Kitabı oku: «Exil und Heimatferne in der Literatur des Humanismus von Petrarca bis zum Anfang des 16. Jahrhunderts», sayfa 11
Era quanto i fiorentini contemporanei dell’Alberti, e quelli anche delle prime generazioni seguenti, ben sapevano e fecero caparbiamente valere nella multiforme, mai contraddetta censura con cui tentarono di sotterrarne l’opera e nell’autentico ostracismo con cui ne colpirono il nome medesimo, deliberatamente taciuto – si sa – non soltanto nelle carte di Giovanni di Paolo Rucellai, ma persino laddove, come nelle Vite di Vespasiano da Bisticci, ci si vedeva costretti ad accennare all’una o all’altra delle molteplici sue iniziative. È quanto a ben vedere traluce nella stessa editio princeps del De re ædificatoria, che insieme anticipa d’un soffio, fiorentinizzandola, un’iniziativa chiaramente nell’aria in molti luoghi d’Italia, e non soltanto d’Italia, e censura tutto il resto della multiforme produzione albertiana;26 ed è quanto, ancora, la stampa tardissima, della metà dell’Ottocento, e per iniziativa di un non toscano, il Bonucci, della serie intera dei suoi dialoghi volgari, o la circolazione manoscritta e a stampa essenzialmente extra-fiorentina della massima parte della sua opera latina inequivocabilmente dimostra a chi ancora volesse dubitarne.
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Capolavoro del dialogo albertiano, e del dialogo rinascimentale tout court, i libri de Familia impostano dunque e al tempo stesso chiudono o archiviano il tentativo dall’Alberti compiuto negli anni Trenta di fiorentinizzarsi. Non sarà inutile rilevare al riguardo come in quel medesimo torno d’anni, e a ben vedere con identica forzatura, quel tentativo trovi espressione altresí nella dedica al Brunelleschi,27 non già e non certo del De pictura, né già sic et simpliciter della redazione volgare di quel trattato sotto ogni riguardo fondativo e rivoluzionario, ma di un solo esemplare di tale redazione del De pictura: il codice oggi II iv 38 (olim Magl. XXI 119) della fiorentina Biblioteca Nazionale Centrale, codice, com’è noto, legato allo scrittoio o al laboratorio personale dell’autore stesso, dal quale non sembra, vivente l’Alberti, esser mai uscito; ed esemplare, dunque, mai presentato al destinatario, al Brunelleschi.
Eloquente in tal senso è il fatto stesso che di quella redazione volgare, che quasi non circolò e di cui si perse ben presto, nell’Europa del Rinascimento e a Firenze stessa, ogni notizia o memoria – come ho altrove già rilevato, le versioni italiane del Domenichi prima (1546 e 1565) e del Bartoli poi (1568) seguono, in ogni senso del termine, l’editio princeps del testo latino stampata a Basilea nel 1540! –, siano noti solo due altri testimoni manoscritti,28 e ch’essi siano entrambi in toto indipendenti dal succitato codice recante il Prologus al Brunelleschi. Come la presentazione cosí anche la dedica a questi della riduzione in volgare del trattato dovette, insomma, restare un progetto non mandato ad effetto, un’idea in prosieguo di tempo abbandonata dall’autore.29
Ma torniamo ai libri de Familia che, dicevamo, impostano e insieme sostanzialmente archiviano il tentativo albertiano di fiorentinizzarsi. Lo fanno dando vita a un dialogo il cui autore entra direttamente in gara coi massimi rappresentanti della tradizione classica greco-romana – e giudica persino, nell’ultimo libro, d’averli inequivocabilmente superati.30 L’ardito, arditissimo disegno dell’opera, e piú ancora forse del suo libro de Amicitia, l’imprudente genialità di cui l’Alberti dà prova nella sua esecuzione – tanto piú imprudente in quanto accompagnantesi ad altre sue rivoluzionarie prove, prima fra tutte quella della dimostrazione della grammaticalità del volgare e della sua derivazione dal latino nel Della lingua toscana, dimostrazione dolorosa per una parte non piccola dell’élite umanistica del tempo e dolorosissima per Leonardo Bruni in particolare –, suscitarono contro di lui, com’è noto, la spietata, tenacissima censura dell’establishment culturale umanistico e dell’intelligencija fiorentina tutta in occasione del Certame dell’ottobre 1441.
Il verdetto dei giudici umanistici e della Firenze ufficiale, verdetto senza appello e, come tutto induce a credere, rinnovato e fatto valere in molteplici occasioni lungo l’intero secolo seguente (e oltre) a Firenze, non lasciò all’Alberti altra scelta che quella d’archiviare definitivamente il tentativo compiuto – tentativo di fiorentinizzazione e, in un senso, acclimatazione nell’ancestrale patria del padre. E invero la sua opera seguente e i decennî da lui vissuti dopo di allora testimoniano di un’almeno progressiva sua appropriazione e valorizzazione di una patria piú vera e piú ampia, quella di una classicità dinamicamente intesa e di un’italicità senza confronto sfaccettata e ricca. Col che, sia lecito concludere, egli superava, archiviandolo, anche l’originario suo sentimento d’esclusione e d’esilio – quel sentimento che tanta parte aveva per l’appunto avuto nella concezione del De familia e nell’adozione stessa del volgare –, facendo del persistente, oggettivo proprio sradicamento quella definitiva, e privilegiata, condizione di riflessione, di creazione e di scrittura, non meno che d’alterità intellettuale e creativa, cui l’intera sua opera in ultima analisi rinvia.31
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Esilio e satira in un epigramma di Porcelio de’ Pandoni
Antonietta Iacono (Napoli)
Negli anni tra il 1455 ed il 1456 Porcelio de’ Pandoni1 progettò di mettere insieme una raccolta di Epigrammata in onore di Francesco Sforza, il principe che s’era mostrato disposto ad accoglierlo presso la sua corte per il tramite di due personaggi di gran prestigio, l’umanista Francesco Filelfo e il primo secretario ducale Cicco Simonetta. La raccolta, che ci è giunta in piú redazioni testualmente e strutturalmente diverse, è a me nota nella forma documentata da tre testimoni allestiti dall’autore stesso o sotto la sua supervisione e rilevanti per valore documentario:
1. Berlin, Staatsbibliothek, Lat. qu. 390=B
membr., sec. XV, 250×170mm, cc. I+52+I; miniature a bianchi girari che interessano esclusivamente le lettere iniziali (cc. 2r, 8r, 17r, 24r, 32r, 37v, 43r, 48r). Sul piatto anteriore nel margine superiore si legge la nota Cl(arissimi) poetæ laureati ab imp(eratore) Federico III. Porcelii Epigrammata sunt hæc anno D(omi)ni 1452 (apud) agrum Brixiensem. A c. 2r compare il titolo della raccolta: Epigrammata Porcelii poe / tæ laureati de summis / imperatoris laudibus Francisci Sfortiæ Mediolanen / sium ducis.2
2. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb. Lat. 708=U
membr., sec. XV, 237×165, cc. I+57+I, miniato in oro e colori; stemma sforzesco, tit. Porcelii poetæ laureati Epigrammata parva incipiunt; a c. 53r: Finit per Porcelium poetam laureatum / anno Domini 1456 seguito da un carme di dedica Illustrissimo Mediolanensium duci Francisco Sfortiæ (inc. Accipe tranquillæ quæ do tibi præmia pacis; expl. vivet et æternum gloria vatis ope).3
3. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 2857=V
cart., sec. XV, 170×240, cc. IV+44+III; fascicolazione irregolare; a c. 44v si legge finit tertius (liber) 1456 dopo un carme, che qui non reca titolo (inc. Accipe tranquillæ quæ do tibi præmia pacis; expl. vivet et æternum gloria vatis ope). Contiene una raccolta di Epigrammata del Pandoni, che mostra una sostanziale convergenza con il contenuto dell’Urb. Lat. 708. La data, 1456, che si legge alla c. 44v, ma anche a c. 1r defilata nel margine superiore destro, concorda con quella recata dal codice Urb. Lat. 708 (c. 53r).4
Il codice berlinese è un manoscritto membranaceo con miniature a bianchi girari che interessano esclusivamente le lettere iniziali (cc. 2r, 8r, 17r, 24r, 32r, 37v, 43r, 48r). Il testo d’impianto è vergato in un’elegante umanistica ricorretta da altra mano identificata come quella del Pandoni. Nella pagina incipitaria (2r) il serto retto da due angeli appena abbozzati (con le sole ali colorate in oro) destinato ad accogliere lo stemma del dedicatario è stato lasciato vuoto: lo stemma mancante nella carta d’apertura svela che la progettata copia di dedica non fu ultimata e che non arrivò mai nelle mani di un destinatario. L’allestimento del codice subí un arresto e da pregevole copia di dedica esso si trasformò in copia di lavoro, nei cui margini e interlinea l’autore operò una fitta serie di correzioni e aggiunte testuali. Alla mia valutazione emerge che nell’originario progetto di allestimento (poi abbandonato) la ricorrenza delle capolettere miniate doveva scandire l’articolazione della raccolta posta dall’autore sotto il nome di Francesco Sforza in otto sezioni, ciascuna aperta da un carme proemiale indirizzato a un illustre destinatario.5 Il codice, per vicende personali del poeta e sotto l’incalzante opera di revisione esercitata sui testi, si trasformò in un contenitore di componimenti pensati e scritti per persone di rango e ambienti cortigiani, componimenti, però, anche soggetti a riutilizzi e riscritture funzionali agli interessi contingenti dell’autore stesso. La complessa stratificazione dell’opera di composizione e di revisione dei singoli carmi rende difficile la datazione del piano originario d’allestimento del codice, sicché, senza addentrarmi nella questione, mi limito a indicare la data ipotizzata per la sua messa a punto nel 1466, data dopo la quale il codice rimase nello scrittoio del Pandoni destinato a fornire via via testi da modificare per essere attualizzati e acconciati ai nuovi progetti di vita, di pubblico, di studio dell’umanista.6 Il codice berlinese, quindi, per l’operazione di revisione che l’autore effettua sui carmi è portatore d’una silloge strutturalmente instabile, perché soggetta a modifiche testuali mirate al riutilizzo di testi composti anche in tempi lontani.7
Il codice Urb. Lat. 708 si presenta come una copia di dedica, sorvegliata dall’autore stesso, che interviene sul testo dei componimenti con una serie di accurate aggiunte, piccoli aggiustamenti e correzioni. Esso presenta, sí, molti punti di contatto col codice berlinese, ma ha una storia profondamente diversa. La nota anno Domini 1456 recata alla c. 53r lo colloca alla corte sforzesca, e il carme-epigrafe che si legge alle cc. 53r–v (lo stesso che si ritrova a c. 44v di V) pone la silloge di Epigrammata sotto il nome del duca e ne ribadisce il carattere di dono destinato all’illustre destinatario:
Accipe tranquillæ quæ do tibi præmia pacis,
Ausoniæ o sydus spesque decusque lyræ.
Incipiam posthac, o nostro tempore Cæsar,
Prælia et Anguigeri bella severa ducis
Sfortigenasque acies et partos marte triumphos
Sanguineo et vera gloria quanta tibi.
Sic, dux et princeps, totum volitabis in orbem
Vivet et æternum gloria vatis ope.
In definitiva, quest’elegante libello dalla struttura coerente e monografica fino a c. 538 è il risultato dell’attività d’un poeta pienamente assorbito dall’ambiente milanese, da storie personali di speranza, di ricerca di mecenati, d’amicizie e, al solito, anche d’irriducibili ostilità.
Il codice Vat. Lat. 2857 contiene una raccolta di Epigrammata che sembrerebbe scandita in tre libri, se si accolgono i suggerimenti delle notazioni (che a me sembrano autografe) che si leggono a c. 15v: finit primus liber; a c. 16r nel margine superiore: 2us lib(er) incipit; a c. 28v: liber tertius incipit; e a c. 44v: tertius <liber> finit. Denso di correzioni, espunzioni e varianti dovute anch’esse alla mano dell’autore il codice presenta una raccolta di Epigrammata imparentata con quella esibita dall’Urbinate.
A Milano e alla corte degli Sforza il Pandoni dovette approdare nel 14569 e trovare un ambiente accogliente e due protettori – come già ricordato – nel segretario ducale, Cicco Simonetta, e nell’umanista Francesco Filelfo. Anche la permanenza milanese era, però, destinata a durare poco, dal 1456 all’aprile del 1459, e a esser turbata da inimicizie con gli intellettuali dell’entourage sforzesco. Infatti, una serie di carmi ingiuriosi rivolti contro Pier Candido Decembrio documenta l’odio viscerale del Pandoni nei confronti di quell’intellettuale potente e autorevole alla corte milanese, un odio alimentato forse per via indiretta dal Filelfo, notoriamente ostile a quell’umanista.10 E presto dovettero incrinarsi anche i rapporti col Filelfo, che già in una lettera del novembre del 1456 chiedeva al Pandoni di restituirgli quanto gli aveva prestato (non si sa se soldi o roba),11 cui si aggiungono alcuni epigrammi a contenuto osceno e ingiurioso sia di Francesco sia di Gianmario Filelfo volti a suscitare il pubblico ludibrio nei confronti del poeta.12 Quando questi si allontanò da Milano è difficile dire con esattezza, ma dalla lettera di dedica dell’opusculum aureum de Talento datata 1° febbraio del 1459 e indirizzata a Cicco Simonetta si ricava ch’egli si trovava sicuramente ancora a Milano in tale data.13
In tutti e tre i codici la raccolta di epigrammata si apre con lo stesso carme (inc. Ibit ad Insubrum superatis Alpibus urbem UV, Ibit ad Insubrum superatis fluctibus urbem B; expl. Dat Latio leges et favet ingeniis BUV), che in U reca il seguente e piuttosto articolato titolo:
Poeta discedens ab urbe Roma se / confert ad Illustr(issimum) militiæ impera(torem) / F(ranciscum) S(fortiam) ac veniam petens ab ampliss(imo) P(atre) / pr(incipe) Cardinali Columna ostendit in / hac epistula quare urbem Romam et Neapolim pa / triam deserat cum summa laude et gloria / Sforcigenæ imperatoris;
in V il titolo, anch’esso dettagliato e di difficile lettura:
Ad amp(lissimum) p(rincipem) d(ominum) Prosperum cardinalem Columnam de abitu / poetæ ab urbe Roma et a patria Parthenope ut se conf(erat) / Ad ill(ustrissimum) pr(incipem) Fr(anciscum) S(fortiam) Vicecomitem inclytum militiæ imp(eratorem) / et Mediolani ducem ob (…)rum et virtutem et vitæ / claritatem incipit;14
e in B, infine, reca il titolo:
Ad cardinalem / de Columna lege felicter de abitu ab ur / be et patria / Parthenope.
Il carme proemiale si presenta come un addio alla città di Napoli, patria del poeta, e come proposizione di un nuovo progetto di vita, il trasferimento a Milano presso la corte di Francesco Sforza, che viene celebrato per le virtú guerriere e per la giustizia e la pace che regna nei territorî sotto il suo dominio, ed è esaltato come nuovo Augusto portatore d’una novella e tà dell’oro – una celebrazione topica in ambito umanistico, ma di grande impatto ideologico.15 Si apre cosí in forma personale ed esistenziale, ma anche con toni encomiastici, una raccolta di Epigrammata che si presenta nel segno dello Sforza, dal momento che il titolo del codice di Berlino pone in rilievo proprio l’aspetto laudativo e celebrativo della silloge de summis imperatoris laudibus Francisci Sfortiæ Mediolanensium ducis; perché nella carta d’apertura di U campeggiano le iniziali del duca nel segno di un’apostrofe a lui, per l’appunto Francisco Sfortiæ, rivolta perché legga feliciter i versi destinatigli, ed infine nel segno sempre dello Sforza, a cc. 53r–v di U e a c. 44v di V, il carme-epigrafe sigilla la raccolta.
L’epigramma longum presenta una struttura complessa che in termini generali si può riassumere in tre momenti. La prima parte si configura infatti come un’appassionata apostrofe al cardinal Prospero, membro dell’illustre famiglia dei Colonna ch’ebbe un ruolo non secondario nella formazione romana del poeta e che nel corso degli anni Trenta del Quattrocento fu punto di riferimento politico e ideologico importante per l’umanista.16 Questa sezione del carme si presenta anche come un addio alla città di Roma, che il poeta delinea in una descrizione tutta focalizzata sulle tracce della sua antichità e, quindi, fortemente caratterizzata in senso antiquario, secondo una sensibilità specifica del Pandoni. La seconda parte esalta in toni aulici il duca di Milano e la sua corte, una corte dove vivono intellettuali che rinnovano con le loro opere la grande tradizione della classicità legata ai nomi di Cicerone, Sallustio e Virgilio, e dove vive de Mecenate propago Cicco Simonetta, che il Pandoni considera e celebra come suo patrono. In tale sezione egli rinnova la promessa di un canto indirizzato al duca, un canto che concederà al Signore di Milano gloria ed eternità pari a quella degli antichi eroi (vv. 131–144 UV=103–116 B):
Tunc ego Phœbeo lætus modulabor œstro
Et statuam sexto grandius ire pede.
Tunc tibi cantabunt mea numina, Phoebus et alma
Cecropis et Musæ turba vocata novem;
Hic acies, hic bella, duces populosque subactos,
Unde tibi æternum, Sfortia, nomen erit,
In quem pene omnes coniuravere Latini
Et rex et regis miles et arma ducum.
Hic patris imperium et tituli scribemus arma,
Hic genus omne tuum Sforcigenasque deos.
Cantabo armatas convexo umbone phalanges
Et Venetum pulsos in sua regna duces.
O mihi si liceat divo sub principe vitam
Ducere, quas acies, quæ fera signa canam!
La parte finale segna una vera e propria svolta all’interno del componimento: in essa, infatti, il poeta adotta un tono polemico, satirico e invettivo, dichiarando le ragioni che lo hanno costretto ad allontanarsi dalla sua patria, Napoli, di cui traccia un fosco quadro che significativamente capovolge il mito d’una città edenica, luogo quasi di un paradiso in terra e specchio d’una corte magnifica e coesa intorno a un sovrano virtutum omnium viva imago,17 e condanna le mode allogene importate dai príncipi aragonesi in quanto lontanissime dall’austerità del mos maiorum della tradizione napoletana.18
Significative varianti testuali e strutturali concorrono a distinguere le versioni dell’epigramma tràdite dai testimoni a me noti, dal momento che B reca una redazione brevior di 176 versi, e UV recano una redazione longior sostanzialmente convergente di 204 versi. Le divergenze redazionali macroscopiche si possono cogliere nel quadro sinottico che fornisco di séguito:
UV 1–76 77–86 87–88 con differenze testuali 89-90 91–94 con differenze testuali 95–98 99–110 111–120 121–122 123–126 127–128 129–204 | → → → → → → → → | B 1–76 mancanti 77–78 mancanti 79–82 83–86 mancanti 87–96 mancanti 97–100 mancanti 101–176 |
Senza addentrarmi in una valutazione strettamente filologica delle varianti strutturali e testuali mi limito qui a rilevare che i versi mancanti nella versione brevior sono generalmente rivolti alla celebrazione e all’encomio del duca e dell’entourage sforzesco, e che la porzione iniziale con l’apostrofe al cardinal Prospero Colonna e l’addio a Roma, agli amici e alla famiglia (vv. 1–60 UVB), come la porzione finale in cui il poeta spiega le ragioni del proprio allontamento da Napoli (vv. 173–204 UV=145–176 B), sono testualmente e strutturalmente convergenti nei tre testimoni.
Il legame insieme con Napoli e con Roma spiega il congedo doppio escogitato dal poeta, rivolto dapprima in toni accorati e malinconi nella parte iniziale a Roma, alla sua famiglia e agli amici d’ambiente romano, e poi con toni invettivi nella parte finale a Napoli, sua patria d’origine. In piú luoghi della propria poesia, infatti, il Pandoni chiamò Napoli esplicitamente come sua patria, non mancando però di rimarcare il proprio legame con Roma, dove trascorse una parte importante della vita e, certamente, gli anni della formazione.19 Cosí, in un autoepitaffio il Pandoni si celebra come poeta che canta laudes vatumque ducumque e ricorda Parthenope come sua patria, dichiarando d’appartenere alla casata dei Pandoni e citando lo stesso suo legame con Roma:
Qui cecini egregias laudes vatumque ducumque
condor in hoc tumulo carmine perpetuo:
Porcelius nomen, Pandonus sanguine. Romam
incolui egregiam, patria Parthenope.
Hic sita sit coniux dignissima vate marito
hic soboles quanta est; hic sua posteritas.20