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Kitabı oku: «La vita Italiana nel Risorgimento (1849-1861), parte II», sayfa 5

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Intanto le brigate che avevano combattuto a Milazzo e le divisioni di Türr e di Bixio che avevano girato largo nell'isola, marciavano a posarsi tra Catania e Messina.

E allora egli si pianta alla Torre del Faro. Lì incomincia il maraviglioso. Fa armar coi cannoni di Milazzo quel promontorio di sabbie, raccoglie là intorno un centinaio di barche, e la notte dell'8 di agosto fa tentar il passaggio dal Musolino calabrese, cui dà compagni Missori, il più elegante dei suoi cavalieri, e Alberto Mario, il più gentile e altero de' suoi pensatori. Passarono quegli audaci, e poterono toccar l'altra sponda, tentarono di sorprendere il fortino Cavallo ma vi fallirono, e dovettero rifugiarsi in alto dov'è Aspromonte, nome d'altri luoghi allora vago nelle epopee cavalleresche, ma che, come se fosse predestinato, doveva entrare tragico nella storia, due anni appresso. Bisognava aiutarli. La notte dell'11 il Dittatore fece passare quattrocento uomini su di una flottiglia di barche. Le conduceva il Castiglia.

Vogarono nelle tenebre. A mezzo il Canale, furono scoperte e cannoneggiate dalla Fulminante e dal Fieramosca che ivi incrociavano, e dovettero tornar al Faro. Ciò per Garibaldi non volle dir nulla. Egli non presumeva certo di conquistar la costa della Calabria con sì poche braccia; ma quello cui mirava gli seguiva, perchè con quei tentativi e col tutto insieme delle mostre che faceva dal Faro a Messina, metteva nella mente del nemico e vi fissava l'idea folle, che lì proprio, tra il Faro e Scilla, ei volesse trovar il punto al gran passo. E lo credevano già anche i suoi. Senonchè la notte del 12 agosto egli disparve. Lo indovinarono il mattino appresso tutti gli accampamenti garibaldini; sentirono che egli non c'era più, perchè parve mancasse qualcosa nell'aria che ivi si respirava.

Dov'era? Già di là in Calabria? O era andato a Torino a parlar con Vittorio? Mistero! Ma egli era già in Sardegna, nel Golfo degli Aranci; v'aveva presi e fatti suoi, proprio da Dittatore, gli ottomila volontari che il Bertani, il Nicotera e il Pianciani v'avevano raccolti per gettarli nel Pontificio. E di là, data un'occhiata alla sua casetta di Caprera, li imbarcò e se li condusse a Palermo. Indi girata l'isola torno torno sino a capo Passaro e a Taormina, la notte del diciannove vi pigliò Bixio con i suoi, tagliò il Jonio, afferrò Melito tra Spartivento e Capo dell'Armi, sì gettò a terra con quattromila camicie rosse, e allora, giungessero pure le navi borboniche; anzi, eccole lì! Giungono l'Aquila e la Fulminante! Si sfoghino a bombardare il vapore Torino, ma la sorte di Napoli ora l'ha in mano Lui.

Rapido come vento, assale Reggio all'alba del 21 e se la piglia. Manda al Cosenz che passi dal Faro a Scilla, e Cosenz, come se l'ordine fosse incanto, passa lo Stretto nella notte tra il 21 e il 22! Così i generali borbonici Briganti e Melendezi co' loro 9000 soldati, chiusi tra i Garibaldini, il mare e i monti, dovettero mettere giù le armi o perire. E si arrendono. Ma che fare di quei prigionieri? Garibaldi spira su di essi una sola parola: se ne vadano alle loro case, per ora non sono più soldati di nessuno.

Allora cominciò lo sfacelo dei Regi, la guerra divenne una marcia militare di un esercito che s'avanzava e di uno che indietreggiava o fuggiva. E quali memorie a ogni passo! Ah! qui all'Angitola erano stati spenti i Musolino come i Fabi a Cremera. Qui avevano combattuto Domenico Romeo e i suoi: qui ecco il Pizzo, povero Murat! ecco il vallo di Crati, divini i Bandiera! Presto si vedrà la terra che bevve il sangue di Pisacane.

Cede il generale Vial a Monteleone, dove, se il povero Francesco II avesse avuto un po' di cuore da soldato, sarebbe corso da Napoli per morirvi, o in quel passo terribile far morire chi voleva scoronarlo. Cede il generale Ghio a Soveria Manelli, dove alla sola apparizione di Garibaldi sfuma via come nebbia una divisione. Il Dittatore andava avanti ormai da sè. Le sue divisioni camminavano ancora a gran giornate per la Calabria, ed egli era già in quel di Salerno. Che faranno i 40,000 Borbonici che campeggiano là tra Salerno e Avellino? Si scioglieranno da sè anch'essi! Era fatale. La gran figura del Dittatore pare spiri innanzi a sè un vento che tutto sperde. E il 5 settembre in Napoli, anche Francesco II deliberava la ritirata oltre il Volturno, dando le poste per colà a tutti i fedeli piccoli e grandi. Il giorno appresso quel misero Re, con la superba e bellissima Regina s'imbarcavano per Gaeta sulla Partenope, scortati da due navi da guerra spagnole, perchè della flotta napoletana nessun altro legno volle seguirli.

Ora Garibaldi è alle porte. Da Vietri per la strada ferrata a Salerno e a Napoli, al mezzodì del 7 con il Bertani, il Cosenz, il Nullo, e due ufficiali, scende alla stazione, ricevuto dal ministro del Re di ieri. Monta in carrozza e via, al tocco, senz'altra scorta che quei suoi cinque, entra nella città, tra la folla che proprio fuori di sè dalla gioia stipa le vie. Passa dinanzi al forte di Castelnuovo, da dove la sentinella borbonica col picchetto di guardia gli presenta le armi. Oh se quei soldati, avessero osato far fuoco su quella carrozza, ed Egli fosse rimasto morto! Chi appende a fili così tenui le sorti delle genti? Si cura Iddio delle cose nostre, o dà talora a certi uomini qualche suo attributo? E la storia, superba, come si troverebbe a rispondere a chi la interrogasse così? Garibaldi era un'idea, l'incantatore passò, e il plebiscito vero che si fece poi, era già fatto idealmente quel giorno.

Ora non alla Reggia egli va, ma al Palazzo del Governo, e vi si mette da padrone: e di lì, tre ore appresso, decreta che la flotta napoletana passi all'Ammiraglio di Vittorio Emanuele. Era troppo! E troppo avrebbe poi dovuto la Monarchia a Garibaldi. Gli uomini che ne facevano la politica, tra grandi e piccini, lo sentirono tutti.

E perchè Garibaldi aveva osato, bisognava loro osare come lui: onde da Torino alle grandi cose di Napoli rispondeva com'eco la deliberazione di entrar nelle Marche e nell'Umbria, con un esercito del Re. Allora il Cavour trasse il dado.

Avvenisse ciò che potesse, rompesse pur l'Austria dal quadrilatero; alla disperata, nel nome di Garibaldi e di Mazzini, il Cavour era uomo da incendiar mezza Europa.

E l'osare fu premiato, perchè di quei giorni Russia e Prussia in un convegno a Varsavia accettavano anch'esse la politica del non intervento bandita da Napoleone e dall'Inghilterra: il mondo intero pareva convinto ormai che un popolo da cui venivano date prove così alte di vita non era più quello cui la Santa Alleanza aveva messo l'Austria sul petto.

Ma dunque entrato Garibaldi in Napoli, l'epopea finiva con la sua glorificazione? Oh, no! La fine lieta non conveniva a un poema così novo e grande come era il suo; perchè le imprese dei grandi sono veramente epiche solo a condizione che essi nel chiuderle se ne vadano avvolti in un velo di alta mestizia! E poi c'erano ancora sulla destra del Volturno quarantamila soldati di Re Francesco.

* * *

Cinque giorni dopo l'entrata trionfale in Napoli, il Dittatore, di sulle navi che gliele portavano frettolose dalla Calabria, pigliava le sue divisioni, non lasciava loro godere neppur la vista della gran città, le lanciava a Caserta, a Santa Maria, dove correva egli stesso, e le piantava sulla sinistra del Volturno, per un semicerchio di venti chilometri. C'erano ventimila soldati ch'ei poneva di fronte a quarantamila, sostenuti da una fortezza come Capua, assetati di vendette, ebri di promesse per quando avessero rimesso in Napoli il Re.

Bisognava stare ben desti e ben pronti!

Sul Volturno i due eserciti passavano il settembre in preparativi, tastandosi talvolta fieramente qua e là. Ma il Dittatore sentiva che l'ora tragica s'appressava. Dalla sua specola di Monte Sant'Angelo, vedeva tutto, indovinava tutto ciò che si faceva nel campo nemico. Alla fine «Fate buona guardia» disse ai suoi luogotenenti, «domattina saremo attaccati.» E all'alba del 1º ottobre furono attaccati davvero.

La narrazione della battaglia che pigliò nome dal Volturno fu scritta e subito e poi, e se ne scrive e se ne scriverà ancora. Ma a misura che le vanità se ne vanno, quella battaglia ingrandisce nella verità, e rivela come uno dei sommi capitani, colui che alle cinque pomeridiane, mentre si combatteva ancora, potè telegrafare a Napoli «Vittoria su tutta la linea.» E, disse vero il Guerzoni, fu vittoria piena, compiuta, gloriosa, e checchè altri abbia novellato, tutta dell'armi volontarie, tutta garibaldina; fu una delle più grosse battaglie che l'armi italiane abbiano combattuto. Ora l'esercito regio era vinto, ricacciato di là dal Volturno con l'animo rotto, perduto.

Tuttavia bisognava tenerlo in rispetto, e così cominciò l'assedio di Capua! Non era cosa da Garibaldi star a tracciar parallele, scavar trincee, piantar delle batterie dinnanzi a una città fortificata con entro un popolo di vecchi, di donne, di bambini a patire. Pur bisognava star lì, aspettando che la fortezza si rendesse da sè. E furono giorni lunghi fastidiosi, crudeli. E già tra i volontari si facevano dei discorsi cupi. Perchè verrà qui l'esercito del Re vittorioso nelle Marche e nell'Umbria? Verrà da amico o da soverchiatore? Bisogna pur dire la verità: entrava negli animi una grande malinconia. Solo Garibaldi rasserenava tutti, quando si faceva vedere. E un giorno si seppe che il colonnello dell'artiglieria sua gli aveva chiesto di lasciargli lanciar su Capua alcune bombe, perchè il comandante della fortezza potesse rendersi senza perder l'onore. «Griziotti, no! – si diceva avesse risposto Garibaldi. – Se un fanciullo, una donna, un vecchio, morisse per una bomba lanciata dal nostro campo, non avrei più pace.» E Griziotti: «Ma i nostri giovani si consumano di febbri, i battaglioni si assottigliano, muoiono.» E Garibaldi a lui: «Ci siam venuti anche a morire!» – «Giungeranno i Piemontesi, Generale; essi non avranno riguardi, con poche bombe faranno arrender la città, poi diranno che tutto quello che facemmo finora, senza di loro non avrebbe contato nulla.» E Garibaldi: «Lasciate che dicano, non Siam venuti per la gloria.» Fu grande? Si cerchi nella storia uno eguale a lui!

E i Piemontesi erano vicini davvero. O perchè Piemontesi? Non erano i soldati già di mezza Italia? Ma! Per antico vizio italico si parlava ancora così, quasi da tutti. Non però dal Dittatore.

Egli aveva indetto il plebiscito pel 21 ottobre, e quel giorno le due Sicilie votavano la fine dell'antico Reame, e la loro annessione al Regno nuovo di Vittorio Emanuele.

Tre giorni appresso, il Dittatore passava il Volturno a Formicola, con le divisioni di Bixio e di Türr. «Dove ci mena?» dissero i volontari: li menava a incontrare Vittorio che scendeva da Venafro. E il 26 ottobre, presso Teano, su quella terra che vide Silla e Sartorio in guerra feroce, le avanguardie garibaldine aspettarono il Re. Presso a una casa bianca, a un gran bivio dove delle pioppe già pallide lasciavano cader le foglie morte, c'era il Dittatore tra molte camicie rosse. Ad un tratto si udì la fanfara reale del Piemonte. Tutti a cavallo! Qualcuno ricordò poi che, in quel momento un contadino mezzo vestito di pelli si volse ai monti di Venafro, e con la mano alle sopracciglia, fisso l'occhio forse a leggere l'ora in qualche ombra di rupe lontana. Nota epica anche questa. Erano quasi le otto, ed ecco un rimescolio nel polverone, poi un galoppo e dei comandi e degli evviva: «Viva, Viva, Viva il Re!»

Allora quelli che erano là, videro un gran cosa. Comparve il Re, Garibaldi gli galoppò incontro, si diedero la mano: quel Dittatore che senza gloria di antenati aveva nel cuore tutta la forza che il popolo sa di rado rivelare, diede il saluto immortale che gridò Vittorio Re d'Italia. Chi mai a Carlo Alberto, quando appena salito al trono plaudì al concorso per un libro sui Capitani di ventura, chi gli avrebbe detto che uno condannato a morte in nome suo, come bandito di primo catalogo, sarebbe divenuto l'ultimo e il più grande e più puro della scuola d'armi dei Condottieri, e che 26 anni dopo avrebbe proclamato Re d'Italia il suo Vittorio in quei campi? Da quel giorno tutto volse rapidamente al termine. E il 6 novembre, nell'amplissimo viale che si protende dinnanzi alla reggia di Caserta, stavano le divisioni garibaldine già consapevoli d'esser messe in disparte. Ma era stato detto che il Re voleva passarle in rassegna. Quando sonarono le trombe i battaglioni si allinearono malcontenti. Apparve una cavalleria. Ah! quello che cavalcava alla testa non era il Re! Era Lui, col cappello all'ungherese calato giù, segno di tempesta. Passò quella cavalleria, giunse fino in fondo al viale, diede di volta, ripassò come un turbine, poi sparì. E poco appresso quei battaglioni furono condotti a sfilare dinanzi a Lui, piantato sulla gran porta del Palazzo Reale, come un monumento. Sentivano tutti che quella era l'ultima ora del suo comando, e a tutti veniva voglia d'andare a gettarsi ai suoi piedi e gridargli: «Generale, perchè non ci conducete tutti a morire? La via di Roma è là, seminatela delle nostre ossa!»

Egli, pallido come forse non era stato visto mai, guardava quei plotoni passare, e s'indovinava che il pianto gli si rivolgeva indietro ad allagargli il cuore.

Così finivano i canti centrali dell'epopea garibaldina. Quanto a lui, il 7 novembre entrava in Napoli con Vittorio Emanuele, l'8 gli consegnava il plebiscito, e all'alba del 9, su d'un vapore che portava il nome di Washington, suo vero fratello nei secoli, solo con quattro amici tornava a Caprera, quasi ancora con indosso gli stessi panni che aveva a Marsala.

«E non ne fosse uscito mai più!» dissero coloro che non avendolo capito mai, non lo capirono due anni di poi, quando cadde in Aspromonte confermando col suo sangue la legge di Roma. Però quelli stessi tacquero, quando nella guerra del Sessantasei non poterono disconoscerlo, almeno pel suo sublime «Obbedisco!» Ma tornarono ad imprecarlo quando fece Mentana. Altri, quando udirono ch'egli vinceva per tre giorni di seguito a Digione, credettero di elevarsi molto, dicendo che certo i Prussiani non s'erano degnati di combattere seriamente contro di lui. Anche questo fu detto. Ma fece ammenda per tutti il general Cialdini. Parlando di lui co' suoi pari, disse da onesto e prode come era: «Nessuno di noi gli arriva al ginocchio.» Diceva il vero. Ma ancora più che gran capitano Garibaldi fu Uomo nuovo. Per ora non si sa ancora riconoscerlo. Fu scritto che come in geologia si stenta a liberarsi dal concetto che tutta la storia del nostro globo sia una successione di catastrofi per lotte terribili tra le forze del Caos, così nella vita dell'umanità non sappiamo liberarci dall'ammirare i violenti trionfatori, perchè moralmente siamo ancora assai deboli. Ma quando l'umanità, sarà più consapevole di sè, e forte e capace di libertà e di giustizia, il tipo dell'Uomo sarà riconosciuto in lui. Non se ne favoleggerà, come non si favoleggiò guari di Colombo: ma ad ogni forma nuova di bene che si verrà trovando ed attuando, il giudizio delle genti riconoscerà che Garibaldi quella forma l'aveva già in sè. Allora si capirà come ei dall'azione passasse alla solitudine, perchè costumi, leggi, tutto doveva parergli troppo disforme dalla vita come ei la sentiva. Ma la solitudine su d'uno scoglio, dove nessun uomo avrebbe saputo durare senza morir di tedio, egli la popolava con l'ingegno del suo gran cuore, facendosi di quell'umile punta un mondo infinito come l'anima sua.

LA LIRICA

CONFERENZA
DI
ENRICO PANZACCHI

Dunque io vi parlerò nuovamente di poesie e di poeti, o amabili Signore, perchè così piacque al Comitato che stabilì il tema, e che mi diede anche il molto onorevole incarico di principiare la serie delle conferenze quest'anno; di queste conferenze così fortunate e, diciamo pure, anche così invidiate, soprattutto perchè ebbero sempre il vostro concorso e la benevolenza vostra.

La conferenza mia di quest'anno sarà una continuazione di quella dell'anno scorso; ma i tempi sono molto mutati e non in meglio per noi. Cercai l'anno scorso di tratteggiarvi il gran quadro degli avvenimenti di quella singolarissima epoca. Idee nuove, uomini nuovi, avvenimenti strani, insperati: e sopra tutto questo una meravigliosa esaltazione nelle menti, un entusiasmo gaudioso e virtuoso nei cuori. Tanto che se ci avessero soccorso il senno e la concordia, era proprio da sperare che l'Italia ne uscisse con qualche felice risultato. Invece il senno e la concordia difettarono. Molti rettili, io vi diceva, strisciarono in mezzo a tutti quei fiori, molte ombre si mescolarono a quella luce; ed avemmo la catastrofe, la grande catastrofe, nobilitata dal valore italiano sotto gli spalti di Novara, sulle mura di Roma e a Venezia. Il detto di Massimo d'Azeglio: «credevamo di essere uomini ed eravamo invece dei fanciulli» riassume, e riassume purtroppo psicologicamente e storicamente tutta quell'epoca.

Bisognava cambiare strada, bisognava mutare i metodi e la mèta. Era stato dunque un bel sogno la confederazione dei Principi italiani col Pontefice alla testa, e bisognava metterlo in disparte. Era stato un bel sogno la repubblica unitaria di Mazzini colla Costituente e non ci si poteva più pensare. S'imponeva insomma una nuova orientazione, la quale doveva avere per principio e per obbietto un regno italiano fortemente costituito e fedele alla libertà. Aveva dato già all'Italia l'esempio di lodevole coraggio nell'anticipare questa nuova orientazione Marco Minghetti, quando, d'improvviso, lasciava le anticamere del Papa, ove si cospirava contro l'Italia, per andare sotto le tende di Carlo Alberto ove si combatteva e si moriva per l'Italia. Aveva già dato esempio simile Terenzio Mamiani, quando, nella rovina di tutto e di tutti, aveva detto che ormai non restava patriotti altro partito da prendere che stringersi intorno alla Dinastia di Savoia ed attingere da essa gli auspicii e la forza dell'avvenire; Vincenzo Gioberti che aveva a Parigi abbandonata la sua utopia del Primato (di cui credo che fosse già guarito da un pezzo) e poneva il vigorosissimo intelletto alla formazione di un nuovo libro nel quale si studiavano i criterii ed i mezzi per un positivo rinnovamento italiano; Daniele Manin si era ormai mostrato persuaso che la sua repubblica veneta non era che un glorioso anacronismo evocato invano dalla illusione storica e dal sentimento generoso di tanti italiani, che per Venezia avevano dato l'anima e il sangue. Lo stesso Mazzini, pur non declinando dai suoi ideali dogmatici, si manteneva repubblicano, ma attestava e mostrava che soprattutto egli era unitario e che quando si mirasse veramente, efficacemente all'unità, non solo egli non poneva ostacolo, ma fino ad un certo punto sarebbe stato disposto a secondarla.

Letterariamente e poeticamente, o Signore, il periodo che corre dal 1849 al 1859 non è un gran periodo nel suo insieme; anzi si presenta come un periodo mediocre. Non vi sono grandi lampeggiamenti, non vi sono poderose affermazioni d'ingegno artistico; vi è qualche cosa più di abbozzato che di compiuto in esso. Io lo chiamai altra volta un periodo «bigio» per le nostre lettere, un periodo ove le tinte, i colori non sono bene spiccati e decisi, ove bisogna raccogliere, classificare i fatti, apprezzandoli soprattutto come sintomo, piuttosto che come preparazione dell'avvenire. La ragione di tutto questo parmi che vedesse molto bene Cesare Correnti in alcune sue pagine notevoli nelle quali campeggia questo ragionamento: la poesia s'imperna nel criterio della vita; e quando il criterio della vita è incerto e ondeggiante, la poesia non può dare grandi affermazioni. Il romanticismo, una gran forza espansiva, comunque si voglia esteticamente giudicarla, che aveva dominato tutta la prima metà del secolo, aveva raggiunto il suo apice e già accennava a declinare, come un movimento nel quale cominci a mostrarsi esaurita la forza iniziale, da cui era derivato. Anche la morte si era mescolata nella faccenda, ed aveva fatto la sua parte. Era morto Giuseppe Giusti portando anzi tempo nel sepolcro una meravigliosa attitudine di poesia, che si era così bene esplicata nella satira civile, e che aveva mostrato anche altre potenze di poeta lirico e di critico, le quali nella pienezza dell'età forse si sarebbero più efficacemente manifestate. Erano morti Silvio Pellico e Giovanni Berchet tramontati alquanto nella popolarità, ma dei quali duravano sempre gli scritti patriottici nel cuore e nell'anima popolare, e che dovevano essere rinfrescati e resi novamente di una dolorosa attualità per le frequenze dei nuovi e tristi esigli, per le nuove sventure così somiglianti a quelle che avevano colpito l'Italia dal ventuno al quarantasei. Era morto anche a Bologna il buon Giovanni Marchetti, di cui disse Luigi Carrer che aveva saputo strappare il segreto della soavità degli accenti alla lira di Francesco Petrarca e, ad essa aveva saputo disposare accenti di nobile patriotismo.

Alessandro Manzoni che si era taciuto da tanto tempo, a un tratto si faceva vivo e riempiva delle sue idee tutto il mondo letterario italiano colle questioni della lingua nazionale. È una questione molto seria, o Signore: In che lingua debbono parlare gl'Italiani, parlare soprattutto e scrivere?

Dopo sei secoli di civiltà e di letteratura nazionale, il più grande e il più autorevole ingegno degli Italiani veniva fuori a mettere in dubbio nientemeno che lo strumento del nostro pensiero! E Carlo Tenca, che dal suo Crepuscolo vigilava tutte le forme e tutti i movimenti del pensiero italiano covando, per così dire, tutte le faville che rimanevano ancora della nostra vitalità politica, grandemente s'impensieriva di questa questione sollevata dal più autorevole degli scrittori. Anche i poeti dunque, e gli scrittori, avevano una nuova ragione di aspettazione, d'incertezza e di titubanza. Si doveva attingere, come voleva Vincenzo Monti, dalla nostra lingua scritta e vivente, da tutta la collaborazione dei popoli italici e da tutti i valenti nostri scrittori, come pare che fosse anche il pensiero di Dante Alighieri, padre della nostra letteratura? oppure si doveva, come voleva il buon Cesari, immobilizzare tutta la nostra lingua negli esempi del Trecento? oppure, come veniva avanti ad affermare il Manzoni, era necessario costituire una specie di sede vivente in cui la lingua facesse sempre la sua prova vitale, e che potesse servire di modello perenne e di guida a tutti e di soluzione nei dubbi che potessero insorgere?.. Vi ripeto, tutto questo non doveva contribuire a dare delle forme energicamente direttive per la espressione dell'ingegno artistico e poetico negl'italiani; e non è da stupire che tutti i poeti di questo periodo ne risentissero un influsso di incertezza e di titubanza. Uno fra loro, più sincero degli altri, lo confessò apertamente. Paolo Gazzoletti scriveva: «Le mie poesie furono dettate, come è facile accorgersi, sotto l'influenza di studi, di scuole e di gusti diversi. Bruciai nel mio camino qualche granello d'incenso a tutte le forme, ed anche ai traviamenti delle forme.» – Poi soggiungeva: – «Ad ogni modo, per noi poeti, anzi per noi italiani il cantare è una fatalità e dallo stesso dolore e dalle stesse miserie nostre abbiamo, per disacerbarle, eccitamento al canto.» E concludeva un suo sonetto con questo verso: «È vocale il dolor de la mia terra!»

Anche troppo vocale, dico io; e se vi fu tempo in cui spesseggiassero i poeti mediocri e minimi, fu appunto questo decennio.

E simile lamento muoveva anche Ippolito Nievo il quale faceva le prime armi e dava la prima promessa del suo ingegno bellissimo, che sarebbe stato destinato a successi trionfali se una tragica morte non lo avesse còlto nel pieno vigore dell'ingegno e dell'età. D'altra parte abbiamo dei poeti minori, non privi certo di pregio, che si compiacevano a seguire l'indirizzo manzoniano in tutto ciò che aveva di più mite, di più mansueto, di più casalingo. Citerò solo Giulio Carcano di Milano, Emilio Frullani di Firenze. Aggiungasi, in generale, una grande irregolarità e licenza nei ritmi, e una grande povertà delle rime. Una delle necessità più vivamente sentita da chi abbia acuto e squisito il senso dell'arte, è quella di dare delle forme nettamente plastiche e precise ed euritmiche al componimento poetico. Invece in questo tempo si direbbe che dalla grande autorità del Leopardi si preferisce di dedurre soprattutto e quasi esclusivamente la libertà indeterminata della strofa; libertà indeterminata che fomentava, aiutava una grande verbosità, nemica mortale della efficacia scultoria. Quanto alle rime esse si andavano sempre più impoverendo; e non aveva torto un critico quando diceva che aprendo i libri di poesia di quel tempo (e sono tanti da formare delle enormi cataste), che esaminando certe collezioni allora famose, per esempio l'«Ape romantica» di Venezia, e le innumerevoli Strenne di Napoli in cui tutta l'attività partenopea pareva che si concentrasse, diceva che con poco più di cento parole si sarebbe potuto determinare il rimario della poesia italiana!.. E questo, o Signore, che sembra un particolare secondario, è invece un segno grandissimo; perchè non vi è grande poesia senza una tecnica eletta insieme e ricca e rigorosa; e quando tanto nel movimento della strofa quanto nella scelta delle rime è o irregolarità e licenza indeterminata o povertà, potete star certe che anche il pensiero rimarrà in difetto, tutto il nisus della forma poetica sarà in decadenza. E ne avete la riprova in questo: che noi abbiamo avuto un vero e proprio risorgimento nella poesia italiana solo quando son ritornate in onore le strofe severamente corrette ed euritmicamente rispondenti alle loro parti, e quando è ritornata in onore la scelta della rima ricca, eletta.

Ma non è tutta verbosità vuota, non è tutta divagazione sentimentale la poesia italiana di questo tempo. Vi è qualche cosa di «meditabondo» nella nostra cultura. Anche nel campo del pensiero, e solamente nel campo del pensiero, perchè ormai l'azione era interdetta dalla servitù politica, si sente il bisogno di raccogliersi e pensare seriamente. Alcune discipline si avvantaggiano; lo studio della lingua non è più ridotto a semplice scelta di frasi; si comincia a sentire la profonda vacuità della scuola del Cesari buona come antidoto, come egli lo chiamava, contro l'invadente francesismo del primo quarto di secolo in Italia, ma per sè stessa insufficente al grande ufficio della lingua intesa come strumento del pensiero e come rispecchiamento dell'anima della Nazione. Dallo studio formale e superficiale della lingua si passava a un tentativo sempre più spiccato di penetrare a fondo nell'indole, nella filosofia del linguaggio; e a Firenze, a Torino, a Milano e altrove si cominciano a costituire delle scuole filologiche che pongono nel nostro terreno ottimi germi, i quali col tempo poi copiosamente frutteranno. Il fenomeno passa dalla filologia nella poesia vera e propria, e si comincia a tentare un più stretto connubio, una più efficace intimità tra la poesia pura forma e la sostanza del pensiero; tra il sentimento, nella sua vaghezza indeterminata, e certi fini ben determinati e prefissi e certi alti ideali a cui l'arte doveva servire. La vanità della formula «l'arte per l'arte» va cadendo sempre più in discredito. Fu accolto con molto applauso, se non molto letto, un poema di Lorenzo Costa genovese, abilissimo fabbro di versi, il quale con degli sciolti veramente mirabili si era prefisso ed aveva in gran parte raggiunto l'intento di celebrare le più meravigliose scoperte dell'ingegno umano nelle industrie, e nella meccanica. Altri poeti avevano seguito questo impulso. Dirò anzi, che si può considerarlo come una preoccupazione dominante allora negl'ingegni nostri. L'Aleardi, per esempio, vuole compensare più che può una certa vacuità che è nei suoi canti fantasiosi e sentimentali, e ricorre alla geologia e ricorre alla botanica. Si direbbe che già egli si prepari fin d'allora per il disperato cimento al quale si lasciò andare pochi anni dopo, di celebrare in versi il sistema economico di Federigo Bastiat. Ebbe in questo un infelice compagno nel Martinelli bolognese, che volle con dei Sermoni dedicati a Marco Minghetti niente meno che dar forma poetica a tutti i teoremi della economia classica inglese. Anche Giacomo Zanella nel seminario di Vicenza sta maturando il suo ingegno e si prepara a dare egli pure un contributo assai notevole a questo tentativo di connubio fra la poesia e la scienza: si prepara ad essere il futuro autore della Conchiglia fossile e del memorabile dialogo teologico-astronomico tra Galileo e Giovanni Milton; si prepara ad essere, come disse con frase veridica Giosuè Carducci, il castigato, forbito ed eloquente cantore dell'industria e delle solennità del tecnicismo.

Ma anche lo Zanella poco lustro doveva dare a questo decennio, perchè la sua fama doveva fiorire dipoi. Egli era destinato ad essere il poeta prediletto del decennio che seguì; doveva essere in esso il poeta favorito delle gentili dame, degli ingegni eleganti e soprattutto degli spiriti temperati che vagheggiavano di comporre in armonie superiori, degli elementi fra loro cozzanti, e che non disperavano di queste armonie e si compiacevano di trovare nel prete liberale di Vicenza un degno e notevole aiuto di poesia e di arte.

Insomma, quando voi avete bene scrutato l'orizzonte e investigato da ogni parte, voi dovrete venire a questa conclusione: che il decennio italiano che corre dal Quarantanove al Cinquantanove, non ha che due poeti veramente notevoli: il Prati e l'Aleardi. Lascio da parte Niccolò Tommaseo, il quale meriterebbe uno studio a sè per la grande intensità e arditezza del suo ingegno poetico, ed è invece così poco noto e così mediocremente apprezzato. Lo lascio da parte, perchè anche egli diede i migliori frutti come poeta nell'epoca precedente, e perchè egli si occupò soprattutto di studi filosofici e religiosi.

Aleardo Aleardi dunque e Giovanni Prati sono i due poeti che signoreggiano l'epoca, e quasi vi regnano in solitudine.

Yaş sınırı:
12+
Litres'teki yayın tarihi:
27 aralık 2017
Hacim:
140 s. 1 illüstrasyon
Telif hakkı:
Public Domain
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