Kitabı oku: «First Italian Readings», sayfa 7

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La mensa, composta di pochi amici, fu lieta, espansiva, cordiale. Si parlò dapprima del passato, dei compagni dell'infanzia, poi si passò a ragionare degli avvenimenti politici, delle fortune d'Italia e della grandezza di Roma, e tutti invidiavano la sorte di Sandrino che coll'influenza dello zio avrebbe preso un bel posto nella vita pubblica. A tali discorsi Annina abbassava gli occhi, e soffocava i sospiri.

Il ministro colla sua abitudine d'osservazione sorprese più volte lo scambio degli sguardi fra Sandrino e l'Annina, e non tardò molto a penetrare il mistero del loro amore.

Alla sera fu illuminato il villaggio, e vennero slanciati dei fuochi d'artificio, che a giudizio dei più vecchi non s'erano mai veduti.

Finalmente, prima d'andare a letto, il ministro disse al fratello:

–Domani parleremo dell'avvenire di Sandrino: sono deciso di condurlo a Roma, ma prima voglio intendermela145 con lui. Domattina lo chiamerò per tempo nella mia stanza, voglio dargli una buona lezione! La nostra gioventù perde la bussola, io lo metterò sulla buona strada. Intanto felice notte.

I circostanti risposero:—Felice notte, buon riposo,—e se ne andarono a letto, tutti contenti e pieni di speranze per l'avvenire… meno l'Annina.

*   *   *

All'indomani per tempo, il ministro, come aveva promesso, fece chiamare Sandrino, e, fattoselo sedere dirimpetto, gli disse:

–Dimmi francamente, vieni a Roma volontieri?

–Io, sì, s'immagini!—rispose freddamente il giovane.

–E che cosa vuoi fare a Roma?—soggiunse lo zio.—Credi forse di venir a fumare il sigaro tutto il giorno pel corso,146 di fare all'amore con tutte le belle, e di giuocare al bigliardo?

–Nemmeno per sogno,—saltò su a dire il ragazzo;—vengo per lavorare sul serio, per farmi una posizione!

–Una posizione! ma che posizione vuoi farti? Tu non vuoi certamente che ti dia un incarico che non meriti, tu non pretendi che io metta alla porta uno de' miei impiegati per farti sedere al suo posto. Tu devi ben sapere che queste cose non si fanno, nè si possono fare checchè ne dicano i giornali d'opposizione. Ove diavolo147 intendi dunque di andarti a nicchiare?

–Ma!—rispose l'altro, restando colla bocca aperta, e guardando il soffitto.

Suo zio lo esaminava attentamente, poi continuò:

–Facciamo una supposizione: supponi di entrare in un ministero come applicato di terza classe, a che cosa speri di pervenire?

–Che so io!… non me ne intendo.

–Te lo dirò apertamente. In capo a vent'anni di lavori forzati tu non guadagnerai tanto da mantenere la famiglia. Avrai passato i più begli anni della vita nell'aria viziata d'una camera, seduto ad ore fisse sopra un duro sedile, sotto la sorveglianza di un usciere. Oh, la bella vita!

–E il babbo che s'immagina che con la vostra influenza io possa correre una brillante carriera....

–Ebbene, egli ha torto; ma supponiamo per un momento che egli abbia ragione, supponiamo pure che tu sia un ingegno superiore, di quelli che si fanno largo dappertutto; che s'impongono al governo con un'attitudine rara, con servigi esuberanti; supponiamo che la fortuna ti sorrida, e che tu possa diventare Prefetto di Napoli, Senatore e Ministro! Ebbene, sei contento? spero che non vorrai ambire un posto più alto! ebbene, mio caro amico, io ti compiango in anticipazione, perchè tu sarai sempre infelice!

"Ascoltami giovinotto, la vita pubblica è un aspro cammino, pieno di rovi e di sterpi, è una lotta continua che consuma le forze, inaridisce il cuore, distrugge le intime affezioni, condanna all'adulazione degli ingrati, e ci procura l'odio e le maledizioni degli ambiziosi delusi, degli avari disingannati, degl'imbroglioni smascherati ed offesi. Bisogna camminare ogni giorno faticosamente nel fango delle umane passioni, e calpestare dei serpenti!

"Ah, mi dirai che ci sono i gran giorni, i tripudi della gloria, le soddisfazioni del potere, la fama che vola. Ah, amico mio, tutte queste cose non valgono i beni perduti… la libertà… l'amore… la scienza… la vita insomma colle sue burrasche, ma colle sue bonaccie, colle sue gioie tranquille, serene, nel seno della famiglia!

"La mia generazione ha dovuto subir tutto per fare l'Italia; la nostra vita era consacrata a questa idea: si voleva vincere o morire, e ne valeva la pena, perchè un popolo schiavo non è che un vile branco d'animali. Abbiamo vinto, coll'aiuto di Dio, e malgrado tutte le nostre sciocchezze, ora l'Italia è fatta, e voi fortunati che non avete che a conservarla e farla migliore! Ora non è nei banchi dei ministeri che si farà prosperare l'Italia, ma bensì colle cure della vita privata, migliorando l'agricoltura, le industrie, le arti, il commercio, creando delle famiglie oneste, colte, operose, lavorando ciascheduno al proprio posto, pel bene di tutti. Se il dovere ci chiama a servire pubblicamente il paese, non è lecito rifiutarsi, bisogna concorrere in tutti a sopportare certi incarichi noiosi ma indispensabili, ma bisogna giudicare queste funzioni come un peso necessario, non come una scala dell'ambizione o dell'interesse. Questo è lo scopo che devono prefiggersi i galantuomini che non hanno bisogno del pane del governo, e fortunati loro e la patria se vogliono intenderla. In quanto a te, mio Sandrino, vuoi che ti dica francamente che cosa io farei, se fossi al tuo posto? Vorrei sposare l'Annina, formare una buona famiglia, migliorare i miei campi, e servire il paese raddoppiando i prodotti del suolo. La vita sociale bene intesa, non deve contrariare gl'istinti, ma secondarli. Nella scelta dello stato non dobbiamo consultare l'ambizione, ma le nostre naturali inclinazioni, che, coltivate a dovere, daranno utili risultati. Da tale condotta derivano la fortuna e la felicità. Tu che le hai sulla porta, non andare a cercarle da lontano. Ami l'Annina; è una buona e bella ragazza; devi sposarla, e sarete felici."

–Ma chi le ha detto, caro zio, che amo l'Annina?

–Nessuno. Se me l'avessero detto, potrei dubitarne; ma l'ho veduto co' miei occhi, e m'inganno di raro. Vuoi negare che l'ami?

–Non posso negarlo, ma che cosa direbbe mio padre, se rovesciassi tutto il suo piano sul mio avvenire?

–Come tutti gli uomini semplici, tuo padre è felice senza saperlo; tocca a me illuminarlo, e non mi sarà difficile di convincerlo che fu sempre più felice di suo fratello ministro!

–Dunque non avete più l'intenzione di condurmi a Roma?

–Anzi domani partiamo. Anche coloro che servono il paese restando sotto al tetto che li vide nascere, devono visitare l'Italia. È così bella, e poi conoscere la patria è un dovere per chi può farlo, ed è una scuola che può sempre servire. E poi vedrai quello che non conosci, avrai tempo di meditare la grave questione della scelta dello stato, e fra un mese potrai scegliere fra un impiego, o un bel regalo di nozze per la sposa. Accetti la mia proposta?

Sandrino gettò le braccia al collo di suo zio… e all'indomani partirono. Un mese dopo Sandrino ritornava al suo villaggio con un magnifico presente dello zio ministro all'Annina, che col pieno consenso paterno diventava sua sposa. Era beato d'aver veduto Roma… e d'essere tornato a casa, e si mise sul serio ad utilizzare i suoi studi di naturalista diventando un ottimo agricoltore.

Lo zio gli scrisse ultimamente da Roma una lunga lettera, che si può compendiare in queste poche parole: "Apparecchiami l'appartamento verso le colline. Finalmente posso anch'io ritirarmi dalla vita pubblica, e voglio finire i miei giorni nella pace del mio villaggio, in seno d'una famiglia felice."

ANTONIO CACCIANIGA.

XV.
LA MIA PADRONA DI CASA

NON posso pensare a Firenze, senza ricordarmi della mia buona padrona di casa di via dei –, la quale m'insegnò in sei mesi più lingua italiana di quanto io n'abbia imparata in dieci anni da tutti i miei professori di letteratura, nati, come diceva l'Alfieri,148 là dove Italia boreal diventa.

Era una vecchietta simpatica, vedova d'un interprete di albergo, buona come il pane, fiorentina fin nel bianco degli occhi, operosa, assestata e pulita come un'Olandese. Viveva d'una piccola rendita e di quel po' che guadagnava tenendo dozzina.149 Leggicchiava, giocava al lotto, faceva qualche visita, e passava quasi sempre la sera, sola come uno sparago, in un cantuccio della sua piccola camera ingombra di mobili vecchi, vicino a una finestra, dalla quale si vedeva, di là dai tetti di molte case, la cima del campanile di Giotto.150

Che cos'è questo benedetto parlare toscano! Era una povera donna, non aveva cultura, sapeva appena leggere e scrivere; ma parlava da far rimanere a bocca aperta. E non il fiorentino volgare, perchè non ho mai inteso dalla sua bocca una parola o una frase che una signora non potesse ripetere in conversazione. Il suo parlare era tutto frasi efficacissime, immagini, proverbi, diminutivi graziosi, vezzi e fiori di lingua, che venivan via facili e fitti ad ogni proposito, come nei novellieri trecentisti, senza che le sfuggisse mai neppure un lampo di quel sorriso leggerissimo che per il solito tradisce la compiacenza intima di chi sa di parlar bene.

Ogni momento gliene sentivo dire una nuova.

Stentavo un po' a infilare il soprabito: essa mi diceva: Ma perchè non se lo fa allargare che le è stretto assaettato?

Entravo nella sua camera:—Badi,—mi diceva,—di non inciampare, perchè è buio come in gola.

Veniva un amico a chiedermi dei denari; essa capiva, e mi domandava:—Le è venuto a dare una frecciata, non è vero?

Diceva che il suo predicatore aveva la parola facile e ornata; che il lattaio aveva la voce come uno di questi cani incimurriti e fiochi che non posson più abbaiare; che erano tre giorni che non vedeva più l'effige dello spazzaturaio che pure le aveva promesso di venire; che il bambino della vicina aveva rotto un vetro, e suo padre non se ne era anche accorto, ma il poverino stava già rannicchiato dietro l'uscio ad aspettare il lampo e la saetta; che il mio maestro di spagnuolo aveva un vestito che gli piangeva addosso; che con tutte queste guerre che si fanno dopo che Pio IX151 ha date le su' riforme bisogna sempre stare palpitando per i nostri cari; che un tale ch'era caduto dal secondo piano, e non era morto, aveva il sopravvivolo come i gatti; che un certo quadro pareva fatto coll'alito; che a una certa sua amica, in una certa congiuntura, essa aveva parlato come al cospetto di Dio, da cuore a cuore; e altre espressioni gentili ed argute, che a scriverle tutte, ci sarebbe da fare un vocabolario.

Però, quando s'accorgeva ch'io mi divertiva a farla parlare, taceva tutt'a un tratto e mi guardava con aria di diffidenza. Temeva che io la volessi canzonare. Anzi, qualche volta, quando mi lasciavo sfuggire un'esclamazione di meraviglia, quasi s'indispettiva.

–Oh insomma,—mi disse un giorno,—io parlo come so. Se dico degli spropositi, m'insegni lei a parlar meglio. Io non ho mai preteso di parlar bene.

–Ma no, cara signora,—le risposi coll'accento della più profonda sincerità.—Le giuro che ammiro davvero la sua maniera di parlare, che vorrei parlare io come lei, che vorrei saper scrivere come lei parla. Che c'è da stupirsi? Non lo sa che i fiorentini parlano meglio degli italiani delle altre provincie? Non l'ha mai inteso dire? Mi piace sentir parlare l'italiano da lei come mi piacerebbe sentir parlare il francese da un parigino. Mi piace perchè lei parla con naturalezza, perchè pronunzia bene, perchè io imparo. Ne vuole una prova? Guardi questi fogli.

E le misi sott'occhio alcuni fogli sui quali avevo notato una lunga filza dei suoi modi di dire.

Guardò, sorrise, poi sospettò daccapo e mi disse che non sapeva capire che cosa io trovassi di particolare in quelle parole.—Qualunque mercatino,—soggiunse,—è in caso di dirgliele tali e quali.

Nondimeno, a poco a poco, finì per persuadersi che mi divertivo davvero a sentirla parlare perchè parlava bene.

Ma trovavo sempre mille difficoltà a farmi capire quando volevo saper qualche cosa di preciso in fatto di lingua.—Come direbbe lei,—le domandavo,—per dire che piove forte?—Gua!—mi rispondeva,—direi che piove forte.—Io ripetevo la domanda in un'altra forma.—Ah! ho capito!—esclamava.—Chi si volesse spiegare in un'altra maniera potrebbe anco dire che piove a rovescio, a catinelle; a orciuoli, a ciel rotto; ognuno può dire come gli piace, non c'è regola fissa.

Un giorno le diedi un mio libro.—L'ha scritto lei?—mi domandò.—Sì,—risposi.—Tutto di suo pugno?—Tutto di mio pugno.—Lo tenne due o tre giorni e vidi che lo leggeva. Quando me lo restituì, mi disse:—Bravo! mi son divertita; si vede che è un buon figliuolo. E poi mi piacque anche lo stile.

A poco a poco mi prese a voler bene, mi parlava lungamente della buon'anima di suo marito, delle sue amiche, del caro dei viveri, delle tasse, del lotto, dei suoi malanni, della religione, sempre colla stessa grazia e colla stessa dolcezza. Ma specialmente quando parlava della sua disgrazia d'esser rimasta sola al mondo e diceva che la notte, non potendo dormire, pensava, pensava, fin che si metteva a piangere, aveva parole così dolci, così schiette, così poetiche, che mi stringeva il cuore, e nello stesso tempo provavo una specie di voluttà artistica a sentirla. Mentre essa parlava la sua bella lingua, io, appoggiato alla finestra della sua cameretta guardavo il campanile di Giotto dorato dalla luce del tramonto, e provavo uno struggimento d'amore per Firenze.

Una sera, ch'ero già a letto, s'affacciò alla porta e disse con voce commossa:—Ah! figliuol mio! bisogna proprio credere, sa, che c'è un Dio! Questa sera il predicatore ha detto che tutti i grandi uomini ci hanno creduto,—e Dante e Galileo e Colombo,—ne avrà citati più di cinquanta. E ha conciato per le feste152 quelli che dicono che il mondo l'ha fatto il caso! Il caso! E dire che son gente che ha studiato! Io che sono una povera donna capisco che è una corbelleria. Se lo studio non dovesse portare altri frutti! Ma lei, benchè studi, non le pensa queste cose, non è vero, figliuolo? Dica un po': ci crede lei al caso?

–No, cara padrona,—le risposi;—io credo in Dio.

–Oh lei non può immaginare la consolazione che mi dà con codeste parole,—rispose la buona donna.

La notte, mentre lavoravo a tavolino, a una cert'ora sentivo picchiare nel muro e poi una voce insonnita che diceva:

–Non lavori più, figliuolo; s'abbia riguardo agli occhi.

Ed io:—Ancora una pagina.

–Nemmeno una pagina. Si ricordi del proverbio: È meglio un… cavallino vivo che un dottore morto.

Passava un altro quarto d'ora e lei daccapo:

–A letto, a letto, figliuolo.

–Padrona,—domandavo io,—com'è quel proverbio di Berto, che m'ha detto stamani? Ne ho bisogno per scriverlo.

–Berto,—rispondeva,—che dava a mangiare le pesche per vendere i noccioli. Vada a letto.

–Ancora una cosa. Come si chiama il bastone d'Arlecchino?

–Non mi cava più una parola, nemmeno se mi fa regina di Spagna.

E non diceva più una parola davvero e io andavo a dormire.

La mattina per tempo, appena svegliato, risentivo la sua voce:—Su, su! È un sereno che smaglia. Vada a fare un giro alle Cascine!153

Una sera tornai a casa pieno di malinconia e mi buttai sul sofà senza dire una parola. Essa mi venne accanto. Duravo fatica a trattenere le lagrime. Mi domandò che cos'avessi. Non volevo rispondere. Insistette, e allora le apersi il mio cuore come a un amico.

–Ho avuto un dispiacere,—le dissi.—Ho saputo che l'altro giorno, in una casa, hanno detto che i miei scritti sono noiosi e che non farò mai nulla di buono. Io ne sono persuaso e non ho più voglia di studiare. Voglio buttar nel fuoco tutti i miei libri e tornare a fare il soldato. Sono triste, scoraggito e annoiato della vita. Non m'importerebbe nulla di morire.

La buona donna si sforzò di ridere; ma era intenerita. Cercò di consolarmi e di rimettermi di buon umore; chiamò a raccolta tutti i suoi frizzi, le sue frasi e i suoi proverbi; mi assicurò che i miei libri erano pieni di bei concetti e che avrebbe voluto saperli scrivere lei; mi promise che sarei riuscito un bravissimo scienziato a dispetto dei maligni; mi disse che avrebbe voluto trovarsi faccia a faccia con chi aveva sparlato di me, per fargli una risciaquata che non trovasse più la via di tornarsene a casa; mi fece bere un dito di vin Santo, mi diede del ragazzo, mi picchiò sotto il mento e gridò:—Su la testa!—Infine mi lasciò rasserenato, dicendo che se le facevo un'altra volta una di quelle scene, il pezzo più grosso che sarebbe rimasto di me, aveva da essere un orecchio, com'è vero che c'è tanto di Biancone in piazza della Signoria.154

Qualche volta però ci bisticciavamo, per cose da nulla, si intende; per esempio perchè tornavo a casa tardi, e lei mi trovava a ridire, ed io le rispondevo di mala grazia. Allora stavamo una mezza giornata senza scambiare una parola. La sera poi, pensando ch'essa era là in un cantuccio della sua camera, sola, malinconica, al buio, mi pigliava il rimorso, correvo all'uscio e le domandavo per il buco della serratura:—Padrona, come è quel detto di Cimabue che mi disse ier l'altro?

–Cimabue che conosceva l'ortica al tasto,—rispondeva con una voce in cui si sentiva un'improvvisa contentezza.

–Mi perdona?—le domandavo.

–Oh buon figliuolo!—rispondeva;—perdoni lei a me, che sono una brontolona e una zotica. Ma veda: glielo dico per il su' bene che non venga a casa tardi perchè… io non ho mica il diritto di impicciarmi nella sua condotta… si capisce… ma ho notato che tutte le sere che viene a casa tardi, e non studia più, la mattina dopo è di malumore.

–Ha ragione, padrona, ha ragione! Apra la porta, e facciamo pace.

Essa apriva la porta e non faceva mai in tempo a levarsi il fazzoletto dagli occhi.

Così passarono sei mesi.

Un giorno, dopo una settimana intera di preparativi e di esitazioni, mi feci forza e le dissi, guardandola fisso negli occhi:

–Padrona, io debbo partire da Firenze.

–Dove va?

–A casa mia.

–Va bene. Io terrò le sue camere libere per quando tornerà. Può lasciar qui libri, quadri, carte, come le lascerebbe alla sua famiglia. Prima che ritorni farò mettere la stufa, compererò un altro seggiolone e se mi salta il ticchio farò cambiare la tappezzeria al salotto. E passeremo il nostro invernetto insieme d'amore e d'accordo, lei a studiare ed io a fare le mie faccenduole. Ah! vedo che almeno negli ultimi anni della mia vita avrò qualche consolazione. Quando tornerà?

–Cara padrona… non glielo posso dire.

–Che forse non tornerebbe più?—domandò col viso alterato.

–Forse non tornerò più!

Stette qualche momento senza parlare e poi esclamò con voce tremante:—Ma dunque io resterò sola!…

E tacque di nuovo come per sentir l'eco di quella triste parola.

Poi nascose il viso nel grembiale e diede in uno scoppio di pianto.

M'aiutò a fare i miei bauli, volle riporre tutti i libri colle sue mani, non mi lasciò più un momento fino all'ora della partenza. L'ultima notte, verso le undici, mentre scrivevo, picchiò ancora una volta nella parete e mi pregò di avermi riguardo agli occhi. La mattina seguente, quando partii, mi accompagnò fin sul pianerottolo e mi disse colla solita dolcezza:—Lei se ne torna colla sua famiglia; io, povera vecchia, rimango sola. Si ricordi qualche volta di me che le volevo bene come a un figliuolo. Abbia giudizio; continui a studiare e sarà contento. Mentre viaggerà in Spagna e in Francia, io guarderò il suo ritratto, leggerò i suoi libri e pregherò il Signore per lei. Quando morirò, lei si ricorderà che le ho voluto bene e piangerà, non è vero? Ed ora vada, figliuolo, che è tardi; e Dio l'accompagni!

Le diedi un bacio e discesi per le scale. La povera donna mi mandò ancora un addio rotto da un singhiozzo e poi rientrò nella sua casa vuota e triste.

Oh buona e cara vecchia! se mi son ricordato di te! In viaggio, ogni volta che ho passata la notte a scrivere in una camera d'albergo, allo scoccare delle undici ho detto tra me, con tristezza:—Oh! se sentissi picchiare nel muro, quanto lavorerei più volentieri!—Ogni volta che scrivo, e rileggendo la mia prosa, la trovo scolorita e senza grazia, dico con rammarico:—Ah! quanto ci corre da155 quest'italiano a quello della mia padrona di casa!—La sera, quando la mia famiglia è raccolta intorno al fuoco, e tutti ridono e lavorano, io penso col cuore stretto che tu sei sola nella tua stanza, forse al freddo e al buio, perchè la legna e l'olio sono rincarati. E non mi si presenta mai l'immagine della mia cara Firenze, senza ch'io goda in fondo all'anima pensando che un giorno forse vi tornerò, che andrò a cercarti, che ti troverò ancora, che mi rimetterò a imparare da te la lingua armoniosa e gentile con cui mi rallegravi e mi davi coraggio.

EDMONDO DE AMICIS.
145.intendermela, to have an understanding.
146.corso, name of the principal street of Rome.
147.Ove diavolo, Where in the world.
148.l'Alfieri. Vittorio Alfieri (1749-1803) was the most famous Italian poet of his age; his reputation rests chiefly on his tragedies.
149.tenendo dozzina, by taking roomers.
150.campanile di Giotto. The bell tower of the cathedral at Florence was designed and begun by Giotto (1276-1336), who has been called the father of modern Italian art.
151.Pio IX. Pius IX. was pope from 1846 to 1878.
152.ha conciato per le feste, he held up to censure.
153.Cascine, the park of Florence, so called from having been part of a former dairy-farm (cascina, a dairy or pasture ground).
154.piazza della Signoria, the central square of Florence.—tanto di Biancone (biancone, a person extremely pale or white) probably alludes to a huge statue of Neptune in the square.
155.quanto ci corre da, how much inferior is.