Kitabı oku: «First Italian Readings», sayfa 4
X.
VENI, VIDI… NON VICI!
—Ci si provò anche lei, eh,89 professore?
–Se mi provai?! E come… e come!
–Ottenne?—
Rise il professor Gianlucardi scotendo la testa: poi soggiunse:—Non me ne volevo mescolare, perchè sono faccende troppo delicate; ma quella povera madre così afflitta mi faceva compassione, e pregato e ripregato mi provai… ma… tanto è inutile, son cervellini, quelli, che non si raddirizzano.
–Crede lei, professore,—gli dissi,—che una seria educazione non possa....
–L'educazione…—interruppe con voce tonante il professor Gianlucardi che aveva il difetto d'interrompere sempre e quello di stemperare un'idea in un lago di parole:—l'educazione…—e continuò così a lungo che io credei volesse affogarmi in uno di quei trattati di educazione a regole stabilite, applicabili in tutti i casi, come le medicine delle quarte pagine dei giornali. Quando il professor Gianlucardi, pensai, sarà deputato, non starà in parlamento per alzarsi e rimettersi a sedere; ma chiederà spesso la parola, e se l'ottiene non la vorrà lasciare tanto per fretta; sarà più facile che i suoi colleghi lascino lui. Toltone, però, quei due difetti, il professor Gianlucardi è un fior di galantuomo e la perla degli insegnanti.
Esaurita la digressione sui vari modi pratici di educare, più o meno efficaci, si venne al fatto, il quale, in verità, è così meschinuccio per sè stesso che non merita le circonlocuzioni verbose del professor Gianlucardi, e si racconta in quattro parole. Ecco la cosa come sta.
Si trattava di convertire alla religione del dovere, e in conseguenza del buon senso, una scapatella di marchesina, sposa da poco tempo, che minacciava di abiurare e l'uno e l'altro. La madre si disperava: madre ottima, o meglio ottima donna, che aspettava sempre dall'alto un consiglio, un aiuto, e spesso anche il miracolo: era come quelli che a forza di guardare in su non guardano mai dove mettono i piedi. Rimase vedova presto la contessa Cecilia con quell'unica figlia, che fino dai primi anni prometteva molto per avvenenza, per astuzia, per vanità; e veniva su un maligno serpentello che dava da fare per quattro, e avrebbe dovuto anche dar pensiero per l'avvenire.
–Coi bambini non si ragiona,—diceva la contessa Cecilia;—quando la mia Albertina avrà qualche anno di più, avrà anche un diverso contegno.—E gli anni passavano e il contegno era diverso, ma in peggio; tantochè alcuni amici consigliarono la contessa Cecilia a mettere la figlia in convento: ma lei dichiarò che in convento non l'avrebbe messa mai, perchè non voleva, non poteva separarsi dalla figliuola.
–Quando prenderà marito diventerà più assennata,—concludeva la contessa Cecilia;—sì, bisogna maritarla presto:—e si consolava con quella speranza, e con incessanti preghiere a Dio e ai Santi che avrebbero mutata in meglio l'indole ribelle della sua Albertina. Infatti, presto fu sposa di un giovine elegante, un marchesino, a cui pareva mill'anni di prender moglie per uscir di pastoie,90 per aver più denari e potere scorrazzare per il mondo a suo talento, e darsi bel tempo.91
Da prima viaggiarono insieme: poi, nato che fu92 un bambino, si vedevano poco: lui faceva frequenti viaggi a Monte Carlo;93 lei faceva molto parlar di sè, tanto nelle feste di ballo e nei ritrovi del carnevale, quanto nei mesi delle bagnature, sfoggiando sempre gran copia di eleganti e ricchi abbigliamenti.
La contessa Cecilia era impensierita: andando di questo passo, quel povero bambino sarebbe diventato poco meno di un pezzente. Poi s'impensierì sempre più, perchè la sua Albertina aveva stretto amicizia con alcune giovani signore frivole, ch'ella non avrebbe mai creduto conducessero una vita sì scioperata. Eppure andavano alla messa tutte le feste e mezze feste! Chi se lo sarebbe mai aspettato? V'era poi una certa baronessa che si vantava di essere emancipata, si vestiva da uomo, andava a caccia, andava a cavallo, fumava, e si prendeva gran spasso,94 ogni anno d'autunno, in una sua villa, dove invitava per settimane intere le sue amiche intrinseche a darsi bel tempo con lei. Si parlava molto di queste villeggiature, e se ne parlava in cento modi: chi a mezz'aria95 scotendo la testa: chi sbraitando scandalizzato; e v'era pure chi sghignazzava: ma la contessa Cecilia non rideva davvero. Era uno scandalo, via: il decoro della famiglia ne pativa. Mille volte aveva consigliato la sua Albertina a ricusare gl'inviti della baronessa; mille volte l'aveva ammonita di sfuggire quell'intrinsichezza che non le faceva onore e che le sarebbe dannosa, ma era stato come predicare nel deserto.
Vedendo che nè consigli, nè ammonizioni o preghiere valevano, le venne in mente di ricorrere al professor Gianlucardi, al quale confidato che ebbe l'animo suo e sfogato le sue angustie, finì col dire:—bisogna addirittura che lei, professore, faccia di tutto perchè la mia Albertina non vada quest'anno a villeggiare dalla baronessa… non c'è che lei che possa persuaderla… e forse lei ci riuscirà… è stato suo maestro....—Benchè il professor Gianlucardi fosse stato il maestro di letteratura dell'Albertina, e anche ne avesse cantato gli sponsali in terza rima, pure non la vedeva spesso: la vedeva qualche volta in casa della contessa Cecilia, perchè, uomo alla buona com'era, nemico delle cerimonie, visite non le ne faceva. Ma ora non potendo esimersi dall'incombenza della contessa Cecilia, vinto dalle sue preghiere, impietosito dal suo rammarico, dovè promettere di andare sollecitamente dalla sua alunna di una volta.
–La signora è sempre in letto,—diceva un servo, quando il professor Gianlucardi, in un'ora che gli parve adattata alle visite, si presentò al palazzo della marchesa Albertina. Due giorni dopo vi tornò ed era uscita, un'altra volta non si sentiva bene e perciò non riceveva nessuno: e allora il professor Gianlucardi le scrisse due righe pregandola a indicargli in qual giorno e in quale ora avrebbe potuto parlarle.
Nell'ora e nel giorno indicati dall'Albertina, ecco che il professor Gianlucardi entra nel portone del palazzo; e salita l'ampia scala, trova un servo che gli fa strada96 per quattro salotti e poi lo fa passare in una gran sala, più che ammobiliata, ingombra di mobili, com'ei diceva, e posti così alla rinfusa e per tutti i versi, che a lui, poco pratico di salotti sul gusto moderno, parve di entrare nel magazzino ben fornito di un mercante di mobilia: e forse, in quel momento, pensò al suo salotto con quelle sei seggiole allineate alla parete, col canapè verde e accosto accosto il tavolino di ciliegio lucido come uno specchio. Il professor Gianlucardi, che è un omaccione alto e massiccio, non sapeva come rigirarsi tra tanta farragine di mobili, e per scansare una giardiniera inciampò in una causeuse e capovolse un pouff; molto più che le pesanti, ampie soprattende di stoffa damascata delle due finestre attenuavano anche troppo la luce in quella sala.
Una vocina garrula con delle note di riso frenato a stento, diede il ben arrivato al professor Gianlucardi, che aguzzando gli occhi vide laggiù all'estremo lato della sala, seduta sopra una poltroncina bassa, la sua antica scolara. L'Albertina gli fece festa97 e cominciò subito a discorrere fitto fitto, senza mai aspettar risposta, rammentando il tempo in cui era stato suo maestro.—Povero professore, quanta pazienza aveva con me! Si rammenta di quel giorno che mi sgridò tanto, e io mi provai a sgridare lei? Oh! ero proprio cattivuccia! E lei mi chiamava la sua alunna ribelle....—
E continuava a parlare sempre lei, e con tutte queste reminiscenze non riusciva al professor Gianlucardi, gran parlatore assuefatto a essere ascoltato, nè di manifestare lo scopo della sua visita, e nemmeno di deviare con qualche parola quel rapido fiumiciattolo di ciarla femminina. Finalmente potè accennare così alla spezzata quello che doveva dirle, e lei interrompendolo:
–Ho capito,—disse,—lei parla in nome della mamma che non vorrebbe che io andassi in villa dalla baronessa. Ma come si fa a ricusare? E che male c'è? Si sta così allegri, ci si diverte tanto! E poi la baronessa è così carina, così gentile con me che non potrei farle uno sgarbo. È un'idea storta della mamma, questa....—
Qui il professor Gianlucardi la interruppe coraggiosamente, e cominciava col suo vocione sonoro a entrare a vele spiegate nel mare magnum98 dell'eloquenza, quando ecco arrivare una signora a far visita; poi un'altra; poi due giovani eleganti, e finalmente due signore madre e figlia; e allora un ricambio di saluti, di baci, di strette di mano, di motteggi, di risa, e poi una conversazione ben nutrita sui fatti del giorno, sulle mode, sui teatri, e su cento scandalucci saporosi, indovinati più che detti.
Il professore Gianlucardi era sulle spine: non v'era rimedio: capiva che bisognava andarsene. Nell'atto di stringere la mano alla marchesina per accomiatarsi, le disse piano:—Posso portare alla contessa Cecilia la sua promessa che....
–No no; venga domattina alle dieci da me a far colazione, e riparleremo insieme di quello che vorrebbe la mamma… badi, professore, non manchi,… l'aspetto:—gli rispose con una grazietta che innamorava; e il professore se ne andò consolato, sperando bene.
Quando la mattina dopo alle dieci arrivò al palazzo, gli parve di udire nell'interno un certo via vai di servi, e nel cortile quel leggero scalpitio prolungato di cavalli che aspettano impazienti di moversi: poi udì varie voci allegre, e quando entrò nel cortile vide una lieta comitiva di signore e di signori a cavallo sul punto di partire, e tra questi primeggiavano, accanto, una bella donna ch'era la baronessa, e quella figuretta aggraziata dell'Albertina; la quale appena vide il professor Gianlucardi con quella cera stupefatta, spronò il cavallo, e seguìta dagli altri, partì di galoppo dando in uno scroscio squillante di risa.
–Dove vanno?—domandò il professore a un servo.
–Vanno tutti in villeggiatura con la signora baronessa:—rispose il servo.
–Non v'era da aspettarsi altro;—diceva a me il professore chiudendo il suo racconto;—ma confesso il vero, quella risata mi passò l'anima!99 Perciò affermo che l'educazione....
–Dica la verità, professore:—gli dissi (mi premeva di troncare il tèma solito)—lei credeva di fare come Cesare, veni, vidi…
–Pur troppo…—interruppe con un sospiro:—veni, vidi… non vici!—
ROSALIA PIATTI.
XI.
UNA NOTTE INFERNALE
FIGURIAMOCI tre piccole stazioni ferroviarie disposte nell'ordine seguente: X, Y, Z. Mi par già di sentirmi chiedere: o che100 si tratta d'una equazione a tre incognite? No, l'algebra non c'entra per nulla, ma quelle tre lettere opache fanno benissimo al caso mio.
È una sera d'agosto soffocante, burrascosa. La luna, cinta di vapori sanguigni, scende la curva dell'orizzonte; in fondo, verso il nord, spessi lampi fendono in tutti i sensi grandi masse di nuvole accavallate l'una sull'altra come montagne gigantesche. Il tuono romba sinistramente.
Il signor Cesare Favari, capostazione di Y, in maniche di camicia, senza cravatta e col colletto slacciato siede nel suo ufficio, davanti all'apparecchio telegrafico. Fu una cattiva giornata pel signor Cesare, il quale dovette supplire il telegrafista indisposto e non ebbe un momento di riposo. Ora bisogna notare che il signor Cesare è un'ottima persona, ma è un po' facile a turbarsi, a confondersi, sopratutto quando la sua degna consorte, la signora Arpalice, scende dal suo primo piano e viene a intrattenersi con lui. E oggi, per esempio, la signora Arpalice fece un lunghissimo soggiorno in ufficio. Adesso però, grazie al cielo, la signora Arpalice è a letto, e il signor Cesare pensa che potrà raggiungerla, appena siano passati i due treni 44 (proveniente da X) e 105 (proveniente da Z). Ma il diavolo ci ha messo la coda.101 Il treno 44 è in ritardo, ciocchè fa ritardare anche il treno 105 che suole scambiarsi col primo a Z. Sono le 11.
Finalmente la stazione di X dà segni di vita e annunzia telegraficamente la partenza del treno 44.
Quasi nel medesimo tempo giunge da Z un dispaccio di quel capostazione:
Se potete trattenere costì treno 44, spedisco treno 105.
Il signor Cesare si rende conto dell'impazienza dei viaggiatori del treno 105, e da quell'uomo102 compiacente ch'egli è 30 ritelegrafa subito:
Tratterrò treno 44. Spedite treno 105.
E dalla stazione di Z capita senza indugio un secondo telegramma:
Treno 105 partito.
–Fra pochi minuti saremo in quiete,—osserva il signor Cesare stropicciandosi le mani. Indossa in fretta la giubba, si allaccia il colletto, si rasciuga il sudore ed esce all'aria aperta.
Altro che quiete! Minaccia un temporale indiavolato, di quelli che sveglierebbero anche i morti. E la signora Arpalice ha tanta paura del fulmine! Anzi il signor Cesare si meraviglia ch'ella non si sia ancora affacciata sul pianerottolo della scala e non abbia chiamato con la sua voce di pentola fessa:—Cesare! Cesare!
Bartolommeo, l'inserviente della stazione, passeggia su e giù lungo il marciapiede della strada, portando in mano la lanterna che proietta davanti a sè una lunga striscia di luce rossa. Però al guizzo dei lampi la luce rossa impallidisce, e spicca invece la colossale figura di Bartolommeo che par veramente un uomo troppo grande per una stazione così piccola.
–Corpo dei sette fratelli Maccabei!103—brontola fra sè l'inserviente (è la sua esclamazione favorita).—Che tempo!
Infatti il tuono rumoreggia vicino, e il vento solleva turbini di polvere, investe fieramente gli alberi e arruffa i campi di biade. Non c'è in stazione nemmeno un viaggiatore. Chi deve moversi con una notte simile?
Il signor Cesare si accosta al suo subalterno, e gli dice:—I treni 44 e 105 si scambieranno qui.
–Come?—risponde Bartolommeo.—Ma il treno 44 non si ferma....
–Che un minuto, lo so. Vuol dire che stasera si fermerà fino all'arrivo del treno 105.
–Ma non si ferma affatto.
Bartolommeo è pazzo sicuramente, ciò che non impedisce al capostazione di sentir drizzarsi i capelli in testa.
–Imbecille!—grida quest'ultimo perdendo il sangue freddo tanto necessario.—Non s'è fermato anche iersera?
L'inserviente conserva la sua calma, ma sembra voglia adoperarla piuttosto a provar la verità delle sue asserzioni che a prevenire un disastro.—Fino a iersera si è fermato, ma oggi non si ferma più.
E riconducendo in stazione il signor Cesare inebetito, gli fa leggere un laconico avviso del seguente tenore: "A partire dal 5 agosto il treno 44 non si fermerà più alla stazione di Y. La Direzione."
–E oggi è il 5,—dice Bartolommeo.
Il capostazione se l'era dimenticato! Adesso egli comprende di che sbaglio si sia reso colpevole nel rispondere al suo collega di Z prima di assicurarsi s'era in tempo di fermare il treno 44; adesso vede tutto l'orrore della situazione, vede la catastrofe imminente, terribile.
–Ai segnali allora, ai segnali!—egli grida con voce troncata dalla commozione.—Ai segnali per arrestare il convoglio 44 che deve ormai esser vicino. Ma presto, per Dio!
E corse di nuovo sulla strada spingendo davanti a sè Bartolommeo che borbotta fra i denti:—Che brutta faccenda! Che brutta faccenda! Corpo dei sette fratelli Maccabei!
Proprio in quel momento un fischio acutissimo fende l'aria e il treno 44 passa davanti alla stazione con la rapidità di una freccia.
–Ferma! Ferma!—urlano il signor Cesare e Bartolommeo, come se la loro voce potesse giungere fino al macchinista, occupato soltanto dall'idea di riguadagnare il tempo perduto.
Il signor Cesare e Bartolommeo si guardano esterrefatti. È sogno? È realtà?
Il treno 44 e il treno 105, venendosi incontro sullo stesso binario con una velocità di oltre a 30 chilometri all'ora, non possono tardare a dar di cozzo l'uno nell'altro. Ancora due minuti, un minuto forse, e le due locomotive si urteranno, s'impenneranno, ansando, muggendo, sbuffando, e i due convogli, simili a due serpi immani abbracciati in un amplesso mortale, si stritoleranno a vicenda nelle spire poderose. Lo schianto del legno, il cigolio delle catene, lo scroscio dei vetri ridotti in frantumi, il gemito del vapore sprigionantesi da mille parti si mesceranno al grido d'angoscia che uscirà da cento petti, alle imprecazioni dei feriti, agli estremi aneliti dei moribondi.
E non si può far nulla, nulla!
Davanti a queste catastrofi repentine manca all'ingegno umano l'elemento ond'egli abbisogna per far valere le sue forze; gli manca il tempo. La fortuna ama coglierlo all'improvviso per soddisfare i suoi capricci spietati.
Sono scomparse l'ultime stelle, cominciano a cader grossi goccioloni di pioggia, il vento raddoppia di violenza, i lampi rischiarano di una luce rossa, sinistra, le due faccie livide, istupidite del capostazione e di Bartolommeo.
Quest'ultimo rientra in ufficio col capo basso, con le braccia penzoloni, agitando indolentemente la lanterna cieca che tiene in mano.
Dal pianerottolo si fa sentir la voce della signora Arpalice che sbigottita dal tempo cattivo chiama:—Cesare! Cesare!
Ma Cesare non risponde.
Egli s'è messo a correre all'impazzata nella direzione di Z. A che pro? Lo sa forse? Ha un'idea netta di ciò che fa?
La pioggia cade a torrenti, il rimbombo del tuono scuote la terra, l'impeto del vento schianta gli alberi, rovescia i pali del telegrafo, ma il signor Cesare non sente nulla, non si cura di nulla. Al guizzo dei lampi la lunga strada s'illumina d'una luce bianca, le guide di ferro scintillano, le pozze d'acqua mandano un barbaglio, le poche abitazioni sparse nella campagna emergono fuggevolmente dalle tenebre, mentre si vedono le alte cime dei pioppi chinarsi fin quasi al suolo e le masse dei carpini agitarsi disordinate.
Il signor Cesare corre, senza arrestarsi mai. Egli procede lungo le rotaie con la vaga speranza che un convoglio straordinario sopraggiunga, lo schiacci, lo annienti. Oh la morte, la suprema liberatrice! Vi sono istanti in cui anche i più codardi l'invocano. Sol ch'ella sapesse risolversi ad arrivare in tempo!
Dei dieci chilometri che dividono la stazione di Y da quella di Z il signor Cesare ne ha già percorso una terza parte. È strano. Ancora non si scorge nessuna traccia del disastro. Eppure, considerate tutte le circostanze di spazio o di tempo, lo scontro avrebbe dovuto succedere a meno di 3 chilometri da Y. Che il signor Cesare fosse vittima di un'illusione, che lo scambio dei telegrammi, che il passaggio del treno non fosse stato che un sogno di fantasia malata? No, no pur troppo. Quei telegrammi egli li ha davanti a sè in caratteri di fuoco, ha sempre negli occhi la visione di quel treno precipitoso, inesorabile, sordo alla sua voce, lugubremente deciso a perire.
E allora? Sarà più in là,104 sarà dopo quella casa cantoniera105 dove la strada fa una svolta a sinistra.
Avanti, avanti! Il disgraziato capostazione s'affretta ancora, raggiunge la casa cantoniera, supera la svolta della strada. Nulla. Nulla, fuorchè il bagliore dei lampi che rischiara per un lungo tratto di via il binario deserto.
Ma il signor Cesare non ne trae argomento a sperare. Nello stato d'animo in cui si trova, lo turba, lo irrita quasi di non aver la prova materiale della catastrofe che deve essere accaduta, che non può non essere accaduta.
E gli sembra che la sorte sia doppiamente crudele nel prolungare le sue incertezze.
Lo assale un altro dubbio. Se, nel moversi da Y avesse preso la direzione opposta a quella che voleva prendere? No, nemmen questo è possibile. Egli conosce la via, e i numeri delle case cantoniere gli provano che non s'è sbagliato.
Potrebbe bussare ad un uscio, ma non osa. Una forza irresistibile lo spinge avanti. E poi quelle case sono ermeticamente chiuse, hanno l'aspetto di tombe. O tutti i cantonieri sono accorsi sul luogo del disastro, o nel terrore di quella notte d'inferno hanno dimenticato che deve passare ancora un treno, il treno 105.
Da quanto tempo sia in cammino, il signor Cesare non lo sa. Sa che non può arrestarsi quantunque le vesti inzuppate d'acqua inceppino i suoi movimenti, quantunque i suoi piedi indolenziti si sprofondino nel fango, e senta un formicolio per tutte le membra, e il cuore gli batta con violenza come se volesse frangerglisi in petto.
È incespicato due volte, e s'è rialzato, ha perduto il berretto e non s'è dato il pensiero di raccoglierlo. Procede a testa scoperta coi capelli incollati sulle tempie, con le orecchie tese, con gli occhi intenti nel buio. Infatti i lampi vanno via facendosi più radi. Anche la pioggia è meno dirotta, anche il vento è meno impetuoso.
L'idea d'essere in preda ad un'allucinazione torna ad affacciarsi alla mente del nostro Cesare. Però questa idea gliene suscita un'altra che gli gela il sangue. Sarebbe egli impazzito?
Ah!… Non è inganno questa volta. In fondo tremola qualche lume, si agita qualche ombra. Ancora pochi passi, e chi sa quale scena d'orrore!
Dalla stessa parte ove brillano i lumi si innalza un segnale.—La strada è libera? chiede il segnale nel suo muto linguaggio.
Di lì a poco, nella direzione di Y, un altro segnale risponde.—È libera.
Allora si sente un fischio, e due occhi di fuoco106 sboccano dalle tenebre, e la terra oscilla sotto il peso d'un convoglio che viene.
In quel momento l'istinto della vita riprende il disopra nell'animo dell'infelice che poco prima anelava di morire. Egli esce dalle rotaie: poi le forze gli mancano ed egli cade privo di sensi sul margine della strada. Il treno gli passa rasente.
* * *
La mattina dopo, il signor Cesare si sveglia nel letto del capostazione di Z, che gli spiega per quale miracolo si sia evitata una catastrofe.
Il treno 105 era realmente partito, ma la bufera che imperversava sgomentò il macchinista, il quale credette opportuno di retrocedere e ripararsi sotto la tettoia. Vi si trovava da pochi minuti quando con maraviglia universale giunse il treno 44. Non accadde uno scontro nella stazione perchè il convoglio 105 si trovava sul binario di scambio. Il macchinista del 44 dichiarò di non aver veduto nessun segnale che gli ordinasse di fermarsi. Ciò fece sorgere il dubbio di qualche disordine alla stazione di Y. Si corse al telegrafo, ma il temporale aveva rotto i fili. E d'altra parte l'impeto del vento non consentì per due buone ore di alzare nessun segnale. Appena fu possibile di assicurarsi in questo modo che la strada era sgombra, il treno 105 si mosse. Ed era appunto il treno 105 quello che aveva quasi investito il signor Cesare. In quanto a lui, lo si era raccolto svenuto a mezzo chilometro dalla stazione di Z.
Una febbre violenta tenne per qualche giorno sospeso il povero uomo tra la vita e la morte. Si riebbe alla fine, ma il ricordo di quella notte infernale non gli permise più di continuare il suo servizio. Chiese la sua pensione e si ritirò in un poderetto di sua moglie, lontano dalla linea ferroviaria. E in istrada ferrata non viaggia mai, e non vuol sentirne a parlare, e la vista di due rotaie basta a turbarlo per una settimana.
ENRICO CASTELNUOVO.