inquietare i suoi amici.
Ma pur troppo la passione della solitudine, la indifferenza per tutto, tranne che per l’arte, quel sentimento di felicità in mezzo alle miserie, quell’estasi vana e non sempre possente, cominciavano a prendere a poco a poco il carattere di una monomanìa. Vi si dovrebbe forse aggiungere la completa mancanza d’amore in cui viveva, non conoscendo alcuna donna; non vedendone alcuna, tranne Maria, che dal canto suo lo guardava anche troppo, ma di cui egli naturalmente non si curava punto.
Un’idea gli era venuta che gli pareva bellissima, vasta, nuova, – ed aveva con moltissima fede e qualche speranza incominciato questo nuovo lavoro. Era dunque indispensabile di abbandonare il resto, ed egli aveva tutto abbandonato, vivendo Dio sa come. Nulla lo arrestava, il suo coraggio paziente e calmo non conosceva ostacoli, la sua forza di volontà era invincibile. L’amico, udendo qualche cosa qua e là che gli parve sublime, e vedendo quella fermezza di propositi insieme a tanto fuoco sacro, credette per un momento che fosse davvero alla vigilia d’un capolavoro.
III
Si accorse ben presto e dolorosamente d’essersi sbagliato. Il lavoro di Guglielmo procedeva a sbalzi, irregolarmente, falsamente; qualcuna delle sue facoltà si era affievolita qualche altra eccisivamente esaltata. L’amico si rimproverò di averlo un poco abbandonato, e benchè non fosse sempre benissimo ricevuto, ripigliò le sue visite frequenti come prima. Era stupito, e qualche volta un po’ paurosamente, dell’umore variabilissimo di Guglielmo, il quale passava con la massima facilità, in un giorno, dall’orgoglio dell’assoluta confidenza alla triste spossatezza dello scoraggiamento.
Lo trovò una sera in quest’ultima fase, completamente abbattuto. Se ne stava al cembalo con la testa tra le mani ed i gomiti appoggiati alla tastiera in un’attitudine d’istupidimento morale. Non si mosse punto udendo qualcuno entrare, e non fu che dopo aver fatto uso alternativamente delle preghiere e delle minaccie, come si fa coi fanciulli, che si potè udire il suono della sua voce. Ma, rotta la diga, uscì un torrente di parole che pareva non si dovesse arrestare. Ripeteva spesso, cambiando solo di modo, le medesime idee; disse che non vi era alcuna speranza per lui, che ogni tentativo era inutile, che gli uomini e le cose, tutto gli era ostile. Cadeva in contradizione, ora malediceva l’ingiustizia umana, ora diceva che nulla gli poteva arridere, ma che lo meritava, il suo genio essendo una illusione e nulla più. L’amico riuscì a calmarlo un tantino, ma lo lasciò senza poter nascondere a sè stesso che quello stato non era certo rassicurante.
Nell’uscire trovò Maria sulla scala. – Dica, esclamò appena lo vide, come sta il signor Guglielmo?
– Abbastanza bene, egli rispose, un poco stupito dell’inquietudine della fanciulla.
– Ah! signore, riprese Maria, la guardi che non v’è bisogno d’essere a letto per essere ammalato.
– Ma Guglielmo non è ammalato.
– Voglia il cielo ch’ella possa aver ragione! Eppure, a dirle il vero, ho paura ch’ella si sbagli. Quel ragazzo si rovina a forza di studiare sulle note....
È impossibile farsi un’idea dell’effetto straziante che facevano quelle parole da nonna, dette da quella fanciulla. La voce malferma indicava poi chiaramente ch’ella era turbata. Che accadeva in quell’anima oscura?
– Maria, disse il giovane, sono assai contento d’averti trovata; puoi essere utile a me ed a Guglielmo.
Gli occhi infossati della fanciulla sfavillarono.
– E come?
– Ascolta: io dovrò probabilmente partire per qualche giorno, forse per qualche settimana. È meglio che ti confessi che anch’io non sono tranquillissimo sul conto di Guglielmo; badaci dunque tu più che ti sia possibile durante la mia assenza. Spero di poter venire ancora domani, ma se dovessi subito partire, te lo affido fin da oggi. Guarda come sta, osservandolo bene, e al mio ritorno, che affretterò, sappimi dire cosa fece in questo tempo.
– Stia sicuro, si fidi pur di me. Le saprò dir tutto. – Poi aggiunse con una paurosa espressione di tristezza: – speriamo che stia bene.
– Addio, Maria. Non dubito di te. Vedo che Guglielmo ti sta molto a cuore.
Dicendo queste parole guardò fissamente la poveretta con un lieve sorriso, ed ella, forse per la prima volta, arrossì.
È necessario dire quanto Maria fosse felice della missione affidatale? Ora aveva una scusa per entrare il più sovente possibile nella stanzuccia dell’artista (giacchè oramai l’aspettarlo sulla scala era inutile), una scusa anche verso sè stessa, per occuparsi di lui il più che le venisse concesso. L’indomani di buon mattino entrò da Guglielmo portandogli un mazzetto di fiori, di cui egli quasi non si accorse. Nella mezz’ora che rimase nella stanza si rese colpevole d’un furto che non vogliamo tacere: rubò un ritratto di donna che trovò a caso tra due fogli di musica.
Lo stato di Guglielmo parve migliorare, poichè dallo scoraggiamento eccessivo era passato, come gli accadeva, alla eccessiva speranza. Era sicuro di riuscire, sentiva che sarebbe diventato il primo maestro del mondo, non si accorgeva più dei cento mali che prima lo facevano soffrire. Ma la Maria non era sì facilmente ingannata dalle apparenze, giacchè l’amore è talvolta assai meno cieco di quello che si crede, e deperiva ella pure contemporaneamente ai progressi che il male, forse da lei sola traveduto, faceva in Guglielmo.
Quasi senza confessarlo del tutto nemmeno a sè medesima, come accade ben sovente, ella ne era davvero innamorata. Ogni suo pensiero, ogni suo sentimento era volto verso quella stanza; ella piegava tutta verso lui. In lui era la sua vita, solo su di lui i suoi occhi, fissandosi, non si toglievano più. Le preghiere, imparate da bambina, prendevano ora un significato novello; poichè la sua mente non poteva rivolgersi al cielo senza al tempo stesso rivolgersi a lui; pregava perchè fosse fortunato. Aveva, ancor più di prima, lunghissime ore di distrazione, talvolta non capiva quando le si rivolgeva la parola, tanto la sua mente era costantemente altrove. I suoi zii si accorgevano che una metamorfosi si stava compiendo in lei, senza che giungessero a comprenderla.
Guglielmo dal canto suo non vedeva nulla, ed ella soffriva maggiormente di questa sua indifferenza che di qualunque altra cosa. Anche senza essere riamata, le sarebbe paruto un altissimo grado di felicità ch’egli indovinasse ciò ch’ella non osava dirgli. Perfino la sua gentilezza, non essendo motivata da alcun sentimento, le riusciva quasi molesta. Sarebbe morta per lui, ma non poteva sopportare la sua noncuranza.
Se si volesse tentare di analizzare l’effetto prodotto dall’amore in quella meschina, si potrebbe scrivere lungamente senza forse aver finito. Quel sentimento era gradatamente penetrato in lei e l’aveva tutta invasa, ed ora non poteva più negarselo, poichè s’affliggeva, si tormentava, si struggeva e ben sovente nella notturna solitudine piangeva.
IV
Uno dei tristissimi spettacoli di quaggiù è certo quello d’un ingegno vivace che, per colpa delle circostanze e per mancanza d’aiuto, degenera a poco a poco.
Al suo ritorno l’amico di Guglielmo andò subito a trovarlo e la prima persona che incontrò, entrando nella casa, fu Maria, che gli sembrò più pallida del solito e gli diede delle notizie non troppo buone. Egli salì prestamente la scala ed entrò nella stanza, dell’artista; ma quando lo vide gli parve che le relazioni di Maria fossero esagerate di molto – anzi, ebbe quasi la speranza ch’ella si fosse totalmente ingannata.
Lo trovò infatti, sebbene molto sparuto, pure col viso sereno e lo sguardo limpido e vivace come non si ricordava di averlo veduto mai, un sorriso si disegnava sbiadito sulla bocca, e la sua voce, nel dargli il benvenuto, fu calma e lieta. Ma pur troppo, l’illusione non durò che pochi istanti. Appena gli ebbe parlato per qualche tempo, si accorse del disaccordo che vi era nelle sue facoltà e come in quella intelligenza, che tentava invano di essere forte, vi fosse certo qualcosa di spostato.
Intanto, e forse per la prima volta, Guglielmo era felice. Il suo occhio, turbato dalla scossa che forse aveva ricevuto il cervello, non vedeva più gli oggetti esterni quali erano, ma bensì come la fantasia li dipingeva e come li avrebbe voluti. La realtà diventava falsa dinanzi al suo sguardo, e invece vere le visioni da cui la sua mente era allucinata. Nella sua musica egli non riscontrava più quello squilibrio tra la volontà creatrice e la forza d’esecuzione, che sempre e tanto affligge l’artista, o piuttosto non se ne accorgeva più, poichè non sapeva distinguere la parte che si era estrinsecata da quella che era restata dentro e udiva nelle sue note anche quella eco divina che sentiva, ma che non vi aveva saputo esprimere. Gli pareva che tutti i suoi sentimenti fossero stati tradotti, mentre invece manifestava meno di prima, allorchè la sua composizione lo addolorava sembrandogli sempre a mille miglia al di sotto del suo ideale.
L’amico ne fu davvero rattristato, poichè capì che l’ingegno possente che prima innegabilmente possedeva, andava lentamente sperdendosi, e solo la stranezza rimaneva. Lo lasciò con l’anima piena d’una mestizia profonda, ma curiosa all’istesso tempo, e promettendosi di non abbandonarlo più.
Il carattere di Guglielmo intanto migliorava ogni giorno, il suo umore facendosi sempre più eguale; egli era costantemente tranquillo, sereno e non aveva più quelle ore di abbattimento, quelle collere nervose che, prima, lo rendevano talvolta insopportabile. Era sicuro di sè, felice, sorridente. Guardava Maria molto più che per l’addietro, la riceveva sempre bene ogniqualvolta entrasse, si mostrava sempre contento di vederla, e la povera fanciulla quasi, in cuor suo, benediceva la monomania che lo rendeva più affabile.
Non lavorando più egli era quasi in miseria, ma non se ne accorgeva punto. Il suo abito era lacero, tutto si faceva di giorno in giorno più scarso, mangiare diventava a poco a poco una cosa pressochè fantastica; – ma egli non si curava di tutto ciò. La sua immaginazione, solo nervosamente esaltata, diventava in realtà ogni giorno più sterile – e più la sua musica si faceva banale, più egli ne andava orgoglioso. In realtà il suo ingegno s’immiseriva e scemava, ed egli credeva che s’innalzasse trionfalmente.
Non sembrava possibile che resistesse alla vita che conduceva. Non usciva, quasi non mangiava, non si moveva, non si distraeva; stava continuamente seduto al cembalo, assorto in una beata ammirazione delle povere cose ch’uscivano dalla sua mente ammalata. Cominciava a trovar tutto bello intorno a sè, come trovava sublime la propria musica, e non avrebbe scambiato le nude pareti della sua cella con la seta ed il velluto d’una reggia.
Tutte queste sue illusioni andavano di giorno in giorno e fortemente aumentando. Quando la sua musica era veramente bella, i suoi nemici non potevano essere di buona fede, sprezzandola; ora l’avrebbero trovata brutta in coscienza! Forse avrebbero avuto soltanto compassione. Talvolta sonava e scriveva e tornava a scrivere ed a sonare e si estasiava su delle pagine nelle quali mancava quasi il senso, e gli parevano piene di fuoco e d’inspirazione le cose le più frivole e comuni. La voce stridula del suo vecchio cembalo scordato gli riusciva dolce ed armoniosa come quella d’un Erard affatto nuovo. Ed il mobile sdruscito e frusto gli sembrava rilucente e perfino, di tanto in tanto, come vagamente ornato qua e là e ricco d’intarsiature e d’intagli. Il cielo grigio gli pareva luminoso e se un tenue e smorto raggio di sole penetrava nel suo abituro, gli pareva che ogni angolo fosse vivamente rischiarato e che una luce quasi divina lo inondasse. Guardandosi nello specchio rotto che era presso al letto si trovava bello. La paglia delle sue sedie figurava nella sua immaginazione il raso e il damasco, le macchie dei muri erano dorature, le ragnatele erano trine. La sua fantasia riscaldata gli faceva intravedere vagamente grandi tende di mussola; ed un ammasso di vecchi libri e carte e cose senza nome rotte e gettate, accatastate in un angolo, erano per lui una ordinata piramide di oggetti d’arte, di carte rare e di ninnoli preziosi.
In mezzo a tali visioni, a così bizzarre allucinazioni non era da stupirsi se, come era per gli occhi suoi splendido il suo tugurio, fosse anche divina per le sue orecchie la sua musica, oramai pur troppo! debole e senza senso.
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Una mattina un raggio di sole veniva proprio a posarsi sul leggìo del povero artista. Una serenità felice ed una ebrezza gaia gli riempivano il cuore. D’improvviso, e forse per la prima volta dopo moltissimo tempo, la sua memoria si volse al passato e rammentò confusamente le dolci cose troppo presto obliate e i suoi sogni d’amore e le fanciulle traviste nelle sue visioni di poeta! Le prime brezze primaverili entravano per la stretta finestra. Si sentì scosso da un fremito dimenticato ed avvolto in una estasi nuova, una fiamma di quasi vera ispirazione lo invase tutto. La passione cantava nell’anima sua e chi lo avrebbe detto? per la prima volta, dopo molto tempo, fece uscire dal cembalo delle note degne dell’estinto suo ingegno. Le sue dita battevano come febbrilmente i tasti; non pensava a mettere in carta ciò che componeva, creava per sè stesso e non per gli altri.
Pure qualcuno ascoltava, tenendo il respiro. Senza che egli l’avesse udita, la Maria era penetrata nella stanza adagio adagio e beveva quei suoni in una estasi ignota, a bocca aperta, stupita, amorosa.
Era qualcosa che rassomigliava a un canto d’amore e al tempo stesso a un brindisi voluttuoso e guerresco. Tutta la foga della passione, da tanto tempo costretta ad assopirsi, tutti i desiderii repressi e l’ebrezze vinte scoppiavano in quei concenti, pieni di dolcezza ammalata e d’indomabile voluttà. Tutti gli amori sognati si rivelavano in quelle note; ed egli, pallido, agitato, delirante, era perfino bello in quell’istante di risveglio possente.
I suoni a poco a poco diminuirono e cessarono. Ed egli stette un istante, con un sorriso di strana beatitudine sulla bocca, con l’occhio infiammato, con la guancia lievemente colorita dall’entusiasmo, immobile e quasi inebriato....
Udì un sospiro dietro di sè, si voltò e vide Maria. La guardò lungamente e fisso.
Allora, come gli era apparsa splendida la sua stanza oscura, come gli era sembrata sublime la sua musica, vide la misera creatura sotto una luce nuova e visionaria; quei lineamenti contorti divennero per lui regolari, quelle spalle curve, cadenti e rotonde; quell’occhio incavato lo abbagliò, quel corpo gli si mostrò perfetto, quelle vesti lacere e disordinate, ricche ed eleganti.
Nella povera Maria, sempre sdegnata, della cui idolatria non si era mai accorto, travide la donna sognata mille volte e non trovava mai. Con lo sguardo acceso, col cuore palpitante, sentendosi per tutto il corpo un brivido arcano; non come se il suo sguardo si fosse falsato, ma come se un velo gli fosse tolto dagli occhi – cadde a’ piedi della fanciulla stupita e felice, e, come avrebbe detto ad una Venere fatta mortale che gli fosse sorta dinanzi, le disse, con un torrente di parole disordinate, tutto l’amore ch’era stato lungamente represso nel profondo dell’anima sua!
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Quando l’amico tornò a vedere Guglielmo, trovò la cella solitaria dell’artista trasformata in un nido. Egli aveva sposato Maria. La bontà e la felicità brillavano in lei attraverso alla bruttezza. Guglielmo, calmo, ordinato, curato maternamente dalla povera amante, era tranquillo e sereno, sebbene sempre allucinato.
L’amico, ch’è un po’ filosofo, pensa che il migliore augurio che si possa far loro, e il lettore si associerà certo a lui, è ch’egli abbia a ritrovare il suo ingegno e anche a guarire – ma non del tutto.