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XII.
UN NAUFRAGIO
CI trovavamo (quindici o venti passeggieri di prima classe) sul ponte d'uno de' più bei piroscafi del Florio, durante la traversata da Livorno a Genova.
Il sole era appena tramontato, ma l'occidente era ancora pieno di luce; spirava una brezza tepida e soave. Gli uomini fumavano; le signore contemplavano il cielo lontano e il mare tranquillo; due sposi si guardavano teneramente negli occhi.
Qualcheduno ebbe la malaugurata idea di parlare d'un sinistro marittimo successo pochi giorni prima nella Manica. Un signore ufficioso soggiunse:—Ho qui in tasca un giornale francese pieno di particolari strazianti.
Da due o tre parti si cominciò a dire:—Legga, legga.—E il signore ufficioso non si fece pregare, e spiegando il foglio lesse una diffusa descrizione del lugubre fatto, il quale può riassumersi in brevi parole. Nel cuor della notte, a cinque o sei miglia da Douvres, un vapore mercantile inglese aveva squarciato il fianco d'un vapore tedesco carico d'emigrati e lo aveva mandato a picco107 in meno d'un quarto d'ora. Su seicento persone se n'erano salvate centocinquanta al più. Erano perite intere famiglie. Il vapore inglese, dopo aver messo in mare le imbarcazioni e aver raccolto quanti più naufraghi avea potuto, era stato costretto a riparare in un porto molto malconcio. S'era aperta una delle solite inchieste.
A questa lettura tennero dietro i commenti che parevano non voler più finire.
–Che tragedia!
–Ma! Pare impossibile che con un po' di prudenza non si debbano evitare simili disgrazie.
–Ci sono pericoli tanto in terra quanto in mare.
–A pensarci su troppo non ci si muoverebbe mai di casa.
–Eh, anche in casa i guai ci capiterebbero addosso quando meno ce li aspettassimo.
–Una buona dose di fatalismo è indispensabile nella vita.
Queste profonde considerazioni furono interrotte da un viaggiatore nervoso il quale disse:—Non si potrebbe mutar discorso?
–Sì, sì,—risposero parecchi.—Parliamo di cose allegre.
* * *
Però, quando, per un motivo qualunque, un argomento riesce a produrre una viva impressione, è difficilissimo di attaccarne un altro. Così avvenne quel dopopranzo. La conversazione generale languì e non tardò a cessare affatto. Si formarono invece dei piccoli crocchi, e si potrebbe giurare che in ciascuno di essi si continuava a parlare della catastrofe successa nella Manica. Se ne parlava certo nel mio crocchio.
Eravamo in cinque; io, i due sposi novelli a cui accennai in principio, e due signori di mezza età, tutte conoscenze fatte alla tavola rotonda dell'albergo di Livorno. I due sposi erano siciliani e facevano il loro viaggio di nozze. Il marito mi aveva consegnato il suo viglietto da visita su cui era scritto:—Avvocato Camillo Riani.
La sposa apparteneva a una famiglia di negozianti oriundi francesi, ma stabiliti da un paio di generazioni a Messina. Si chiamava Maria.
Ben di rado m'era successo d'incontrare una così bella coppia. Egli bruno, occhi neri ed espressivi, folta e nerissima barba; ella con capelli tra il biondo ed il castagno, carnagione bianca, pupille del color del mare, denti candidi come l'avorio.
A veder questi due giovani (e non avevano fra tutti e due quarant'anni) si capiva l'amore in ciò ch'esso ha di più intimo e di più squisito, un amore pieno di ingenuità e di freschezza, non isguaiato, non isvenevole, ma troppo intenso e gagliardo da poter nascondersi sotto il manto dell'indifferenza: un amore insomma che tutti vorrebbero provare e inspirare e che desta nell'anima di chi n'è semplice spettatore un'invidia scevra d'acrimonia, una simpatia scevra d'indiscrezione.
Si continuava dunque a parlar tra noi dello scontro fatale de' due vapori, a compianger le vittime, a commiserare i superstiti.
–Senza dubbio,—disse la signora,—tra i superstiti ci son molti più disgraziati che tra le vittime. Son quasi da invidiare le famiglie che perirono intiere. Ma sopravvivere alle persone amate, essere in salvo e non veder più intorno a sè i propri cari! In simili casi io supplicherei il mio salvatore di lasciarmi morire.
–Siete avvertiti,—disse il marito gestendo animatamente e adoperando il voi secondo l'usanza meridionale.—Se questa notte il nostro vapore andasse a fondo e non poteste trarre a riva anche me, non v'incaricate di mia moglie.
–No sicuro,—ella rispose con enfasi.
–Purtroppo,—egli soggiunse nello stesso tuono scherzevole,—purtroppo io sarò tra i primi ad affogare. Non so tenermi a galla un minuto.
Era ormai buio e ci disponemmo a scender sotto coperta.
In quel punto notai che il cielo non era più sereno come un quarto d'ora addietro; in fondo, dalla parte della costa tirrena c'erano alcune nuvole e di tratto in tratto lampeggiava. Forse per effetto dei discorsi tenuti sino allora, quella vista mi fece una certa impressione che però mi guardai bene dal108 comunicare a' miei compagni i quali non s'erano nemmeno accorti del cambiamento successo nell'atmosfera. Tuttavia, preso in disparte un marinaio, gli chiesi sottovoce:—Avremo burrasca?
Il marinaio, che non era un miracolo di cortesia, si strinse nelle spalle,109 nè io potei capire se la mia domanda gli sembrasse ridicola o se realmente egli non fosse in grado di far pronostici.
La sala di prima classe era quasi piena. Una signora francese, seduta davanti al pianoforte, sonava a memoria alcuni notturni di Chopin, incoraggiata dalle sommesse approvazioni di dieci o dodici uditori di buona volontà; i posti intorno alla tavola erano in gran parte occupati. Due uomini maturi giocavano a scacchi, i coniugi Riani sfogliavano i giornali illustrati mentr'egli cingeva amorosamente col braccio la vita di lei; un signore calvo che aveva l'aria d'un colonnello in pensione consultava l'Indicatore generale delle ferrovie e dei piroscafi; una zitellona scriveva qualche nota nel suo taccuino. Finalmente, davanti a sette tazze di tè e sette piattini di sandwiches, sedevano con molta gravità sette Inglesi tra maschi e femmine, così somiglianti fra loro che le femmine si distinguevano dai maschi soltanto per merito dei vestiti. Essi mangiavano i sandwiches e sorseggiavano il tè con la regolarità d'una compagnia di soldati che fa l'esercizio,110 e quando il più anziano fra loro, certo il capo della famiglia, diceva qualche parola, gli altri rispondevano in coro: yes… o yes… indeed.
Appena la signora francese ebbe finito di suonare, un giovine, che aveva una vocina simpatica di tenore, e che seppi essere un negoziante di Bologna, cantò una graziosa romanza intitolata: Sognai; dopodichè molti si ritirarono nelle loro cabine e non rimasero in sala che quelli i quali avevano intenzione di passarvi la notte. Fra i primi ad andarsene furono i signori Riani che mi salutarono con molta cordialità. In quel momento la sposa mi parve più bella che mai.
* * *
Trattandosi d'una sola notte non m'ero fatto dare una cabina neppur io: m'ero scelto invece un buon posto sul divano e vi avevo deposto il mio plaid e il mio mantello per acquistarmi quello che i giureconsulti chiamano diritto d'usucapione.
Prima di coricarmi risalii sopra coperta affine di vedere lo stato del cielo. Non erano successe notevoli variazioni; però le nuvole s'erano avanzate alquanto sull'orizzonte e lampeggiava con maggiore frequenza. Anche il rullio del piroscafo era divenuto più sensibile.
Comunque sia, io non tardai a sdraiarmi sul divano col mio plaid arrotolato sotto il capo e il mio soprabito sui piedi. Quattro o cinque passeggieri erano già addormentati; il tenorino russava profondamente poco distante da me.
Un marinaio spense tutti i lumi meno uno.
Rimasi alcuni minuti supino con gli occhi aperti ascoltando con curiosità i vari rumori del piroscafo in movimento, i colpi secchi e regolari dell'elice, l'ansar della macchina, lo scricchiolio dello scafo, il tintinnio dei vetri, il sordo borbottare dell'acqua che spumeggia rabbiosa lungo la carena. Alla fine la stanchezza mi vinse, sentii un gran peso alle palpebre e pigliai sonno.
Non so per quanto tempo dormissi; so che uno scroscio violento, uno strepito di cristalli infranti mi fece sbarrar gli occhi spaventato. E al fioco raggio del lume che ardeva ancora vidi ogni cosa traballare intorno a me, e altre figure sonnacchiose come la mia sollevarsi a mezzo sul divano e guardarsi in giro atterrite. Una campana che suonava a distesa ci avvertì di un pericolo imminente; urli disperati si alzarono da ogni parte. Qualcheduno disse:—Tutti sopra coperta, tutti sopra coperta.—Mezzo svestito com'ero mi precipitai verso la scaletta ove s'accalcavano uomini in camicia, donne scapigliate, discinte, alcune delle quali si trascinavano dietro o tenevano in collo dei bambini quasi ignudi, cascanti dal sonno. E chi gridava, e chi piangeva, e chi si raccomandava al Signore, e chi bestemmiava, e chi domandava con piglio istupidito:—Cos'è? Cos'è stato?111
Delle torcie a vento accese sul ponte rischiaravano il lugubre spettacolo. Il cielo era nuvoloso e solcato da spessi lampi; ma con mio stupore il mare si conservava abbastanza tranquillo, nè io sapevo rendermi conto di ciò che era avvenuto. C'eravamo scontrati con un altro vapore? Avevamo urtato contro uno scoglio? Mistero.
Certo si è che il capitano con aspetto risoluto, ma bianco come un lenzuolo, circondato da una dozzina di marinai, gridava con voce stentorea:—Subito le lancie in mare.—Riuscii a farmi strada fino a lui e a chiedergli di che si trattasse. Egli mi guardò con un sorriso che mi rimescolò il sangue e rispose freddamente:—Il vapore ha investito in un banco e sarà sommerso in venti minuti. Se i passeggieri avranno giudizio, è sperabile di salvarne due terzi.
–E l'altro terzo?
Il capitano tornò a sorridere: poi mi disse:—Nell'altro terzo ci sarò anch'io.
E si voltò a dar de' nuovi ordini.
La folla cresceva, cresceva. E cresceva lo schiamazzo e la confusione. Tutti facevano ressa dalla parte ove erano state calate le prime imbarcazioni; tutti volevano esser tra i primi a discendere.
* * *
Vidi il capitano avanzarsi con un revolver in mano verso alcuni de' più riottosi.
–Chi disubbidisce lo uccido,—egli disse con un piglio che non lasciava il minimo dubbio sulla sincerità delle sue intenzioni.
–Non ci sta più nessuno,—si gridò da una delle lancie.
–Prendete il largo,112—ordinò il capitano.
–Prendete il largo,—egli ripetè voltandosi fieramente e puntando la pistola contro un tale che voleva opporsi.
Non pochi intanto, o pazzi, o disperati, o impazienti, s'erano gettati in mare, sia nel desiderio di finirla più presto, sia nella speranza di esser raccolti da un'imbarcazione o di guadagnar a nuoto la riva.
Avrei forse potuto cacciarmi avanti, scendere anch'io in una lancia, ma lasciavo passare gli altri, non per magnanimità, non per disamore della vita, ma per accidia, per una specie di fatalismo, o, meglio ancora, per una fiacchezza generale di tutte le membra, aggiunta a un'ansia affannosa, a un'oppressione di respiro che mi teneva inchiodato al mio posto e mi annodava la lingua.
Come si può ben credere, i passeggeri delle varie classi erano mescolati insieme, e in mezzo alla calca io non vedevo più nessuno dei compagni di viaggio con cui avevo chiacchierato piacevolmente nelle prime ore del tragitto. O forse li vedevo senza riconoscerli, tanto le fisonomie eran contratte dal terrore, tanto gli atteggiamenti erano strani, tanto era grande il disordine dei vestiti, seppur la parola vestito poteva applicarsi a quelle camicie cascanti, a quelle sottane male allacciate, a quei mantelli gettati sulle spalle come vien viene.113
Io pensavo agli sposi Riani, pensavo ai discorsi che essi avevano fatto nel dopopranzo, quasi avessero avuto un presentimento di ciò che doveva succedere. E chiedevo a me stesso: Dove saranno? Saranno ancora a bordo? Saranno in un'imbarcazione? Saranno affogati?
Ed ecco da due voci ad un punto sento pronunziato il mio nome. Erano dessi, marito e moglie, distanti pochi passi da me, immobili, addossati ad un argano. Si tenevano per mano. Così giovani, così belli, parevano rassegnati a morire. Perchè è destino che nella vita ci sia una vena di comico anche nelle cose più tragiche, io mi vergognai in quel momento d'essere senza cravatta davanti a una signora la quale non avea che uno sciallo sopra la camicia. Tuttavia questo scrupolo balordo non fece che attraversarmi la mente, e avvicinatomi ai due sposi, dissi loro:—Forse c'è ancora tempo. Moviamoci. Tentiamo.
Appena proferite queste parole, una manovra mal riuscita fece piegar d'improvviso il vapore sul fianco; un urlo spaventevole salì al cielo, fui travolto da una ondata di gente e balzato nell'acqua. Altri molti eran precipitati con me e si dibattevano disperatamente; al bagliore d'un lampo scorsi fra quelli i due Riani già presso a sommergersi. Abile nuotatore, arrivai in un attimo a loro. Il Riani ebbe il tempo di dirmi: salvatela, e si svincolò a forza dalla sua donna che gridava:—No, Camillo, Camillo… non voglio esser salvata… Camillo.
Allorchè ella non vide più il suo sposo, allorchè ebbe la certezza ch'egli era stato ingoiato dalle onde, chiuse gli occhi e svenne. E nuotavo, nuotavo vigorosamente per raggiungere una lancia che non era molto lontana, e già stavo per toccare la meta, quando la giovane riavendosi, e guardandomi in atto supplichevole:—No,—disse,—no… per amor di Dio, non mi salvate… lasciatemi morire....
E poichè io non badavo alle sue parole ella fece uno sforzo sovrumano per liberarsi da me. Nella lotta che ne seguì, un'onda passò sul capo di entrambi, e mentre io mi agitavo per tornare a galla, il corpo svelto e flessuoso di Maria sguizzò dalle mie braccia.
* * *
Quand'io rimisi la testa fuori dell'acqua ero solo. L'istinto della vita prevalse a ogni altro sentimento, e dopo aver pensato invano alla salvezza altrui pensai alla mia. In due nuotate fui presso alla lancia da cui veniva un gridio confuso: gemiti di donne, pianti di fanciulli, voci iraconde o pietose che dicevano:
–Non c'è più posto.
–Si rischia di capovolgersi.
–Uno ci può stare ancora.
–No, no.
–Ce ne possono star due.
–Neppur uno, neppur uno.
–Ma sì, abbiate carità.
In mezzo a questo tramestio, due braccia nerborute mi presero per di sotto le ascelle e mi trassero nella barca ove mi trovai pigiato, compresso in quell'informe catasta di carne umana.
–Basta adesso, per Dio,—si urlò rabbiosamente.
E i più furibondi strapparono i remi dalle mani dei marinai per respingere i nuovi naufraghi che tentavano d'accostarsi.
–Presto, presto,—gridò colui che sedeva al timone,—allontaniamoci prima che il vapore si sommerga e formi il vortice.
I marinai si misero a vogare con quanta lena avevano, ma fosse il peso della barca, fosse la corrente contraria, noi facevamo ben poco cammino. E intanto a qualche centinaio di metri da noi il vapore andava a grado a grado sprofondandosi nell'acqua. Era uno spettacolo che agghiacciava il sangue nelle vene. Al lume delle fiaccole, che, come torcie funerarie, ardevano ancora sulla coperta, noi vedevamo un brulichio di figure umane. Erano i disgraziati che non avevano potuto riparare in nessuna imbarcazione. Chi correva come un pazzo da poppa a prora e da prora a poppa, chi s'aggrappava alle catene e alle funi, chi s'arrampicava sulle antenne, chi stava rannicchiato sui pennoni guardando stupidamente in giù. A un tratto il movimento di discesa si fece rapidissimo, si spensero i fanali e le torcie, e la nave s'inabissò in mezzo a un gorgoglio spaventevole. Il vortice tanto temuto ci raggiunse, ci avviluppò nelle sue spire; la barca girò ripetutamente sopra sè stessa, i remi andarono in pezzi, il timone si ruppe, fummo tratti a capofitto come lungo l'arco d'una cascata, e il mare parve sul punto di chiudersi sopra di noi. Nello spasimo di quella suprema agonia il nodo che mi serrava la gola si sciolse, misi un grido acuto, e…
–Signore, signore,—disse qualcheduno vicino a me scotendomi forte per una spalla,—signore, si svegli.
* * *
Apersi gli occhi (bisogna ritenere che fino allora avessi soltanto creduto di aprirli) e mi trovai sul divano in una posizione disagiatissima.
Quegli che mi scuoteva per la spalla era il negoziante bolognese che la sera innanzi aveva cantato in chiave di tenore.
–Ma come?—balbettai confuso.—Dove siamo?
–Per bacco! Sul vapore… e già vicini a Genova.... Ella deve aver sognato qualche cosa d'orribile.
–Come lo sa?
–Sfido io. Ha messo un grido straziante che ci ha svegliati tutti.
E, invero, gli altri viaggiatori che avevano passato la notte nella sala comune mi guardavano con aria inquieta e disgustata. Scommetterei che a più d'uno era balenata l'idea ch'io non avessi il cervello a segno.114
–Sì, sì,—risposi mogio mogio, alzandomi a sedere sul divano,—mi pareva che facessimo naufragio.
–Corbezzoli! Meno male che non era che un sogno.... Però il sogno della mia romanza era più innocente. Se ne ricorda?
–Sicuro.
–Io ho una gran passione per la musica,—continuò il mio espansivo interlocutore,—e credo che se avessi potuto andar sul teatro, avrei fatto una discreta carriera.
–Senza dubbio, senza dubbio,—replicai distratto.
Mi pareva mill'anni115 di prender una boccata d'aria libera, e rivestitomi alla meglio salii sopra coperta ove c'erano già alcune persone più mattiniere di me.
La coppia Riani mi venne incontro.
–Noi abbiamo veduto spuntare il sole,—mi disse la signora. E soggiunse con entusiasmo:—C'erano alcune nubi, e il sole le ha spazzate via tutte. Con questo tempo il viaggio per mare è delizioso.
–E voi come avete dormito?—mi chiese l'avvocato Camillo.
–Se sapeste!—risposi.—Sognai che andavamo a picco.
–Nientemeno?—proruppe la signora ridendo e mostrando la doppia fila de' suoi bianchissimi denti.
–Curioso fenomeno i sogni!—io ripigliai.—Mi pareva così vero, così vero.
–E noi due che fine si faceva?… Via, raccontateci.
In quel momento il vapore imboccava il porto di Genova.—No, no,—diss'io,—piuttosto che sentir raccontare un brutto sogno, guardate questa bella realtà.... Guardi, signora Maria, guardi le colline liguri, guardi la Lanterna, guardi la città che biancheggia laggiù in fondo.... Non è vero ch'è una vista magnifica?
–Sì, avete ragione.... Oh Camillo!—esclamò la giovine, posando la testa sulla spalla di suo marito in uno di quegli slanci di tenerezza che lo spettacolo delle cose belle desta nei cuori gentili.
I due sposi non badavano più a me. Io mi ritirai in disparte a pensare al mio sogno.
ENRICO CASTELNUOVO.
XIII.
IL MAESTRO DI CALLIGRAFIA
IN un istituto scolastico di una città del mondo gli studenti dell'ultimo corso erano occupati nella prova scritta dell'esame di letteratura. La cosidetta sorveglianza era affidata al signor Antonino Bottaro, vecchio professore di calligrafia, che stava per abbandonare la scuola ed andare in pensione.116 Sorveglianza alla prova scritta vuol dir questo. Un professore, che non è quello della materia su cui si fa l'esame, rimane nella stanza, ove gli esaminandi lavorano, e invigila affinchè essi non si copino i temi a vicenda, non consultino libri, non si passino carte, ecc. ecc. Naturalmente, finchè non si adotti per l'esame il sistema cellulare, tutta questa roba si fa lo stesso in barba al117 signor professore. Figuriamoci che cosa avviene, quando il sorvegliante è il professore Bottaro, vittima della scolaresca a due titoli; primo, perchè è il professore di calligrafia, secondo, perchè è un pan di zucchero.118 Nei trent'anni dacchè egli insegnava le leggi della scrittura posata, corsiva, rotonda e gotica con ispeciali applicazioni alla burocrazia ed al commercio, gliene erano toccate d'ogni maniera.119 Non passava giorno senza che un monello di scolare gli appiccicasse un codino di carta al bavero del vestito, o segnasse col gesso la sua caricatura sulla tavola nera. Una volta gli si erano messe due ova in cappello tanto da far nascere una frittata al suo coprirsi nell'uscir dalla scuola; un altro giorno si era spalmato di pece il cuscino della poltrona, ov'egli andava a sedersi per correggere gli elaborati. Non parliamo dei suoni infinitamente varii che rallegravano la sua lezione. Mentr'egli si chinava sul quaderno d'uno studente, dall'estremo opposto della panca sorgeva come un miagolio di gatta in amore; egli volgeva lo sguardo da quella parte, ed ecco venir dal fondo come un tubar di colomba o come un trillo acuto di gallo mattiniero: Chichirichì. Il professore rosso come un gambero correva allora verso la cattedra gridando: Or ora faccio una nota a tutti—ed ecco un silenzio sepolcrale seguito da un rumore che simulava il vento e che cominciava lieve lieve per diventar poi gagliardo e impetuoso e perdersi via via in un gemito impercettibile, come la marcia turca di Beethoven.
Il signor Antonino faceva la nota a tutti, ma prima del termine della lezione la scancellava dopo essersi fatto promettere dai ragazzi che la lezione successiva sarebbero stati buoni come agnellini.
Nè da' suoi colleghi il signor Antonino riceveva segni di particolare deferenza. Sgarbi non gliene facevano sicuramente, ma in fin dei conti,120 al professor di calligrafia chi ci bada? Nelle conferenze, il Preside, il professore di matematica, il professore di belle lettere, il professore di fisica discorrevano tutti con grande prosopopea; anche il cancelliere voleva dire la sua opinione, ma il professore Antonino o121 poteva egli avere un'opinione? E quando si trattava di dar le classificazioni finali, se il signor Antonino si lagnava di qualche studente (ed era assai raro che se ne lagnasse) se diceva che il tale non aveva mai scritto una riga durante l'anno, gli altri scrollavano le spalle con impazienza, come a dire: seccatore! smetta! Terminato l'anno scolastico molti professori ricevevano visite dagli alunni, complimenti dai genitori, elogi dai preposti all'Istituto; e ora a questo, ora a quello pioveva dall'alto una croce, ma quanto a lui, al calligrafo, chi lo prendeva sul serio? Non era forse celebre la sua soprascritta a una lettera, che cominciava: All'pregiatissimo? Appena due o tre giovinetti di cuor più tenero degli altri, rammentandosi del grave travaglio che gli avevan dato durante l'anno, gli movevano incontro con viso tra compunto e faceto e dicevano:—Scusi, sa,122 signor professore, se non fummo sempre tranquilli come avremmo dovuto essere. Egli s'inteneriva subito e diceva:—Ohibò… ohibò!… Loro123… voi altri siete stati buoni,… lo so io quelli che erano i cattivi soggetti… basta… basta… adesso si va in vacanza… a far provvista di giudizio, non è vero… eh?
E dava loro un pizzicotto alla guancia.
L'anno nuovo poi ricominciava la medesima storia.
Eppure, malgrado tutto, il professore Antonino non sapeva viver lontano dalla sua scuola. Le vacanze erano per lui una penitenza. Tutta la sua famiglia si riduceva a una sorella nubile più vecchia di lui, sorda e bisbetica, che lo tormentava senza posa affinchè egli domandasse la sua pensione.—Ma—soggiungeva la signora Bettina, che non era un'aquila—ma devi volere la pensione intiera secondo il sistema vecchio, non la pensione di cinque sesti come dànno adesso. Tu sei entrato col sistema vecchio e hai diritto di esser trattato con quello. Capisci, babbuino?
Che sua sorella gli desse del124 babbuino non era alla fin dei conti una cosa che facesse un gran senso al povero professore; tanto e tanto un po' babbuino egli sentiva di essere. Quello che non sapeva perdonare alla rispettabile donzella si era ch'ella tirasse giù a campane doppie contro125 la scolaresca. E questo livore non era nemmeno cagionato dagli sgarbi che usavano a suo fratello, ma perchè un giorno, essendo passata vicino al portone della scuola in un momento che gli studenti ne uscivano, la ragazzaglia, com'ella la chiamava, s'era messa a gridare dietro a squarciagola: bella! bella! bella!
La signora Bettina non aveva mai perdonato alla scolaresca questo affronto, nè a suo fratello l'indifferenza con la quale egli ne aveva accolto l'annunzio. Ella che avrebbe voluto un'espulsione in massa! Ella che sarebbe andata in persona dal Preside, se non fosse stata la paura di scontrarsi nuovamente con quei cattivi soggetti!
–Già—brontolava la bisbetica donna—quando si ha la disgrazia di non aver uomini in casa ma pecore (ho detto pecore), non si può nemmeno arrischiarsi di uscire. C'è da far le maraviglie126 davvero se sono rimasta zitella? Chi viene da te? Ove mi conduci? Almeno se tu lascierai quella maledetta scuola, beninteso con la tua pensione intiera, potrai pensare un poco a tua sorella.
Il professore Antonino ci pativa a sentir questi discorsi, e l'idea di condurre a passeggio sua sorella gli metteva i brividi addosso.127 Egli non era elegante. Il suo cilindro con un dito di unto, il suo soprabito spelato rispondevano appieno alla sua posizione sociale di pubblico insegnante, ma in fin dei conti egli non aveva un cappello cremisi con piume verdi, nè due ricciolini neri fatti a forma di punto interrogativo ornavano le sue tempie. Dimodochè, anche nelle vacanze, egli trovava mille occupazioni immaginarie per esimersi quanto più spesso gli fosse possibile dall'ufficio di cavaliere servente di madamigella Bettina. Piuttosto, dando fondo a tutti i suoi risparmi, egli si rassegnava a mandarla a sue spese dal 15 settembre al 15 ottobre d'ogni anno presso una famiglia di conoscenti che villeggiava a breve distanza dalla città. Ella ci andava un po' a malincuore, quasi facendo un atto di degnazione, perchè si trattava di gente inferiore a lei per educazione; figuratevi, eran le nipoti di un salumaio arricchito; a ogni modo ci andava in vista dell'aria che serviva a calmare i suoi nervi. Poveretta! Era stata sempre così sensitiva.
Intanto il professore passava la giornata a desiderare la riapertura della scuola. Quando aveva dato da mangiare al canarino, quando aveva temperato la penna d'oca con cui teneva dietro assiduamente a tutti i progressi della scrittura gotica e rotonda (pel corsivo aveva accettato la penna di ferro), egli non trovava miglior partito di quello d'andare all'Istituto e di spender due ore nella stanzuccia del signor Bartolommeo, il vecchio bidello. Il signor Bartolommeo era anch'egli un po' brontolone come la signora Bettina, si lagnava del Governo, del Consiglio provinciale, del Municipio, del Preside, dei professori, del cancelliere, degli scolari. Ma sopratutto si lagnava della signora Elena, la moglie del Preside, ch'egli aveva visto nascere di povera gente e andar per le strade quasi quasi a raccattar carta, e che ora aveva messo boria e non si degnava nemmeno di salutarlo. Il professore Antonino non sapeva dar tutti i torti al buon Bartolommeo; anch'egli soffriva parte delle umiliazioni che toccavano al bidello, anch'egli aveva notato l'albagia della signora Elena che pareva fargli una grazia a ricambiar con un cenno del capo i suoi umilissimi inchini, ma d'altra parte si adoperava a gettar acqua nel fuoco, a raccomandare al signor Bartolommeo la calma, la pazienza; col ripetere l'antico adagio—Chi ha più giudizio lo adoperi.... Anch'io se volessi badare a tutto… non solo qui a scuola… ma anche con quella benedetta donna di mia sorella… buonissima creatura del resto… ah! insomma tutti abbiamo le nostre.128
E chiudeva la sua perorazione coll'offrire al signor Bartolommeo una presa di tabacco.
Poi faceva i conti sui giorni che mancavano a riaprire la scuola. E pensava ai suoi colleghi, che non avevano mai l'abitudine di tornare dalla campagna fino a dieci o dodici giorni più tardi del necessario, e pensava a' suoi scolari, furfanti, ma buoni diavoli.
Figuriamoci se nel giorno di cui parliamo egli non abbia mille cose che lo molestino. Quella mattina stessa, cedendo alle istanze della sorella, egli aveva consegnato al Preside la sua domanda pel collocamento a riposo,129 pregandolo che la facesse pervenire al Governo. Nè la pensione poteva essergli negata, perchè egli aveva tutti i titoli per ottenerla, s'intende nella misura fissata dalla legge, non già in quella pretesa dalla signora Bettina; onde questo era l'ultimo anno che egli esercitava le sue funzioni di professore, e la sorveglianza della quale oggi egli veniva pregato era uno degli ultimi incarichi del suo ufficio.
Il Preside, esternando il suo rammarico per la risoluzione del professore Antonino, gli aveva detto con una gentilezza insolita:—Senza complimenti, professore, se egli non ha voglia di stare in classe tutt'oggi, incarico un altro. Lei ha lavorato pe' suoi giorni abbastanza.
–Oh, cavaliere, le pare?… Anzi… se si tratta di servirla, di essere utile alla scuola… anche dopo… oh per me già ho sempre voluto un gran bene a quest'Istituto.
–Lo so, lo so, professore.
–Troppo buono, cavaliere.... E se ho mancato… non fu per cattiva volontà.
–Mancato?… Oh mi meraviglio, professore. Così fossero130 tutti.
E il cavaliere Preside gli aveva stretto la mano.
Il professore di calligrafia aveva il cuore gonfio dalla commozione.
–Ho mal giudicato anche il Preside,—egli diceva fra sè,—degnissima persona.... Ma! E mi tocca lasciar tutta questa gente che mi vuol bene!
Con che fatica il nostro Antonino tratteneva le lagrime!
E con queste disposizioni d'animo egli era sceso in classe, ove si raccoglievano i suoi persecutori ordinari, umili quel giorno e contriti per l'idea dell'esame, con queste disposizioni aveva inteso dal Preside dettare il tema della prova in iscritto, un tema così difficile, così difficile. Poveri ragazzi! O se avesse potuto far lui l'elaborato per tutti! Ma sì! Non ne capiva nemmeno il titolo. Gran disgrazia essere asini!
Intanto quelle fronti giovanili si corrugavano, quegli occhi per solito così gai si mettevano a guardare in alto, come chiedendo l'ispirazione alle ragnatele del soffitto, quelle labbra vermiglie ordinariamente disposte al sorriso si contraevano con uno sforzo penoso, e le mani avvezze a tante piccole furfanterie andavano ravvolgendosi nei capelli.
A poco a poco, prima l'uno e poi l'altro, i ragazzi uscirono dallo stato contemplativo, tirarono fuori i libri che non dovevano avere, consultarono i quaderni che dovevano aver lasciati a casa, e finalmente si accinsero a scrivere. Di lì a una mezz'ora si udiva il suono uniforme delle penne di ferro che correvano sulla carta.